Günter Grass. Sbucciando la cipolla
Sbucciando la cipolla è il testo-verità dell’ultimo Grass. Questo scritto autobiografico ormai considerato come il libro dello scandalo, scuote l’opinione pubblica scatenando una tempesta di prese di posizione, di giudizi e di commenti sulla stampa tedesca e internazionale nel mezzo dell’estate del 2006. Esso compare nelle librerie poco dopo che, il 12 agosto, in un’intervista rilasciata alla “Frankfurter Allgemeine Zeitung”, lo scrittore danzichiano – ormai settantottenne – ne ha anticipato i punti salienti e ha dichiarato di aver finito per arruolarsi per poche settimane, negli ultimi mesi di guerra, in un reparto delle Waffen-SS, il famigerato corpo elitario dell’esercito tedesco composto da fedelissimi di Hitler, come volontario presso l’artiglieria contraerea. È un duro colpo per la sua immagine pubblica, che ne esce scalfita. Si fa a gara a rinfacciare a Grass i trascorsi giovanili, con il rischio che ne resti travolta la credibilità del suo ruolo di «apostolo della morale», secondo la formulazione del settimanale “Der Spiegel” che poco dopo, il 21 agosto, gli dedica una provocatoria copertina in cui Grass viene ritratto come tamburino (uno stravolto Oskar Matzerath) intento a percuotere non già l’antico tamburo di latta, ma un elmetto delle SS. Per i suoi nemici, che non aspettavano altro che un suo scivolone, è l’occasione propizia per svilire l’intero suo impegno politico: non si capisce, dicono, perché su un episodio così delicato Grass abbia taciuto fino a ora continuando a proporsi per un sessantennio come una sorta di praeceptor Germaniae o di “coscienza morale” dei tedeschi. La sua rivelazione scatena forti polemiche, al punto che non manca chi addirittura pretende che egli restituisca il premio Nobel, mentre altri lo difendono, sostenendo che il suo passato non deve compromettere o liquidare la sua opera. Del resto, comportamenti come il suo non sono nuovi nel panorama europeo.
Frutto di un’elaborazione triennale, questo libro delicato e al tempo stesso spietato prende avvio dal 1° settembre 1939, allorché Hitler invade la Polonia, compresa la città natale dello scrittore, allora un dodicenne che, sull’onda della propaganda nazionalsocialista, è un fervido sostenitore del Führer, e si conclude nel 1959, anno in cui viene pubblicato Il tamburo di latta. In un’intervista concessa a “Die Welt” il 17 dicembre 2007, Grass rivela di aver tratto ispirazione, per la metafora utilizzata come titolo del volume, dal Peer Gynt di Henrik Ibsen, da cui ha appreso che le cipolle non hanno un cuore, un centro, ma solo molti strati. Dalla metafora si evince che, nella riattivazione della sua tormentata memoria autobiografica, attraverso la scrittura «torna a vivere», strato dopo strato, frase dopo frase, «ciò che si credeva perduto». Il doloroso viaggio à rebours compiuto in Sbucciando la cipolla è per Grass un modo per riattingere, alla soglia degli ottant’anni, gli strati più profondi e per nulla rassicuranti della propria storia personale, in parte coperti dall’oblio, assolvendo sino in fondo il difficile compito della memoria. È un modo per far ordine nella propria vita, per recuperare ancora una volta, prima che sbiadiscano del tutto, istantanee del passato più remoto, facendo riemergere – strato dopo strato – voci, personaggi, scene di vita e soprattutto la verità non detta interamente o raccontata di volta in volta in modi diversi: «Quello che accadde prima e dopo la fine della mia infanzia bussa con i fatti e si svolse peggio di quanto si sarebbe voluto, chiede di essere raccontato ora in un modo ora nell’altro e induce a storie menzognere» (SC, 5). La restituzione narrativa della propria vita non è, infatti, cosa facile, come lascia subito intendere il primo capitolo («Le pelli sotto la pelle»), perché è insidiata sia dall’indistinzione dei dati di realtà che dall’intervento dell’immaginazione o dell’emozione. Per chiarire tale progetto di riconoscimento dei ricordi Grass fa anche ricorso a una metafora sussidiaria, ripetutamente ripresa nel corso del libro: quella dell’insetto incastonato nell’ambra color giallo miele, che attende di essere letto accuratamente per vedere «quanto si è conservato intatto», nonostante le crepe evidenti sulla facciata: «Se lo tengo controluce per un tempo abbastanza lungo, se fermo l’incessante ticchettio nella mia testa e non mi lascio distrarre da niente anche quanto al resto, da nessuna obiezione della politica quotidiana o altrimenti attuale, insomma se sono totalmente “in me”, al posto dell’insetto inglobato [...] vedo me stesso a figura intera». Di conseguenza il biografo di sé stesso non può affidarsi semplicemente al ricordo: «Il ricordo ama giocare a nascondino come i bambini. Si rintana. È incline all’adulazione e gli piace abbellire, spesso senza necessità. Contraddice la memoria, che si comporta con pedanteria e vuole avere litigiosamente ragione».
