Mobilitarsi / Il razzismo non è un pretesto
In un contesto politico in cui si discute di censimenti su base etnica e di chiusura dei porti alle imbarcazioni che soccorrono i migranti nel Mediterraneo, si sta tornando a parlare, con una certa regolarità e dopo molto tempo, di razzismo. Sia chiaro, la riflessione sul razzismo italiano da parte degli addetti ai lavori non si è mai interrotta negli ultimi due decenni – ma sarebbe purtroppo illusorio attribuirle una significativa influenza sull’opinione pubblica. Nelle scorse settimane, invece, anche i media generalisti sembrano aver manifestato interesse per il tema – vedremo nel prossimo periodo se in modo meramente estemporaneo o, come c’è da sperare, in maniera più strutturale.
È impossibile prevedere in questo momento se la riapertura di una discussione esplicita sul tema (che parta cioè dal chiamarlo con il proprio nome, rinunciando ad eufemismi spesso distorcenti e tanto comuni in anni recenti) sortirà dei reali effetti sul dibattito politico. Forse proprio per tale motivo vale la pena di provare a decostruire da subito uno dei miti più comuni e diffusi rispetto al razzismo in Italia – vale a dire quello che lo vorrebbe come mero pretesto per l’applicazione di una precisa agenda di governo su altri fronti, anzitutto economici, da parte di formazioni politiche che agiterebbero lo spauracchio del diverso come arma di distrazione di massa, come mero capro espiatorio su cui convogliare la rabbia di un elettorato sempre più disilluso.
Si tratta di una visione particolarmente diffusa tra coloro che si autodefiniscono di sinistra e presso una certa opinione che sovente rappresentata se stessa come colta – il ceto medio riflessivo, gli editorialisti più o meno pensosi, in una frase coloro che anche in questi giorni tendono a contrapporre il proprio raziocinio bene informato ai sentimenti supposti atavici e irrazionali delle masse. Il razzismo, ci ripetono costoro, è uno specchio per le allodole, un pretesto per irretire il popolo mentre si archiviano le vere questioni socio-economiche – l’aumento della disuguaglianza, la crescente precarietà sui luoghi di lavoro, l’elevata disoccupazione giovanile e così via. I partiti, come la Lega, che tesaurizzano in termini di gradimento politico la messa all’opera di una retorica razzista non lo farebbero tanto per convinzione, quanto per calcolato cinismo, per mascherare la propria incapacità di fornire soluzione ai problemi reali del paese.
In questo senso, i toni sempre più recisi ed espliciti con cui vengono mobilitati stereotipi di stampo razziale non indicherebbero che il perdurante stato di crisi dell’Italia su altri fronti – sappiamo tutti che le razze non esistono, ma quando l’esasperazione monta (magari anche a ragione), le spiegazioni facili che attribuiscono la responsabilità a una precisa minoranza risultano particolarmente attraenti, anche a livello puramente inconscio.
La maggioranza degli italiani, in generale, non sarebbe razzista, ma più che altro vittima di una sorta di raggiro, per dirla con Luigi Manconi e Federica Resta, di una manciata di imprenditori politici della paura.
Letture di questo tipo ci forniscono un esempio emblematico di quello che Anna Curcio e Miguel Mellino hanno definito l’anti-essenzialismo facile di molti discorsi nostrani sul razzismo: un approccio che, se non mette in dubbio la natura socialmente costruita di ogni divisione razziale, le nega qualsiasi centralità, riducendola a effetto di altri processi. Così facendo, il ruolo costitutivo del razzismo nella storia italiana – non solo culturale, ma anche economica – finisce per venire del tutto obliterato. Può allora essere interessante ripercorrere i principali passaggi nei quali le dinamiche di razzializzazione hanno, con diverse declinazioni, segnato la traiettoria del paese.
Si potrebbe partire da uno dei momenti topici dei discorsi sull’italianità: il celebre “Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani” attribuito a Massimo D’Azeglio – il quale, se pure non fu mai autore della lettera di una tale massima, può certamente esserne considerato il suo padre spirituale. Per quanto sia spesso stata letta come un appello volto alla creazione di un’identità nazionale in un paese che, ai suoi albori, si presentava attraversato da profonde divisioni linguistiche, culturali ed economiche, non sono mancate interpretazioni di segno differente – Christopher Duggan, ad esempio, rilevava come D’Azeglio, rifacendosi a un lungo filone di pensiero, intendesse con tale affermazione anzitutto invocare un superamento di quelli che egli vedeva come i vizi (l’inoperosità, la pusillanimità, l’indisciplina, la corruzione) alla base della lunga decadenza che aveva fatto seguito al Rinascimento. Queste caratteristiche negative erano, all’indomani dell’unificazione, concepite come tutt’altro che diffuse in modo omogeneo tra nord e sud.
