Il biopic sulla celebre coppia / Laurel & Hardy, perduti e ritrovati
Da quanti anni si parlava di girare un film biografico su Stan Laurel e Oliver Hardy? Almeno una sessantina. Pare che perfino il vecchio Laurel, “orfano” del compagno di lavoro scomparso nel 1957, abbia fatto in tempo a proporre Jackie Gleason nel ruolo di Hardy e Art Carney come propria controparte (in seguito gli avrebbe preferito l’amico Dick van Dyke, autore di un’affettuosa imitazione televisiva). Non se ne fece nulla. Fu un bene? I biopic dedicati alle stelle del cinema non sono oggetti facili da maneggiare. Ai difetti cronici del sottogenere (tendenza all’agiografia, banalizzazione, effetto bignamino di fatti, detti e persone notevoli), si aggiunge l’estrema riconoscibilità dei soggetti, visti e rivisti decine di volte su schermi grandi e piccoli. Anche senza essere dei fan irriducibili, il confronto è inevitabile.
È quindi comprensibile la cautela con cui Jon S. Baird (regista) e Jeff Pope (sceneggiatore) hanno deciso di affrontare le “icone” Laurel & Hardy in questo Stan & Ollie (reso giudiziosamente in italiano con Stanlio & Ollio). Prima di loro, salvo la fanfiction di Osvaldo Soriano Triste, solitario y final (1973), dove un Laurel invecchiato e incattivito incontrava nientemeno che Philip Marlowe, ci aveva provato solo il compositore e drammaturgo britannico Neil Brand con la pièce radiofonica Stan (2004). Trasformata due anni dopo in un TV movie di 45 minuti (inedito in Italia), cercava di aggirare le secche del biopic tradizionale ricreando in chiave intimista l’ultima visita di Laurel al capezzale dell’ex collega Hardy, colpito da ictus e incapace di parlare. Sulla stessa strada si mettono quindi Baird e Pope, circoscrivendo estremi temporali del racconto al biennio 1953-54 (con un prologo e alcuni flashback nel 1937-38), ovvero al momento in cui i due grandi comici (interpretati da Steve Coogan e John C. Reilly), ormai anziani e un po’ acciaccati, si sono lasciati l’America alle spalle per tentare l’ultima rentrée sui palcoscenici della vecchia Europa.
L’altra (e decisiva) scelta di Baird e Pope è quella di osare l’inosabile: separare Hardy da Laurel. Che cosa sarebbe successo se nel 1937, sul set de I fanciulli del West (Way Out West), le divergenze artistiche fra Laurel e il produttore Hal Roach avessero portato alla rottura definitiva della coppia? E se, dopo Zenobia (il “film con l’elefante” con cui Roach tentò senza successo di lanciare Hardy come solista), i due avessero deciso di non lavorare più insieme? Niente Teste dure (Block-Heads, uscito nel 1938), né Diavoli volanti (The Flying Deuces, 1939), né Noi siamo le colonne (A Chump at Oxford, 1940). E neppure, d’altra parte, i prodotti scadenti girati durante la Seconda guerra mondiale per la 20th Century-Fox e la MGM (e questo forse non sarebbe dispiaciuto a Laurel: «Non riesco a dire quanto mi abbia addolorato girare quei film, e quanto me ne vergogni»); né il triste epilogo europeo di Atollo K (1951).
La vicenda raccontata nel film di Baird e Pope, per quanto molto liberamente ispirata al volume dello storico A.J. Marriot, Laurel and Hardy: The British Tours (1993), è insomma un gigantesco “what if…?”. I Laurel e Hardy che, in una sera di pioggia, si ritrovano sulla soglia di un modesto albergo di Newcastle, in attesa di incominciare il loro tour teatrale, sono due ex colleghi che non si parlano da sedici anni. Laurel, apprenderemo di lì a poco, non ha perdonato Hardy per essere sceso a compromessi con Roach, accettando di girare un film senza di lui. Hardy rimprovera Laurel di pensare unicamente al lavoro (critica peraltro non infondata, nella realtà), infischiandosene del prossimo: «You loved “Laurel & Hardy”, but you never loved me». Ma si sa, “the show must go on”, soprattutto se è l’ultimo. Ed ecco che i due risalgono faticosamente la china, ri-mettendo in scena i numeri di un tempo: all’inizio in semivuoti teatrini di provincia e poi in sale sempre più prestigiose e affollate (in ossequio all’altro vecchio adagio hollywoodiano per cui “solo chi cade può risorgere”). Fino alla tappa conclusiva in Irlanda, dove si compie la consacrazione definitiva, con tanto di campane che, delle chiese circostanti, intonano la celebre Cuckoo Song. Ovviamente, trionfo e riconciliazione sono tutt’uno. E nell’ultima replica Hardy rimane stoicamente in scena, quasi alla Molière, al fianco del ritrovato amico-collega, nonostante il suo cuore malandato stia cominciando a fare i capricci: «È stato bello finché è durato, non è vero Stan?».
