Dorothy Day. Diario di una conversione
Dorothy Day (1897-1980) è stata una giornalista, scrittrice, attivista sociale che ha fondato, negli Stati Uniti dei primi anni Trenta, il primo movimento sindacale e culturale cattolico, il Catholic Worker. Nato attorno a un omonimo giornale e, in seguito, rapidamente sviluppatosi con la fondazione, in tutto il Paese, di case di accoglienza per bisognosi di ogni genere, il Catholic Worker Movement è attivo ancora oggi e continua la missione originaria di accogliere emarginati e poveri offrendo un tetto, una minestra calda e un ambiente in cui discutere e confrontarsi liberamente su temi d’interesse sociale, etico e politico. L’obiettivo finale, spiegavano Dorothy Day e Peter Maurin, l’ideologo del movimento, era di costruire insieme una società “in cui fosse più facile essere buoni”.
L’interesse intorno a Dorothy Day, straordinaria figura di attivista cattolica, politicamente vicina all’anarchismo socialista, sta crescendo considerevolmente anche in Italia dopo che Papa Francesco l’ha citata nel discorso tenuto al Congresso degli Stati Uniti nel 2015, insieme ad Abramo Lincoln, Martin Luther King e Thomas Merton come personalità le cui vite e opere possono essere fonte d’ispirazione e di coraggio per le donne e gli uomini di oggi. Lincoln, King e Merton sono ampiamente conosciuti ben al di fuori dei confini degli Stati Uniti; non così Dorothy Day, nonostante sia stata a suo tempo una delle personalità più note e scomode del suo Paese. Di recente la Libreria Editrice Vaticana ha pubblicato in italiano un suo libro, Ho trovato Dio attraverso i suoi poveri, uscito negli USA nel 1938 col titolo, a mio parere molto più pertinente, di From Union Square to Rome, al quale l’attuale pontefice ha scritto una breve, perfetta introduzione, a testimonianza della grande stima che nutre verso questa donna dalla vita complessa e molto tormentata.
Si tratta di una autobiografia parziale scritta quando l’autrice aveva quarant’anni in cui racconta e cerca di spiegare al fratello più giovane, John Junior, col quale aveva un legame molto forte, la sua conversione al cattolicesimo; una conversione che aveva lasciato interdetti tutti i suoi amici, disgustato il padre (solo le lavandaie e i poliziotti irlandesi sono cattolici, le aveva detto sprezzantemente) e le aveva fatto buttare all’aria un grande amore, da cui era nata una figlia amatissima. Scelta discutibile, quest’ultima, sconsigliatale anche dalle sue guide spirituali, che dà la misura di una radicalità per certi aspetti disturbante.
Ma Dorothy Day era fatta così. Tutta la sua vita fu caratterizzata da un amore istintivo, insopprimibile e radicale per la povertà e per i poveri e se, nella prima giovinezza, questo l’avvicinò al socialismo, al comunismo, all’anarchismo e al sindacalismo, l’altrettanto forte aspirazione al divino che l’aveva spinta a leggere la Bibbia da ragazzina e a chiedere ai genitori il permesso di essere battezzata nella Chiesa Episcopale, la portò in seguito ad avvicinarsi alla Chiesa Cattolica. Qui trovò finalmente, racconta, non la pace – che non apparteneva alla sua natura – ma una comunità che le permetteva di vivere allo stesso tempo la passione per i miseri e i derelitti del mondo e l’adesione a Dio. Dopo l’incontro con Peter Maurin, figura originalissima di pensatore cristiano, laico ma di spirito francescano, assolutamente individualista nel senso che – spiegava – ogni singolo era per lui tutto e che ognuno avrebbe dovuto prendersi cura personalmente dell’altro, al di là di ogni intervento sociale statale, la vita privata di Dorothy Day si intreccia inestricabilmente con quella del Catholic Worker, «che non è un luogo ma uno stile di vita» (J. Forest, Dorothy Day. Una biografia, p.282).