Nel soffocare nel sangue la resistenza armata all’unità messa in atto dal brigantaggio e da quel che restava dell’esercito borbonico, le truppe del neonato regno d’Italia offrirono un’anticipazione – “per le inaudite violenze e il disprezzo degli avversari”, ha scritto Angelo Del Boca – di quanto sarebbe avvenuto nei successivi conflitti coloniali in Africa (il generale Cialdini, ad esempio, dichiarò: “Questa è Africa! Altro che Italia! I beduini, a riscontro di questi cafoni, sono latte e miele”).
La prima forma di razzismo post-unitario fu quindi di tipo interno, ed ebbe implicazioni rilevanti in ambito sia culturale che socio-economico – le quali, per quanto in modo ovviamente non deterministico, avanzarono spesso di pari passo. Mentre alcuni dei più celebri intellettuali italiani di fine Ottocento, come Cesare Lombroso e Alfonso Niceforo, ammantavano di autorevolezza scientifica tesi che traducevano la “diversità” culturale della popolazione meridionale in termini di inferiorità razziale, infatti, lo sviluppo economico della penisola si polarizzava sempre più verso il nord – come oggi rilevabile anche da una rigorosa analisi dei dati empirici. La sostanziale indifferenza dei governi liberali ai sempre più consistenti flussi migratori in partenza verso l’estero alla fine del secolo ebbe certamente a che fare con il fatto che essi fossero localizzati in prevalenza al sud.
In tal senso, si omette quasi sempre di ricordare che la razzializzazione degli immigrati italiani negli Stati Uniti fu direttamente influenzata, come dimostrato da Peter D’Agostino, dal razzismo antimeridionale rinvenibile nelle opere dell’antropologia italiana del tempo. In America, gli italiani erano definiti come non bianchi, con tutte le conseguenze che questo comportava – ad esempio in termini di condizioni lavorative più sfavorevoli (con relativa impossibilità di accesso agli impieghi migliori) di quelle di autoctoni e immigrati nord-europei.
Una certa retorica romantica sugli italiani come popolo intrinsecamente accogliente alla luce della propria passata discriminazione va rifiutata, oltre che per il suo essenzialismo e per la messa tra parentesi della propria genealogia, anche perché semplicistica sul piano storico: negli Stati Uniti, ad esempio, sussistevano delle differenze estremamente significative (anzitutto in termini di possibilità di mobilità sociale, partecipazione alla vita politica e integrazione nel corso delle generazioni) tra le condizioni degli italiani (e di qualunque altra categoria di immigrati europei) e quelle della popolazione di colore, con i primi che non di rado mostravano atteggiamenti razzistici nei confronti della seconda. A questo proposito, David Roediger ha parlato appropriatamente di inbetweenness per descrivere la forma di razzismo derivante dall’essere discriminati senza venire però collocati sull’ultimo gradino della gerarchia razziale.
Se l’emigrazione fu un fenomeno che segnò fortemente la storia (anche economica) dell’Italia post-unitaria e intrattenne con le dinamiche di razzializzazione gli intricati rapporti cui si è accennato, il colonialismo ne rappresentò per certi versi un contraltare. Da un lato, le spedizioni coloniali in Abissinia e Tripolitania costituirono un passo ulteriore nella creazione di un’identità nazionale più omogenea, ponendo le basi per un razzismo diretto verso l’esterno; dall’altro, la propaganda imperialista, con la sua deplorazione dell’Italia rurale e provinciale e la promozione di una nozione di italianità fondamentalmente elitista, recava tracce evidenti di un razzismo interno ancora presente.
Il fascismo, mentre separava la mobilitazione delle masse da ogni prospettiva emancipatrice, avviò una nuova ondata di razzializzazione: il regime mise in atto una costruzione oppositiva bianco/nero nella quale il secondo polo era collocato al di là dei confini nazionali, nelle colonie d’oltremare – e la popolazione meridionale venne pienamente ricompresa in questo meccanismo simbolico tramite quella che Gaia Giuliani ha efficacemente chiamato “educazione all’italianità mediante la cittadinanza imperiale”. Come ormai dimostrato inequivocabilmente in sede storiografica, ben prima della svolta “arianista” del 1938 il fascismo aveva sviluppato una sua variante di razzismo mediterraneista – virtualmente assente, come i propri predecessori, anche dal dibattito in Assemblea Costituente.
