“Chi si conosce meglio di chi è cieco”? / Perché Borges mi sta simpatico (e anche i poeti calzolai)
Mi appassionano le storie di chi non riesce a fare soltanto una cosa. Carl Gustav Jung ne scrisse in un illuminante saggio dedicato ad Anima e Animus: «La Persona è un complicato sistema di relazioni fra la coscienza individuale e la società, una specie di maschera che serve da un lato a fare una determinata impressione sugli altri, dall’altro a nascondere la vera natura dell’individuo. La società esige che ciascuno rappresenti la sua parte il meglio possibile: [...] ciascuno deve stare al suo posto; l’uno è calzolaio, l’altro poeta. Non è previsto che si sia l’una e l’altra cosa a un tempo. [...] Un uomo simile sarebbe “differente” dagli altri, non del tutto fido. Nel mondo accademico sarebbe un dilettante, in religione un libero pensatore».
Gli inconvenienti sociali che capitano a chi manifesta questa eterogeneità di propensioni mi fanno pensare a Jorge Luis Borges. Anni fa, qualcuno lo accusò di non essere uno scrittore, ma semmai un filosofo. L’accusa verteva sulla considerazione che le sue pagine conterrebbero più idee che trame. I suoi interessi filosofici lo avvicinavano talmente al saggista che bisognava escluderlo dall’elenco dei veri scrittori di narrativa. È un argomento che ho incontrato altre volte tra i suoi detrattori. La prima volta che lo sentii pronunciare avevo vent’anni. Mi sembrò assurdo. Come se qualcuno mi avesse parlato male della Callas perché quando mangiava tzatziki aveva l’alito pesante!
Le critiche a Borges sono periodiche, sebbene non troppo frequenti. Ultimamente le trovo in un articolo in cui si collezionano le ragioni per cui Borges andrebbe considerato antipatico. Il testo verte su una tesi incontrovertibile: l’autore prova antipatia per Borges. Diritto sacrosanto. Leggendo gli argomenti che lo spingono a questi avversi sentimenti, tuttavia, emergono imprecisioni tali da convincermi che l’autore abbia voluto bonariamente beffarsi di noi inventando una di quelle Finzioni che tanto piacevano allo scrittore argentino. Rispondere ai suoi argomenti comporterebbe un paradosso. Infatti, se li si prende per veri (e non frutto dell’invenzione dell’autore) diventano falsi (in quanto indimostrati); se li si giudica falsi (in quando presi per veri) non vi è motivo di confutarli (poiché già smentiti dal loro essere veri).
Troppo complicato. Preferisco scrivere di un dato più personale. Ovvero del perché – proprio per via delle accuse che gli vengono mosse – a me Borges fa invece simpatia.
All’origine delle tesi sul Borges antipatico c’è un aneddoto di cui purtroppo l’autore dell’articolo non cita né fonte né epoca. (Ottima prassi quella di elargire giudizi basandosi sulla ferrea obiettività degli “aneddoti”). Pare che al termine di una delle tante conferenze, Borges fu avvicinato da una signora che, dopo entusiastici complimenti, gli confessò ingenuamente: «Sa, anch’io scrivo». E lui, in risposta: «Ah sì? E a chi?».
Ammesso che l’aneddoto sia vero, a me ricorda la storia della Callas screditata perché ha l’alito che sa di aglio quando mangia tzatziki. E mi ricorda anche il nostro De André: nel testo di una delle sue canzoni più emozionanti risponde con parole ben più caustiche a una madre che gli confessa di aver perso due figli: «Signora lei è una donna piuttosto distratta».
In certi casi solo il paradosso può essere veramente loquace. Evita tanto l’indifferenza quanto l’ipocrisia.
Borges scontroso? Tutto il contrario. Mi pare abbia dato alla sua uditrice l’unica risposta che suonasse al tempo stesso amicale e sincera. Cos’altro avrebbe potuto dire? Me lo faccia leggere? Sarà di certo più brava di me? Sa, è difficile guadagnare con la letteratura? Qualche altra banalità del genere? Credo che il suo humor racchiudesse con immediatezza un diritto del conferenziere (non ci conosciamo, non mi metta in imbarazzo) e al tempo stesso l’unica eventualità di dialogo possibile in quel contesto (per favore non mi chieda se lei è brava, ma se vogliamo parlare dello scrivere possiamo farlo con cordiale e condiviso interesse: per chi scrive lei?). Era una battuta. E una battuta è sempre un invito al dialogo per chi sa coglierla.
