Il corpo della commedia
Esiste un dialogo fitto e costante tra il cinema e l’universo dei generi – che evidentemente tende oltrepassare il perimetro teorico tracciato dai discorsi calibrati sul medium e a sconfinare nei territori adiacenti, in cui germogliano gli innesti riflessivi più interessanti. È un dato di fatto: il cinema si è trovato a ereditare in seconda battuta archetipi, forme, codici e storie da contesti artistici preesistenti (letteratura e teatro, in primis), stendendo su quei profili millenari una vigorosa passata di smalto ontologico fresco. Quasi centotrenta anni dopo, chi intende approcciarsi allo studio dei generi cinematografici deve però fare i conti con un panorama retorico evidentemente molto più esteso, ibrido e complesso, all’interno del quale i principali modelli analitici decadono (anche se in un’accezione metamorfica e progressiva) e si impongono nuove logiche esperienziali legate a pratiche globali di transmedialità e rimediazione. È lo stesso concetto di “genere” a perdere consistenza, a smembrarsi e a ricomporsi senza soluzione di continuità, a sfumare in un paradigma identitario altamente diffrattivo: questa versione, almeno in parte, indebolita di genericità parla la lingua dell’algoritmo e delle processualità CGI, e manifesta la tendenza compulsiva a riconvocare le immagini, a farle tornare (soprattutto in termini di memoria, sopravvivenza, residuo), a ricollocarle nei recessi abissali e multidimensionali di un archivio potenzialmente illimitato.
Cosa significa, allora, oggi riflettere sul valore di determinate categorie? Si può ancora parlare di un genere come la commedia e continuare a riconoscerlo, oltre ogni ragionevole dubbio? Cos’è che di esso perdura come tratto invariante distintivo nei formati audiovisivi contemporanei (post-mediali e post-generici), dopo secoli e secoli di glorioso domicilio nel pantheon delle rappresentazioni? O forse, criticamente parlando, risulta più logico e necessario fare un passo indietro e rivolgersi piuttosto a quel margine di senso che congiunge le immagini della commedia, oggi come ieri, alle nostre forme di vita, rendendole più accessibili?
L’ultimo lavoro di Roberto De Gaetano, Le immagini della commedia (Marsilio, 2024), si spinge proprio in questa direzione e propone un’appassionante (e appassionata) indagine che, senza eludere la fisionomia classica o la struttura mitica del genere, affonda nello spessore più propriamente umano della sua carne viva, dissezionando il corpo commedico attraverso alcuni casi filmici esemplari, dal cinema muto al passato più recente: Sherlock Jr. (B. Keaton, 1024), Trouble in Paradise (E. Lubitsch, 1932), Due soldi di speranza (R. Castellani, 1952), Totò a colori (Steno, 1952), Some Like It Hot (B. Wilder, 1959), Il sorpasso (D. Risi, 1962), Play Time (J. Tati, 1967), Mimì metallurgico ferito nell’onore (L. Wertmüller, 1972), Manhattan (W. Allen, 1979), Licorice Pizza (P.T. Anderson, 2021). Per non andare troppo lontano nel tempo, fermiamoci all’ultima pellicola di Paul Thomas Anderson, artefice di una radicale riscrittura dell’identità cinematografica americana vergata a colpi di stupefacenti attualizzazioni sui generis, e ai suoi giovani protagonisti Gary (Cooper Hoffman) e Alana (Alana Haim), impegnati in un estenuante differimento dell’energia amorosa che segue i ritmi spensierati del controtempo e della (rin)corsa:
Licorice Pizza ci dice non solo che la commedia è abitata strutturalmente all’interno dalla finzione, cioè dal gioco delle maschere che trovano nei luoghi della leisure la loro realizzazione. Ma che quello stesso gioco è al cuore del capitalismo e dell’iniziativa d’impresa, che respira la stessa libertà dell’amore. Che in gioco non è tanto l’azione imputabile al soggetto colpevole, quella che apre lo spazio del tragico e della violenza (totalmente assente dal film), ma l’azione comica, quella che iscrive il desiderio nella distanza, che lo alimenta attraverso la finzione, e che ne fa il motore continuo di un rinnovamento individuale e sociale. La commedia come costituzione di una vera e propria antropologia. (De Gaetano 2024, p. 121)