A partire dal secondo dopoguerra, il tema divenne oggetto di una rimozione resa possibile da un dispositivo di autoassoluzione incentrato sull’immagine del campo di sterminio di Auschwitz, che diventando emblema del razzismo antisemitico nazista finiva per porre in ombra, soprattutto in Italia, l’ingombrante portato razzista del colonialismo e del fascismo – quest’ultimo derubricato all’occorrenza come fautore di un razzismo bonario e non particolarmente convinto di se stesso con un’operazione di maquillage priva di ogni sostanza, ma capace di esercitare un’influenza nefasta a livello giornalistico-divulgativo (si pensi soltanto a Montanelli).
Tutto ciò non significa che le dinamiche di razzializzazione si interruppero. Il cosiddetto boom economico degli anni ’50-’60 fu reso possibile, tra l’altro, da una nuova forma di razzismo anti-meridionale che riguardò quella rilevante quota di popolazione che si spostò in quel periodo da sud a nord alla ricerca di un impiego – sperimentando, scrive Enrica Capussotti, “un sistema di discriminazioni che coinvolgevano l’ambito lavorativo, la vita sociale (difficoltà a trovare alloggio, affitti superiori) e le relazioni interpersonali”. Come messo in luce da Luciano Ferrari Bravo e Alessandro Serafini, il processo di integrazione economica tra le due parti della penisola avvenuto in quella fase non implicava che il Meridione si dotasse di un modello di sviluppo analogo a quello settentrionale; al contrario, esso vene integrato proprio in forza del proprio sottosviluppo – la sua arretratezza, in altre parole, fungeva da risorsa per uno sviluppo nazionale squilibrato. Una parte d’Italia diveniva così una sacca di manodopera a basso costo per le aziende collocate in un’altra: il sud può trasformarsi in una risorsa per lo sviluppo nel momento in cui la sua arretratezza si traduce “nella miseria di un ‘basso’ salario – nella compressione sistematica del salario come ‘costo’ di produzione”. L’intervento pubblico indirizzò e governò massicciamente una tale dinamica, ad esempio tramite la Cassa del Mezzogiorno, mantenendo il flusso di forza lavoro entro determinate proporzioni.
Questo modello entrò in crisi a partire dalla metà degli anni ’60, quando la classe operaia si rese protagonista di un nuovo ciclo di lotte, disinnescando in buona parte l’arma della razzializzazione come strumento di frammentazione della forza lavoro – anzi i lavoratori provenienti dal sud rivestirono un ruolo di rilievo in quelle mobilitazioni.
A partire dalla fine degli anni ’80, l’Italia si trovò per la prima volta ad essere meta di destinazione, più che di partenza, di flussi migratori internazionali. Un’importanza considerevole ha rivestito, dall’inizio del decennio successivo, l’immigrazione proveniente dall’Albania, che suo malgrado ci offre una dimostrazione della natura cangiante delle modalità di razzializzazione: da un lato, gli e le albanesi si presentano ormai da più di un decennio come un gruppo altamente integrato nella società italiana (peraltro pressoché impossibile da stereotipare su una base somatica), dall’altro hanno continuato a scontare discriminazioni nell’inserimento occupazionale oltre che a livello di relazioni sociali complessive (e di loro rappresentazione mediatica) – tanto da far parlare di assimilazione asimmetrica.
Un continuum, quello che conduce dalla seconda metà dell’Ottocento alla fine del ventesimo secolo, che persino a questi livelli di generalizzazione ci restituisce l’idea di un razzismo italiano sì multiforme, ma più prossimo alla norma che all’eccezione – e connesso a vari livelli di intensità, come si è accennato, con le modalità di accumulazione di capitale di volta in volta dominanti (del resto non è un caso che in Italia le persone immigrate subiscano, a livello macroscopico e non solo in singoli casi, discriminazioni nell’accesso al lavoro, così come nel tipo di occupazione e nel relativo trattamento economico).
Questa parabola storica, tuttavia, sarebbe del tutto incomprensibile senza incrociare la costruzione delle identità razziali con quelle di genere. Così, ad esempio, gli ideali fascisti di bianchezza e italianità trovavano un complemento strutturale nella rappresentazione della donna autoctona (contrapposta alla colonizzata) come depositaria della purezza e dell’integrità della stirpe – tra le molte misure messe in atto nel corso del Ventennio in questa direzione si possono menzionare la creazione dell’Opera Nazionale Maternità e Infanzia, l’istituzione di pene severe per i reati di adulterio e contraccezione, la criminalizzazione dell’aborto e una serie di provvedimenti volti a escludere le donne da alcuni settori lavorativi. Allo stesso tempo, la diffusione nel paese di una peculiare variante di fordismo a partire dalla seconda metà del Novecento fu resa possibile tanto dallo sfruttamento della manodopera meridionale quanto da un precisa divisione sessuale del lavoro: il modello della famiglia nucleare monoreddito assegnava il ruolo di lavoratori salariati agli uomini e il lavoro (gratuito) di cura e riproduzione sociale alle donne.
