Politica e Partito / La Resistenza di Romano Bilenchi

25 Aprile 2019

“Anni fa il direttore di un rotocalco, il quale al tempo dell'impero era un fanatico della guerra, forse per far sapere che ero stato fascista, pubblicò una foto nella quale io ero insieme a Pavolini. Era una foto scattata all'inaugurazione di una mostra di Rosai. Eravamo giovani, ben vestiti, con camicia bianca e senza distintivo all'occhiello, guardai la foto con commozione. Per me l'amicizia è superiore a qualsiasi divergenza politica.”

 

Così, con la consueta schiettezza umana e asciuttezza di stile, Romano Bilenchi nel capitolo dedicato proprio alla storia di Pavolini e contenuto in Amici del 1976, il migliore dei libri del suo terzo momento narrativo. Bilenchi, che è nato a Colle Val d'Elsa 110 anni fa e morto, sempre nel mese di novembre, di 30 anni fa, aveva in effetti aderito a quella corrente, il cosiddetto fascismo di sinistra, particolarmente attraente per molti intellettuali quali Vittorini, conosciuto nel '30 e a sua volta descritto in uno dei più intensi ritratti (insieme a quello dedicato allo stimatissimo Ottone Rosai) di Amici, Brancati, Pratolini. Tale adesione lo portò a collaborare a «Il Selvaggio» di Maccari, dove a puntate vede la luce il suo esordio narrativo poi ripudiato (Vita di Pisto), al «Bargello» diretto dallo stesso Pavolini ancora soprattutto letterato, e a «Critica fascista» fino al '37, mentre già con la guerra di Spagna incrinava la simpatia verso il Regime. Tanto da dichiararlo apertamente a Pavolini e da rifiutare una cattedra per chiara fama dopo la pubblicazione del suo capolavoro Conservatorio di Santa Teresa del '40. 

 

Una lunga pausa di silenzio avvolge nel dopoguerra Bilenchi, che torna alla narrativa solo nei primi anni Settanta; appunto con i felicissimi ricordi di Amici e altre rielaborazioni della propria autobiografia come I tedeschi (1985) e Il bottone di Stalingrado, il suo più compiuto romanzo della Resistenza a cui aveva poi attivamente partecipato. Quest'ultimo lavoro, piuttosto agile e corsivo, è strutturato in tre parti corrispondenti alla nascita e presa del potere da parte del fascismo, alla guerra di liberazione e al dopoguerra. Protagonista ne è lo studente Marco, orfano di padre, un medico socialista ben voluto dagli operai dell'anonima cittadina dove cresce, che viene per un certo periodo irretito dalle posture belliciste dell'amico Paolo (appunto un fascista di sinistra più tardi deluso e ribelle al Regime trionfante), ma riportato in carreggiata dalla madre e dagli spettacoli di gratuita violenza dello squadrismo già vincitore: “Aveva detto a Marco di non volere più udir parola di Lorenzo e delle persone come lui che si erano battute perché la guerra e la strage avessero inizio. […] Pensa a studiare e basta. Quando i tempi cambieranno, se vorrai aderire a un partito politico, fai come tuo padre: stai dalla parte dei poveri e degli sfruttati.”

 

La narrazione spoglia e svelta di Bilenchi raramente fornisce scene di grande effetto sulla guerra di Resistenza, ripercorrendo piuttosto, senza citarle esplicitamente, le tappe canoniche del 25 luglio e dell'8 settembre. Ecco dunque l'attesa trepidante e il fraintendimento: “La gente attendeva una comunicazione straordinaria dalla radio che era stata annunziata almeno un'ora prima. L'un l'altro si dicevano che avrebbe parlato Badoglio.”; “La gente cominciò a gridare: – Pace, pace, Viva gli americani, Viva Churchill. Marco e Mauro udirono una voce isolata e forte che urlava – Stalin, Stalin –.” Poi lo sfacelo e la rabbia da parte dei giovani più politicizzati verso gli imbelli e reazionari graduati dell'esercito: “se gli ufficiali non scappassero, i tedeschi si potrebbero fermare. Tutto si può fermare, anche il sole”; “Hai visto quante armi c'erano nascoste nella caserma Gorizia? Per il re, per Badoglio, per i ricchi è meglio che prendano il potere in mano i tedeschi che gli operai e gli antifascisti. […] Questi figli di puttana di ufficiali appena sono apparsi i primi manifestini comunisti ci hanno ordinato di consegnare le armi al magazzino.”

