Fondazione Merz, Torino / Emilio Prini: tautologia, letteralità e paradosso
Emilio Prini è stato uno degli artisti più misteriosi che si potessero mai incontrare. Non solo la sua opera, pochissimo esposta, per volontà sua, ma anche la sua vita è stata ammantata di mistero. Rarissime apparizioni pubbliche, era chiuso nel suo rifugio, prima a Genova poi a Roma e riceveva solo chi voleva – ci ha fatto un libro d’artista Luca Vitone, raccogliendo le telefonate tra loro per un appuntamento mai andato a buon termine (Effemeride Prini, Quodlibet, Macerata 2016). Colpito dalla malattia degenerativa che l’ha poi ucciso, negli ultimi decenni si reggeva male in piedi, a volte cadeva mollemente a terra mentre stava parlando con te e continuava a parlare come se niente fosse successo; le sue reazioni erano imprevedibili, poteva ingiuriarti se ti chinavi ad aiutarlo o prenderti la mano per sollevarsi come per non dare nell’occhio. Non aveva, credo volutamente, nessuna nozione del tempo; parlava tantissimo, ininterrottamente, su qualsiasi argomento, ma sempre dirigendo lui il discorso; ti teneva a parlare per ore, guai a interromperlo o fargli fretta per un appuntamento o un impegno. È stata la persona più geniale che abbia conosciuto, e l’ho conosciuto tardi e purtroppo pochissimo; era un vulcano di idee, nessuna scontata, nessuna puramente riportata, sempre ripensate e fatte proprie.
Niente era scontato con lui. Poteva mandare a monte – e l’ha fatto varie volte, mi risulta – qualsiasi impegno; non sapevi se avrebbe veramente esposto o avrebbe rispettato un appuntamento. A Montalcino, per la manifestazione “Arte all’arte” a cui l’avevo invitato, nel 2003, espose un vecchio lavoro modificandolo fino a cinque minuti prima dell’inaugurazione, chiuso dentro il luogo d’esposizione con il suo assistente mentre tutti aspettavamo fuori, senza la sicurezza che ci avrebbe fatto entrare!
Si usciva e si esce da una sua mostra, del resto rarissime – e già è una ragione per non perdersi assolutamente questa in corso alla Fondazione Merz di Torino fino al 9 febbraio –, storditi, con l’impressione di non aver trovato nessuna chiave per potersi orientare tra i numerosi indizi che comunque si è percepito sparsi lungo il percorso. Lo dico senza timore di autodenuncia di ignoranza critica, ma perché in realtà questa mi sembra proprio una delle chiavi, o meglio la cornice, per cominciare a comprenderlo: quello di Prini è stato un costante gioco di assenza e di dirottamento, di rottura dei luoghi comuni e di sorpresa, di vertigine dell’affermazione.
Per esempio, l’aspetto più evidente è quello dell’esecuzione di un’opera, un esercizio più che un oggetto, il quale ultimo può non essere esposto oppure è dichiarato svanito o perso o svolto o presente altrove. Così le Ipotesi d’azione (1967-68) o le dichiarazioni con cui partecipa al famoso libro Arte povera che lancia il movimento nel 1969 e che intitola Lato di vita chiave biologica. “La fotografia che ho scattato è svanita”, “Ho ricoperto una grande porzione del prato in adesione totale al terreno. Per azione della luce la foto si è progressivamente consumata, è stata arrotolata. Per azione del buio la porzione d’erba coperta è risultata bianca. La foto consumata è stata tagliata e accatastata in una stanza”. Sono tautologie vertiginose, come pochi in quel periodo di arte concettuale osavano o sapevano fare. Joseph Kosuth le intendeva in senso “analitico”, gli altri del gruppo americano in quello “processuale”, Prini in “chiave biologica”: non il concetto, ma l’esistenza biologica dell’artista. “Tutta la mia vita” è la dichiarazione principale della serie: “biologia” sta appunto per il significato vivo, organico di “biografia”. (Nel periodo in cui l’ho frequentato ricordo l’insistenza con cui tornava su un’idea che riprendeva da Gino De Dominicis, cioè quella dell’“immortalità del corpo”, piuttosto che dell’anima, sottolineava, questa è l’immortalità.) Nella vita non c’è presenza senza assenza, ma non c’è neanche assenza senza presenza: vedi Mostro – una esposizione di oggetti non fatti non scelti non pensati da Emilio Prini (1974-75). Così le Ipotesi d’artista sono sottotitolate “Scritte che restano scritte”.