Purtroppo i frammenti aneddotici non ci dicono se la signora si sia offesa o se abbia apprezzato l’ironia. Mi piace propendere per la seconda eventualità. In caso contrario, sarebbe caduta nella sempre eterna sindrome del fruitore narciso a suo tempo messa in rime dai CCCP, ensemble elettrica e avamposto del punk tosco-emiliano: l’ingegnosa voce di Giovanni Lindo Ferretti cantava all’epoca «sono come tu mi vuoi», declinando in chiave politica e sociale il celebre ritornello di Mina.
La sindrome può essere riassunta brevemente: l’artista sta simpatico non per quello che crea, ma perché si attiene agli ideali del suo estimatore. È un comportamento piuttosto diffuso. In mancanza di celebrità, lo si applica al partner o alla partner (e a ogni altro possibile succedaneo delle relazioni sentimental-parentali: figli, figlie, ex-coniugi, amici, colleghi e perfino i vicini di casa). Il principio è sempre lo stesso: ti amo, ma solo se ti comporti come voglio io. Ogni autonoma diversità è del tutto bandita.
Insomma, per quella sua risposta – garbata e sincera, per quanto indisponente agli occhi di ogni ipotetico fruitore “possessivo” – a me Borges sta simpatico.
Ma ci sono altri momenti dell’articolo che suscitano la mia simpatia. Si parla dei tristi episodi in cui Borges si felicitò – nel 1977 – con Videla e con Pinochet per aver promosso “pace e ordine”. Si dimentica tuttavia di riferire quanto accadde tre anni dopo: Borges disse pubblicamente «mi sono reso conto [adesso] di quel che succedeva». Ben prima che i processi contro le autorità fossero soltanto ipotizzati, egli aveva firmato una protesta contro le sparizioni. Cinque anni dopo volle essere presente in aula, a fianco di chi testimoniava contro il regime. Ne raccontò, tra i tanti, Victoria Slavuski sulle pagine del Corriere della Sera: «Mentre i testimoni raccontavano le atrocità commesse [...] Borges stava seduto ad ascoltare. Dopo un po’ reagì. Secondo il corrispondente del quotidiano spagnolo El Pais, la sua reazione fu così violenta che si sentì male e fu necessario assisterlo fuori dall’aula».
Non credo che egli fosse mai stato favorevole alla violenza. Lo desumo da ogni pagina della sua opera. E anche da una convinzione: solo chi ha sperimentato il dolore e la sofferenza ne conosce la misura. Dolore e sofferenza Borges aveva avuto modo di viverle. Non solo per via della sua cecità («Quando penso a ciò che ho perso, mi chiedo “chi si conosce meglio di chi è cieco”?»), ma anche per questioni di carattere politico: essendosi rifiutato di allinearsi al governo di Peron fu sospeso dal ruolo di direttore della Biblioteca Nazionale; venne nominato Ispettore per il pollame e i conigli al mercato municipale di Buenos Aires, mentre sua sorella e sua madre furono rinchiuse in carcere come ritorsione nei suoi confronti.
Borges non mi sta simpatico per la sua denuncia (tardiva). E neanche per via della sua ingenuità politica («La gente pensa che quel che ho fatto l’ho fatto tardi. È vero. Ma pensate a me come a un cieco che non legge i giornali e che conosce poca gente»). Non mi sta simpatico neppure per avere avuto il coraggio di assumersi la responsabilità dei propri errori. Borges mi sta simpatico perché nella vita ha sofferto. E a me quelli che hanno sofferto stanno istintivamente simpatici.