La chiusa di De Gaetano sull’antropologia ricapitola la portata dell’operazione critica da lui condotta, nel suo attestarsi come raffinato esercizio di montaggio tra sequenze cinematografiche e fotogrammi vividi estrapolati dal pensiero di autori come Aristotele, Bachtin, Bergson, Cavell, Dante, Dürrenmatt, Freud, Frye, Lukács, Platone, Plessner, solo per citarne alcuni. Il presupposto metodologico è uno solo: se esiste un genere dell’umanità (in grado di intercettarne l’essenza a livello fisico, morfologico, fisiologico, psicologico, filosofico), si tratta senz’altro della commedia. Così come eminentemente umano è il carattere da cui essa deriva, il riso, in un’accezione che traspone in chiave estetica e mimetica un qualcosa che pertiene alla sfera della prassi rituale. Animali e piante non ridono: la risata corrisponde al più eccentrico tra gli automatismi, è una risposta involontaria e destabilizzante all’impossibilità corporea di agire, al fallimento della connessione senso-motoria con il mondo, alla destituzione di sovranità e gerarchie. Il soggetto umano, attraverso la risata, accede all’interludio privilegiato dello scarto, della perdita di controllo, della scissione tra interiorità ed esteriorità: emancipato dal giogo della coscienza e dai vincoli dell’esperienza, il corpo è libero di sottrarsi, di spalancarsi, di spaccarsi in due – leggermente diverso è, invece, il discorso legato al “sorriso”, che del riso è prodromo enigmatico e che si configura come gesto laterale, distensivo, sospeso, con cui si prendono le distanze dalle situazioni per attivare l’orizzonte del possibile.
La commedia è, dunque, il genere capace di convertire la libertà espressiva veicolata dal riso in una serie di movimenti, di gesti e di posture che definiscono «la forma possibile della felicità umana» (De Gaetano 2024, p. 29): contro il determinismo asfittico e solipsistico del destino tragico, l’intreccio commedico si dipana in uno spaziotempo estremamente plastico e arioso (un ineffabile “tra”, a metà strada tra distanza e prossimità) contrassegnato dalla grazia infantile del gioco, della simulazione, della reversibilità – e quindi mediato, metaforicamente e non solo, dai segni della performance attoriale –, ma pur sempre orientato a un approdo di riconoscimento, a una rinascita primaverile, a un nuovo inizio di stampo sociale e comunitario. I personaggi della commedia al cinema non coincidono mai con loro stessi e, mossi dalla spinta intemperante del desiderio, caracollano verso un lieto fine il più delle volte ateleologico, che si palesa quasi sempre miracolosamente, a un passo dalla catastrofe, come l’aurora sul finire della notte, come il risveglio dopo un incubo – tranne in alcuni casi più “neri”, tipici del contesto italiano (Risi, Wertmüller), in cui a dominare è piuttosto il tratto grottesco e in cui la maschera diventa perenne, rendendo il furto d’identità non più praticabile.
[…] la commedia ha una virtù etica profonda: quella di insegnarci che il desiderio e la gioia di vivere nascono da un accordo fondato sul disaccordo. Che il secondo è la via di accesso al primo. E che il primo lo si raggiunge nella forma più improbabile e anche rischiosa, quando le cose non funzionano e stanno per distruggersi, ma il nostro sentimento di non essere del tutto coincidenti con tale possibile distruzione ci mette in salvo nella condizione di poter rinascere. E di tutto questo poterne ridere, insieme agli altri. (De Gaetano 2024, p. 34)
Come ci ricorda il personaggio dell’inconsapevole miliardario Osgood (Joe E. Brown) nella proverbiale ultima scena di Some Like It Hot di fronte alle rimostranze della sua garrula Daphne (Jack Lemmon): «Nessuno è perfetto!». Della serie, non importa se la donna di cui sei innamorato non è una bionda naturale, se fuma come turco, se ha un passato burrascoso, se ha convissuto per anni con un sassofonista, se non potrà mai avere bambini e se, alla fine, si rivela essere un uomo – un uomo che si è finto donna per sfuggire alla polizia e a una banda di gangster sanguinari. La commedia è il luogo in cui la “mancanza di perfezione” ha un suono felice e il riconoscimento dell’alterità non adombra alcuna pretesa di minaccia. Si può essere ciò che si vuole e ci si può sempre (ri)sposare, al di là dei ruoli, degli abiti e dei travestimenti. Nessun vincolo, nessun ostacolo. Nessun colpevole. O, nella peggiore delle ipotesi, colpevoli lo siamo tutti: al cinema e nella vita.
In copertina, Francois Bunel - Actors of the Commedia dell'Arte.