Con questa consapevolezza alle spalle, Grass osserva il vitale e scabroso percorso da lui intrapreso fra il 1939 e il 1959 affacciandosi su di esso con l’implacabile distanza degli ottant’anni, descrivendo spesso in terza persona. È quasi un altro da sé, assomiglia a un vecchio saggio che può finalmente guardare il suo “doppio” di allora.
E così, con la malinconia della vergogna, Grass ritrova la parte di sé sempre rimossa e taciuta che, con scelta consapevole, s’è lasciata trascinare dall’onda. Lui vorrebbe, sì, liquidarla come un “errore di gioventù”; essa tuttavia non può essere minimizzata: «Per quanto rovisti con solerzia tra il fogliame dei ricordi, non si trova nulla che possa parlare a mio favore. Evidentemente nessun dubbio ha offuscato i miei anni giovanili. Anzi, conquistabile con facilità, partecipavo a tutto ciò che la vita quotidiana, spacciandosi eccitata ed eccitante per “Nuova Era”, aveva da offrire». In pari tempo, però, egli ritrova anche la parte di sé che, dopo essere uscita viva dall’orrore della guerra, s’è lanciata – con compiacimento – all’affermazione di sé nel cibo, nell’eros e nell’arte, al soddisfacimento, finalmente, di quella triplice «fame» su cui egli ora si diffonde nella seconda parte dell’autobiografia. E allora torna a rivisitare sé stesso rivedendosi nelle inquiete e incerte peripezie dell’adolescente che si sposta da un capo all’altro della Germania, in cerca dei familiari, o che è alle prese con lavori occasionali. Ritrae allora sé stesso nelle vesti di agganciatore in miniera, ballerino, scalpellino, autostoppista in giro per l’Italia, batterista in un trio jazz, disegnatore, scultore, poeta e narratore. E coglie l’occasione per offrire, con un’ottica più consapevole, la cronaca delle sue affermazioni letterarie, aggiungendo dettagli e chiarimenti che aiutano a comprendere anche episodi o figure dei successivi testi narrativi (dal Tamburo di latta ad Anni di cani, al Mio secolo e così via).
Alla luce del ricordo, Grass rilegge dunque anzitutto, nella prima sezione di questa autobiografia, i suoi anni da ragazzino e da adolescente. Il racconto delle sue traversie è impressionante. Rivedendosi fra i dieci e i tredici anni, fa emergere le sue prime non brillanti esperienze scolastiche ma anche le sue attitudini di adolescente geniale, cupo e solitario, tutto perso nelle atmosfere e nei personaggi dei libri che divora (legge Oscar Wilde, Jünger e Remarque...). Descrive i dissidi fra i genitori e la sua adesione allo Jungvolk, un’organizzazione facente parte della Hitlerjugend e ora cercata come si trattasse di una nuova famiglia, per trarsi fuori «dal tanfo piccolo-borghese delle costrizioni familiari».
Parla della seduzione esercitata dal Führer. Descrive la sua città allo scoppio della guerra, nel caos generale. Rievoca la scomparsa improvvisa di suo zio materno perito durante l’assalto alle Poste polacche, si sofferma sulla scomparsa di alcuni compagni di classe. E naturalmente indugia sul «passo fatale del quindicenne in uniforme», sul momento cioè in cui decide di presentarsi volontario in marina, come sommergibilista. E rivela al lettore la sua sorpresa quando, negli ultimi mesi del 1944, si vede, sì, effettivamente chiamato alle armi, ma assegnato a un battaglione delle SS, subendo dapprima l’addestramento a carrista e finendo catapultato dall’oggi al domani nell’inferno della guerra, sul fronte russo, negli ultimi mesi del 1944, quando i bombardamenti degli alleati non hanno tregua (anche Dresda gli appare, in lontananza, tra le fiamme). Scrive che deve solo al caso se non è stato fucilato come disertore perché sorpreso senza documenti, e se non è stato fatto a pezzi da un’esplosione, ma soltanto ferito di striscio a una gamba. Prosegue poi il racconto della propria odissea rievocando l’uscita da quell’inferno (è ormai la seconda parte del libro): il lento processo di maturazione politica e personale, in un campo di prigionia americano, e da ultimo l’attuazione del proprio sogno di diventare artista, cui egli si apre in una Germania che sta faticosamente uscendo dalle macerie. Danzica stessa è completamente distrutta, e lui riuscirà a rivedere i suoi familiari, rifugiati nei pressi di Hannover, soltanto nel 1947.