Certo, raccontato così sembra più il copione di I ragazzi irresistibili di Neil Simon che “la vera storia di un’amicizia incredibile”, strombazzata sui manifesti del film. Anzi, tutto sommato continuo a pensare che la vicenda raccontata da Baird e Pope (una coppia di attori, complice il lavoro, ritrova dopo molti anni l’amicizia perduta) sia meno interessante di quello che accadde nella realtà a Laurel e Hardy (due attori lavorano fianco a fianco ininterrottamente per oltre vent’anni e all’improvviso si rendono conto di essere diventati anche molto amici). Ma d’altronde sarebbe stata necessaria una sottigliezza di tocco che la sceneggiatura di Pope non possiede, preferendo puntare, come nel precedente e premiato Philomena (2013), su pathos e commozione – anche se, fortunatamente, ci vengono risparmiate le zeppe pseudo-agiografiche.
Eppure il film funziona. Merito in primo luogo degli interpreti. In parte agevolato dal pesante trucco, John C. Reilly riesce comunque a non farsene schiacciare, adottando per il suo Oliver Hardy una recitazione misurata che riprende i manierismi dell’originale ma senza scadere nella caricatura. Dal canto suo, non potendo contare su un’eccessiva somiglianza fisica con Laurel, Steve Coogan punta su una mimesi vocale a tratti impressionante (va da sé che la visione del film in lingua originale è consigliatissima). La stessa cura, caso raro, la ritroviamo nei ruoli di contorno: Rufus Jones dà al suo Bernard Delfont il piglio dell’impresario vecchio stile, accorato e astuto al tempo stesso, ma sempre al servizio dello spettacolo; mentre Nina Arianda e Shirley Henderson “reinventano” le mogli Ida Laurel e Lucille Hardy, dando vita a una perfetta coppia comica al femminile, speculare a quella dei mariti.
Il resto lo fa l’aria un po’ complice dell’intera operazione: un omaggio al mito, più che un biopic in senso stretto. Per questo mi sembra inutile accanirsi puntigliosamente alla ricerca delle pur numerose imprecisioni e incongruenze cronologiche (fra strappi e riconciliazioni, Roach e Laurel seguitarono a lavorare insieme almeno fino al 1940; Hardy conobbe la futura terza moglie Lucille soltanto nel 1939 e non nel 1937, come viene detto nel film; Laurel – rigorosamente insieme con Hardy – firmò il contratto con la Fox non prima del 1941; nel corso dei tour britannici i due non hanno mai fatto tappa al Lyceum Theatre di Londra, ma, a differenza di quel che si vede nel film, il successo era costante e i teatri pieni; e così via). Al contrario, bisogna abbandonarsi al piacere della strizzata d’occhio, della citazione, dell’omaggio cinefilo. Che si tratti di un baule che scivola in fondo alla rampa di scale come la pianola di La scala musicale (The Music Box, 1932), o della meticolosa ricostruzione del dietro le quinte dei Fanciulli del West, i rimandi più o meno espliciti all’universo laurelhardiano sono parecchi. Così come non sfuggiranno alle orecchie dei “solutori esperti” certe allusioni nascoste qua e là fra le pieghe dei dialoghi: per esempio, una battuta sarcastica di Laurel su Mussolini e la guerra d’Etiopia evoca lo spregiudicato tentativo di Roach di trovare nel duce un interlocutore per aprirsi una ulteriore sponda produttiva nell’Italia fascista; così come il tenero scambio fra Ollie e Lucille («Cosa ci vedi in un vecchio ciccione come me?» «Ehi, stai parlando di mio marito!») rispecchia quasi letteralmente il disagio, durato tutta la vita, dell’attore americano nei confronti del proprio aspetto fisico.
Se il film di Baird e Pope risulta in fin dei conti un po’ fragile, è semmai per un eccesso di prudenza. Che ciò sia dovuto a una sorta di affettuoso rispetto nei confronti dei due grandi comici, o (più realisticamente) alla necessità di non urtare la suscettibilità di fan vecchi e meno vecchi già sul piede di guerra, regista e sceneggiatore non sanno o non vogliono scegliere la strada da percorrere fino in fondo (romanzo tout court o fedeltà storica?), rifugiandosi in una soluzione di compromesso (l’eterno sovrapporsi fra vita e arte), certo più “ecumenica” ma anche meno ficcante. Insomma, il “what if” non diventa mai un “why not?”. Ma questo, me ne rendo conto, è soltanto l’inevitabile (manzoniano?) rammarico dello studioso davanti ai “componimenti misti di storia e d’invenzione”. Come fan, la preoccupazione è una sola: riuscirà Stanlio & Ollio a conquistare nuovi adepti alla “causa” della celebre coppia? Non mi vergogno a dirlo: è quello che mi auguro.
Leggi anche:
Gabriele Gimmelli, Stanlio è Ollio
Gabriele Gimmelli, Laurel & Hardy. Accoppiamenti giudiziosi (parte prima e parte seconda)