 

 

L'interesse maggiore del romanzo d'un Bilenchi appena rientrato nelle file del Pci, dopo esserne uscito nel 1957 a seguito dei fatti d'Ungheria, è la prospettiva decisamente politica e più propriamente comunista, messa in fondo in ombra invece nei grandi narratori della Resistenza come Fenoglio; tanto da attirarsi critiche di ortodossia, zdanovismo, neo-realismo in ritardo. La fitta rete di contatti clandestini dei comunisti, sopravvissuti a vent'anni di repressione, devono essere rivitalizzati e rinsaldati: tale il compito iniziale di Marco (“Si incontrava con parecchie persone che esercitavano professioni e mestieri diversi e abitavano anche i più lontani rioni della città: impiegati, funzionari di enti pubblici, operai, un agente di polizia, un giornalista. Tutti riferivano a Marco, giorno per giorno, quello che venivano a sarere di importante.”). Seguendo la rigida disciplina del clandestino, prudente e cosciente dei propri doveri: “E soprattutto essere puntualissimo agli appuntamenti. In alcune città sono stati arrestati alcuni dirigenti mentre attendevano compagni ritardatari.”

 

Nel frattempo dovrà meglio formarsi come comunista, attraverso i libri proibiti (legge Labriola avvolto nella carta di giornale) e la spiegazione dell'inesausta pedagogia dei compagni più esperti, come Giuseppe che aveva insegnato per cinque anni storia contemporanea all'università per stranieri di Mosca e che “tenne loro una prima lezione sulla storia del movimento operaio, e spiegò a lungo quale era la linea del partito nella situazione attuale, i rapporti con gli altri partiti e le fasi della lotta contro i fascisti.” Senza dimenticare la fonte di ispirazione sovietica, decisiva sul piano ideologico quanto militare, in particolare del soldato tedesco segretamente comunista che appunto gli regala il bottone di un vecchio pastrano raccolto a Stalingrado, appartenuto allo sconosciuto “giovane, o ucraino o siberiano che fosse, morto anche per noi. Senza tutti quei morti russi, rinsecchiti e induriti dal gelo, non ci sarebbe stato un domani per nessuno nel mondo.”  

 

Così da intellettuale organico ormai formato Marco potrà passare all'attività di propaganda: “Scrivere articoli, riordinare i comunicati delle azioni di guerriglia, anche quelli su piccoli fatti, e sovrintendere alla pubblicazione di quattro giornali: l'Unità regionale, il settimanale della nostra federazione, il giornaletto delle donne e quello per i giovani che facciamo in collaborazione con altri partiti.” Anche in ciò levandosi i vezzi estetici e linguistici del letterato, la vuotaggine fascista, secondo i consigli di Giuseppe che “gli dette a leggere opuscoli e altro materiale provenienti dal centro, gli insegnò a scrivere articoli brevi, lineari ed efficaci.” Una predilezione stilistica che Bilenchi, come scrittore attentissimo a limare e riscrivere, ha avuto da sempre e che ribadisce anche, in forma difensiva, nel colloquio con Enzo Golino apparso su «il Giorno» del 21 giugno 1973, citando Stendhal e il cinema, laddove Giuliano Gramigna nell'introduzione all'edizione Rizzoli del 1983 scriveva addirittura di lingua “referenziale e denotativa”, certo antieroica. 

 

Il bildungsroman di Marco, simile a quello ugualmente decisivo dell'autore, così incardinato nelle certezze del partito appena riabbracciato chi sa con quali aspirazioni di lotta, unione e stabilità nei difficili anni Settanta, non deve far pensare a un esito troppo pacificato. Il bottone di quella giubba sovietica, affidato come un talismano e un pegno al protagonista, si accende infatti di bagliori memoriali di resistenza ma anche di malinconia. Gran parte delle (poche) narrazioni di Bilenchi sono centrate del resto sul ricordo, trattenuto eppure lirico, di una formazione adolescenziale che fa i conti con le insicurezze e la solitudine di quell'età. Senza ascrivere Il bottone al nutrito filone della delusione post-resistenziale, va detto però che Bilenchi in fondo ancora una volta ci offre, nella terza parte del romanzo dedicata al dopoguerra e a un amore drammatico di Marco, una parola di sobrio disincanto verso la vita e pure verso la storia. 

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