Negli ultimi anni la provenienza dei migranti in arrivo in Italia ha registrato cambiamenti importanti, e una nuova ondata di razzializzazione si è affermata adeguandosi a un clima fatto di islamofobia, populismo progressivamente più aspro, neofascismo. L’economia italiana, d’altro canto, è sempre più dipendente dal contributo della popolazione immigrata, tenuta in condizioni di sistematica precarietà (giuridica, reddituale, temporale, esistenziale). Come illustra con efficacia Gennaro Avallone nel suo ultimo libro, l’agricoltura made in Italy non potrebbe sopravvivere nel proprio assetto attuale senza lo sfruttamento della forza lavoro migrante – e sulle condizioni di lavoro spesso durissime delle cosiddette “badanti” straniere si regge un settore assai delicato e sempre più centrale come quello dell’assistenza agli anziani e della cura domestica. Anche in questo caso, il genere intreccia la razza: partiti come la Lega Nord sono stati tra i principali fautori della regolarizzazione delle "badanti" (e quando necessario della tolleranza della loro irregolarità), mentre con l’altra mano aizzavano l’opinione pubblica contro gli immigrati (prevalentemente) di sesso maschile – fino ad adottare in maniera del tutto strumentale una retorica pseudo-femminista (che nei fatti si riduce a concepire le donne autoctone come proprietà da difendere, ad esempio dal presunto sessismo dei musulmani) che contribuisce a quello che Sara Farris ha denominato femonazionalismo.
La critica della violenza razzista odierna, pertanto, deve tenere insieme la denuncia dell’attuale (e omicida) regime dei confini europeo – le frontiere dell’Unione sono le più mortifere al mondo – e quella di quanto accade ai tanti che quei limiti pretesi invalicabili continuano ad attraversali (il confine, ci ha insegnato Sandro Mezzadra, non è fautore di una semplice esclusione, ma di una ben più articolata inclusione differenziale). Lungi dall’essere un fallimento, il contenimento soltanto parziale esercitato dalle frontiere è funzionale a un mercato del lavoro sempre più diseguale.
Rileggendo i fatti di cronaca alla luce di tali premesse, il razzismo inizia a non apparire più come un orpello ideologico di comodo: la storia italiana, scriveva Carla Panico all’indomani dell’attentato di Macerata, è per intero (fin dal principio e oggi più che mai) una storia di razzializzazione e di migrazioni. Non ha quindi senso, in una tale cornice, chiedersi se gli italiani siano razzisti – il razzismo, più che come vizio individuale, nel nostro paese deve venire considerato in quanto parte della struttura della società.
La vicenda dei Rom presenti nel paese non ne è che l’ennesima conferma: se Carmen Pellegrino e Anna Stefi hanno recentemente riportato alla nostra attenzione le misure adottate contro di loro dal regime fascista, il razzismo istituzionale ai loro danni erano iniziato sin da poco dopo l’unificazione – e continua ai giorni nostri tramite l’applicazione della definizione di nomadi a dei gruppi nella stragrande maggioranza dei casi stanziali (il campo, rivelano gli studi di Nando Sigona, non è che un dispositivo di gestione e produzione della precarietà, una modalità di spazializzazione della discriminazione razziale).
Non esistono perciò argomenti veri da cui una cortina razzista dovrebbe distoglierci: il razzismo è uno, per certi versi il primo, di quegli argomenti – e dunque andrà non solo decostruito retoricamente, ma anche affrontato a viso aperto in campo politico. Come farlo in un contesto in cui esso sembra, in modo particolarmente virulento, parte dell’agenda di governo? È un interrogativo che risuona spesso negli ultimi giorni – e che rischia di essere mistificante nella misura in cui sembra implicare che si debba partire da zero.
“Le rivolte ci sono anche quando non le vediamo” – ci ricordano, con una salutare tirata d’orecchi, Anastasia Barone e Mattia Galeotti: ci sono state in questi anni a Nardò, a Castel Volturno e in molti altri luoghi. Le mobilitazioni antirazziste hanno avuto come protagonisti gli immigrati stessi – e sarebbe impensabile impegnarsi in tal senso senza ripartire dall’ascolto della soggettività politica che più può su questo terreno: la loro. Oggi i grandi media si accorgono dell’intelligenza e del carisma di un organizzatore sindacale come Aboubakar Soumahoro, che pure quelle qualità le mette all’opera da molti anni: che sia l’occasione per comprendere che l’avanguardia su questo fronte, nei mesi difficili che si annunciano, non la potranno comporre editorialisti incravattati o esponenti politici che si scoprono progressisti con una sorprendete variabilità stagionale, ma quante e quanti sono, da sempre, in prima linea – e da cui ci sarebbe molto da imparare.