Le sue opere oscillano tra la tautologia, la letteralità e il paradosso. Così un’opera paradigmatica resta Il cartello del film non fatto (1967-68), che tale è, un cartello con la scritta del titolo. Il film non è stato fatto ma il cartello ne dichiara una sorta di esistenza: anche il non fatto esiste in qualche modo nel momento in cui è dichiarato. Non fare è un fare, come hanno insegnato Marcel Duchamp e John Cage.
Del resto il meccanismo diventa il seguente, come dichiarato in Standard 1969: “Il registratore registra a consumo del meccanismo”, ovvero “Lo standard nel pieno possesso delle proprie attività dimensionali è intero nel senso del termine”. Così la fotografia della macchina fotografica: l’opera si realizza nel suo rimando interno e attraverso il suo consumo, è un Racconto che si fa da solo (1969).
L’idea di standard è uno dei fili conduttori della sua opera. Standard significa modello, tipo, norma cui si devono uniformare, o a cui sono conformi, tutti i prodotti e i procedimenti di una stessa serie, ma per Prini significa al tempo stesso “identico alieno scambiato”. Standard sono i rifacimenti di un gradino tipo per porta (1967) o il muro in curva o il sottopassaggio (1967/1995). I riferimenti reali li trovi nelle foto esposte nelle bacheche, ma, appunto, quale è il reale ora, quale il modello? È questo il collegamento tra la “vita” e l’oggetto-opera. In un’opera fotografica – l’uso della fotografia in Prini è tutto particolare, come si intuisce dagli esempi – scrive nel titolo “Ci sono anch’io”, per evidenziare il valore “biologico” dell’immagine. Standard sono anche le barche usate come fermacarte (Fermacarte, 1995), tra le sue opere più famose, o i Fogli da un taccuino di legno (1996): assurdi, dal punto di vista della funzione, ma reali.
Le ultime opere sono sbalorditive, se possibile ancora più enigmatiche e fuorvianti, cioè inattese. Per esempio La Pimpa Il Vuoto, del 2008, una serie di stampe fotografiche di vignette del famoso personaggio di Altan che disserta con gli amici su vari argomenti, all’insegna del “vuoto”, che non viene mai nominato ma sottende tutti gli pseudoragionamenti e aleggia sull’intera sequenza; anzi è letteralmente “presente” negli spazi vuoti lasciati appositamente all’inizio e alla fine, o meglio prima e dopo: l’esistente è già iniziato, continua...
Oppure Colori, del 2016, quindi sicuramente la sua ultima opera, composta da cartoni dai diversi colori, disposti in un ordine di cui non vedo una logica chiara, ma con il bianco al centro.
Standard è anche la regola – del mercato, del sistema dell’arte – a cui si chiede all’artista di sottostare, quella che si chiama stile o forma, riconoscibilità. La varietà dei mezzi, materiali e modi diventa allora essenziale per Prini, come strategia di spiazzamento, di paradosso, di inafferrabilità, di non volersi adattare, con-formare. (Questa lezione l’ha còlta Gianluca Codeghini che alla galleria Six di Milano, ha una mostra, intitolata significativamente Si spiega ma non si spezza, ispirata da un suggerimento in tal senso che gli venne appunto da Prini più di venti anni fa: sfuggire alle aspettative, degli altri ma su cui ci si regola anche noi stessi. Ma non solo Codeghini, anche tutto un gruppetto di artisti, tra cui Maurizio Cattelan, Maurizio Mercuri, Mirko Zandonà, che nei primi anni ’90 non per niente si scambiavano perfino tra loro: “identico alieno scambiato” appunto.)
L’arte è questo esercizio. Ha un senso? Ognuno risponda per sé. Resta anche il risvolto politico della questione. Prini non lo evita, anzi: c’è un Governo non standard – Due linee che si uniscono in basso, del 1986. È significativo che Prini abbia detto “governo”, non teoria ma propriamente esercizio della cosa pubblica. Eterno – o almeno secolare – problema del rapporto tra arte e politica: come si può concepire un governo che risponda all’indicazione dell’arte? La divisione resta inesorabile o le due linee si uniscono “in basso”?