Il libro non parla della fondazione del giornale, della creazione del movimento e delle case di accoglienza – nelle quali l’unica regola era l’esercizio radicale delle opere di misericordia – di cui invece parlerà con dovizia di dettagli e particolari in una seconda autobiografia scritta dodici anni dopo questa, Una lunga solitudine (Jaca Book). Il mancato matrimonio e l’impossibilità di costruire una famiglia “in regola” con il padre della figlia, anarchico, contrario al matrimonio e a qualsiasi forma di istituzionalizzazione della vita privata, restarono sempre come un dolore profondo nel cuore di Dorothy, e certamente la solitudine che appare nel titolo fa riferimento a questo, ma non solo. Sia nell’autobiografia sia nei Diari, la Day confesserà sempre di non riuscire a liberarsi da un senso profondo di lonliness, un sentimento che filtra in tutti i suoi scritti; nonostante la vita comunitaria, il lavoro fino allo sfinimento, le gioie dell’amicizia, Dorothy si sente sola e tormentata da un’inquietudine che non le dà pace, la spinge sempre avanti, sempre oltre. Una sete di pienezza che, scoprirà, solo Dio può placare.
L’adesione alla Chiesa cattolica, tuttavia, non fu una scelta dettata dal dolore o dall’ansia e neppure, come sembra suggerire il titolo della autobiografia scelto per l’edizioni italiana, dall’incontro con le miserie umane, ma da un momento di profonda e intensa gioia. «I miei detrattori – scrive – non possono dire che sia stata la paura della solitudine e del dolore che mi hanno fatta rivolgere a Lui. È stato in quei pochi anni in cui ero sola e strafelice che l’ho trovato. Finalmente l’ho trovato attraverso la gioia e il ringraziamento, non attraverso il dolore». Un richiamo che ci rimanda a un altro famoso convertito al cristianesimo, Clive S. Lewis che racconta la sua conversione nell’autobiografico Sorpreso dalla gioia (Jaca Book).
In Ho trovato Dio attraverso i suoi poveri la Day omette molte vicende della sua problematica gioventù per raccontare solo «le cose belle» e per spiegare al fratello perché era convinta che appartenere alla Chiesa fosse il modo più integrale di essere dalla parte dei poveri: «Ora so che la Chiesa Cattolica è la Chiesa dei poveri, qualsiasi cosa si dica sulla ricchezza dei suoi preti e vescovi», scrive. E questo nonostante la radicalità delle sue posizioni l’abbia più d’una volta messa in contrasto con le autorità religiose del suo tempo, ma soprattutto con le autorità civili (fu incarcerata per periodi più o meno brevi sette volte, l’ultima a 75 anni).
Nella sua giovinezza Dorothy Day ha commesso quelli che sono considerati tra i peccati più gravi: l’aborto, il tentato suicidio, un matrimonio stravagante conclusosi dopo un anno col divorzio. Difficile immaginarla sugli altari, anche se è stata dichiarata Serva di Dio (il primo passo verso la beatificazione); ancora più difficile immaginare che lei ne sarebbe contenta. Il rimorso per queste sue azioni, che risalgono ad anni precedenti la conversione, la perseguitò sempre; nessuna delle moltissime azioni di misericordia compiute dopo gliene tolse mai il peso. Soprattutto l’aborto la ferì quasi mortalmente. Per questo, quando restò di nuovo incinta, le sembrò come se il cielo le concedesse una seconda occasione, quasi un segno del perdono di Dio. Almeno così lo visse lei.
Ed è questa la santità che può ispirarci oggi: non una mancanza di peccati ma un sapere risorgere dalle proprie ceneri, trasformando gli sbagli e il dolore in amore concreto verso il prossimo, verso i meno amabili. «L’amore, scrive, è una questione di volontà». Per questo, credo, papa Francesco vuole indicarla come esempio a cui oggi la Chiesa deve ispirarsi, tanto da citarla al Congresso, come abbiamo detto, e da scrivere una prefazione a questo suo libro nella quale sottolinea tre insegnamenti che invita a trarre dalla biografia della Day: l’inquietudine dello spirito che spinge a una ricerca costante di Dio nella realtà concreta della vita; lo spirito di servizio; l’amore per la Chiesa che Dorothy Day sa vedere come una realtà misteriosa, trascendente e immanente ad un tempo: “Gli stessi attacchi rivolti contro la Chiesa mi hanno dimostrato la sua divinità. Solo un’istituzione divina avrebbe potuto sopravvivere al tradimento di Giuda, alla negazione di Pietro, ai peccati dei tanti che professavano la sua fede, che avrebbero dovuto prendersi cura dei suoi poveri”. E ancora: “Ho sempre pensato che le fragilità umane, i peccati e l’ignoranza di coloro che si trovano in posizioni elevate nel corso della storia hanno dimostrato solo che la Chiesa deve essere divina per persistere nel volgere dei secoli. Non avrei addossato alla Chiesa quelli che ritenevo fossero gli errori degli ecclesiastici”.