Veniamo a ragioni più leggere. Letterarie. L’articolo sull’antipatia riferisce di un Borges che sputa sprezzanti giudizi e presuntuosi veleni su ogni possibile scrittore. Elenca una lunga sequela di brevi affermazioni di cui qui, a scopo esemplificativo, ne riporto tre o quattro. Shakespeare sarebbe un «dilettante, un divino dilettante». Valéry autore in cui «tutto diventa distante, freddo e morto». Faulkner lo si riconosce per «uno stile manieristico inconfondibile, che da spazio al lavoro dei critici» e di Flaubert «non potrebbe mai leggere L’educazione sentimentale o Madame Bovary».
Estrapolate dal contesto per dimostrare un Borges antipatico, queste frasi non si sa bene se siano complimenti o denigrazioni. Di certo riflettono i pensieri di un amante della letteratura, qualcuno che può dire cosa lo emoziona senza cadere negli stereotipi.
Chi veramente ha letto Borges ne conosce il garbo. Nel prologo al suo Elogio dell’ombra afferma: “La poesia non è meno misteriosa degli altri elementi dell’universo. Questo o quel verso fortunato non può insuperbirci, perché è dono del Caso o dello Spirito; solo gli errori son nostri. Spero che il lettore scopra nelle mie pagine qualcosa che possa meritare la sua memoria; in questo mondo la bellezza è comune”.
Francamente, cercando tra i miei ricordi non trovo parole di astio. Ma potrei sbagliarmi. Cerco allora tra due volumi presi a caso dagli scaffali del mio studio: Altre conversazioni (con Osvaldo Ferrari) e Testi prigionieri (editi da Adelphi). Qui saltano all’occhio parole che mostrano bene il carattere letterario dell’autore. Scrive, per esempio: «Io amo molto Flaubert, soprattutto Bouvard et Pecuchet. Possiedo una prima edizione, che mi costò trecento pesos, di La tentazione di Sant’Antonio, uno dei libri più straordinari e forse meno letti di Flaubert». Riguardo a Joyce: «La delicata musica della sua prosa è incomparabile. [...] Attualmente James Joyce vive in un appartamento a Parigi, con la moglie e i due figli. Va con loro all’opera, è molto allegro e chiacchierone. È cieco». Su Kipling: «Ciò che è indiscutibile è che l’opera – in poesia e in prosa – di Kipling è infinitamente più complessa delle tesi che illustra. [...] Tutti, detrattori o esaltatori, lo riducono a semplice cantore dell’Impero e tendono a credere che un paio di elementari idee di carattere politico possano esaurire l’analisi di ventisette diversissimi volumi di carattere estetico. Tale convinzione è rozza; è sufficiente esporla per vedere quanto sia errata”.
Su Faulkner, afferma: «Assalonne! Assalonne! è paragonabile a L’urlo e il furore. Non conosco maggior elogio di questo».
Lo so, comincio a diventare tendenzioso. E rischio di esserlo ancor più citando la recensione alla Storia della letteratura di Klabund. Scrive Borges a proposito: «Tre catalani firmano la traduzione spagnola: preferirei immaginare che questo triumvirato abbia screditato Klabund, ma mi rendo conto che sarebbe assurdo attribuirgli tutti gli errori del libro. Nella maggior parte questi sono per così dire organici. [...] Paul Valéry viene liquidato esattamente con quattro parole, comprese le due del nome. [...] Rilke è un monaco che invece di indossare l’abito grigio indossa abiti di porpora». Di Oscar Wilde si dice che «portava sempre un’orchidea all’occhiello; godette della vita con la massima intensità, stringendo particolare amicizia con Dorian Gray, circostanza che gli valse una querela che lo fece cadere dal livello della più alta società al carcere».
«Dopo tali giudizi arbitrari – continua Borges – ci riconforta una banalità come questa: “Le mille e una notte ancora oggi incantano i giovani”. Ma il vertice di quest’opera si trova a p. 266. Vi è scritto che il poeta Rimbaud “amava abbracciare babbuini”. I traduttori, in una gara d’imbecillità, aggiungono questa nota: “Specie di scimmia”».
Vi è una penultima ultima ragione per cui Borges mi sta simpatico. È personale. Lo ammetto, sapendo che questa confessione sarà la definitiva dimostrazione della mia totale mancanza d’imparzialità.
La riferisco ugualmente. Ed è questa: sono cresciuto con Borges. Ecco la penultima ragione della mia simpatia. Mio padre lo regalava a mia madre, mia madre lo regalava a me (con dediche piene di citazioni tratte da Calvino, Margherite Yourcenar o Paul Watzlawick), io lo regalavo alle fidanzate, le fidanzate ne parlavano con mio fratello, mio fratello ne raccontava a tavola, e così via per anni, in quell’allegra compagnia di Borges (senza che peraltro nessuno si sia mai sognato di inviargli le proprie poesie e offendersi per una mancata missiva di risposta).
A questa penultima ragione (alla memoria e all’intelligenza delle persone che ho incontrato e che mi hanno raccontato di Borges), aggiungo in ultimo le parole di Mario Vargas Llosa che, anni fa, introducendo un’intervista pubblicata in Italia da Minimum Fax, scrisse: «Per noi scrittori latinoamericani, Borges ha annunciato la fine di una sorta di complesso d’inferiorità che ci impediva, senza che ce ne rendessimo conto, di toccare certi argomenti, e che ci teneva imprigionati in un’ottica provinciale. Prima di Borges, sarebbe parsa temerarietà o illusione da parte di uno di noi ambire alla cultura universale come avrebbe fatto un europeo o un nordamericano».
Vale la pena infine concludere con la descrizione che ne fa Ronald Christ: «C’è qualcosa di lievemente irreale nel modo in cui i capelli gli rimangono ritti sulla testa. [...] Ma quando ride – e ride spesso – i suoi lineamenti si increspano in una smorfia che ha tutta l’apparenza di un punto interrogativo. [...] La maggior parte delle sue asserzioni è posta in forma di interrogativi retorici; quando però Borges fa una domanda vera e propria, dalla sua espressione trapela ora una evidente curiosità, ora una timida, quasi patetica incredulità». Parla di tutto con profonda ironia. Anche della sua cecità: «L’ho accettata, come ho accettato la vecchiaia; del resto non si accetta la vita? E la cecità è uno degli accidenti della vita. Qualcuno disse a Bernard Shaw di non agire in un certo modo, perché era un’imprudenza. E Bernard Shaw rispose: “Ma anche nascere e vivere è imprudenza. Tutto è imprudenza, ma anche una felice avventura”».
Di questo coraggio del vivere – letterario e filosofico – racconto alle mie studentesse di Psicologia (sono al 90% donne, dunque uso il femminile – qui come a lezione – dato che sarebbe sgarbato cambiare sesso a 70 ragazze solo perché tra i presenti figurano 7 maschi). Cito spesso uno dei miei racconti preferiti, costruito in forma di saggio filosofico. Tratta del tempo, quella inafferrabile sostanza o dimensione che tanto ci affligge per via del suo tracciare rughe sui nostri visi e sottrarre affetti ai nostri giorni. Tale duplice offesa – e il tentativo di scongiurarla – ha mosso i pensatori di ogni epoca a interrogarsi sulla sua natura. Già Sant’Agostino rifletteva: «cos’è il tempo? Se non ci penso lo so, se ci penso non lo so più». Bello sarebbe scoprire che non esiste. Quasi si trattasse di un brutto sogno dal quale finalmente possiamo svegliarci: ancora giovani, di nuovo energici, in compagnia delle persone che abbiamo amato.
Per condividere con noi questa speranzosa eventualità, Borges scrisse il saggio che citavo poco sopra. S’intitola Nuova confutazione del tempo. Quando lo presento alle mie studentesse scandisco le parole del titolo per rimarcare l’ironica antinomia dovuta al fatto che qualsiasi confutazione del tempo che possa dirsi “nuova” presuppone evidentemente l’esistenza di una successione temporale. In genere alcune studentesse ridono. Non tutte, però. La ragione è semplice: le prime hanno colto lo humor poetico, le seconde non ci riescono. Ma non è grave. È un’abilità che si può imparare con un po’ di esercizio. Per esempio leggendo Borges.