Grass sa quanto sia doloroso, gravido di conseguenze e tuttavia importante, sfogliando i lacrimevoli strati dei propri ricordi, arrivare alla verità più nascosta, alla scritta «Ho taciuto», durevolmente incisa nelle «ultime pelli». Adesso quel silenzio si abbina al senso di colpa (e di vergogna), che resta «come sedimento», come una macchia indelebile, come «una pozza che non si prosciuga leccandola». Tanto più che proprio lui nel 1961, dopo la costruzione del Muro, si è fatto portavoce dello slogan «chi tace è colpevole». Sa che quel silenzio rende poco esemplare la sua condotta e che di conseguenza, una volta rotto, gli renderà ormai più difficile, se non impossibile, giudicare gli altri, essere “voce morale” della Germania. Può cercare, naturalmente, qualche attenuante per l’essersi lasciato allettare e «traviare» dalla realtà che lo attornia: aveva solo dodici anni quando era entrato nella Hitlerjugend, e quasi diciassette quando era finito in quel corpo delle SS, assecondando la voglia di avventura tipica dell’età, imbevuto di propaganda del regime, senza neppure capire granché di politica. Comunque ammette che non ci sono scusanti per le colpe attribuibili alla leggerezza dei suoi anni giovanili.
Perché questa confessione tardiva? Perché rivelare una vicenda compromettente e imbarazzante come il fatto di essere stato soldato delle SS se – oltretutto – si è convinti che, nella scrittura autobiografica, la verità ultima probabilmente sfugge, restando vittima dell’inaffidabilità della «Signora Reminiscenza», che è «figura capricciosa»? Probabilmente Grass, alla soglia degli ottant’anni, avverte la necessità di fare un bilancio della propria vita, sia per sé stesso che per i propri lettori. Certo, i maligni potrebbero accusarlo di aver serbato questo segreto per calcolo promozionale. O forse è possibile che egli abbia fiutato che a quel “segreto” qualcuno sta ormai arrivando, e che egli abbia allora preferito anticipare lo scandalo. Quel che è indubbio è che il dato saliente di questa autobiografia è la spontaneità. «La cosa certa», scrive Grass, «è che mi sono presentato volontario al servizio con l’arma» dopo il servizio come aiutante nella Luftwaffe che non era volontario. «Il mio atto», confessa, «non si lascia minimizzare a stupidità giovanile. Nessuna pressione dall’alto mi ossessionava». In un altro passo, con spietato realismo, precisa: «In quanto membro della Gioventù hitleriana sono stato un giovane nazista. Convinto fino alla fine. Non proprio fanaticamente in prima fila, ma con sguardo incrollabilmente fisso alla bandiera di cui si diceva che fosse “più della morte”, rimasi allineato, avvezzo a marciare al passo. Nessun dubbio oscurò la fede». Testimonianza preziosa, questa, che fa comprendere i sogni e gli stati d’animo di un’intera generazione (quella dello scrittore danzichiano) che ha visto nell’eroismo bellico fomentato dalla propaganda un’occasione per assicurarsi la “gloria eterna”: una delle ragioni che hanno reso possibile l’ascesa del Partito nazionalsocialista.
Nell’autobiografia, Grass chiarisce anche la dinamica che ha portato all’infausto reclutamento tra le SS: nel periodo in cui si presenta come volontario per diventare sommergibilista, le accettazioni sono sospese, poiché non c’è bisogno di volontari; egli si sente però promettere che la sua richiesta verrà presa in considerazione da altri reparti. E proprio per questo egli apprenderà la propria destinazione soltanto quando si vede recapitare la cartolina della chiamata alle armi: è in tale occasione che egli viene mandato in un centro di addestramento delle Waffen-SS, in un punto lontano della foresta boema, per essere istruito come carrista tiratore in una divisione (la 10. Panzer-Division) che dev’essere costituita ex novo sotto il nome Jörg von Frundsberg. Grass associa a questo nome ideali di libertà e di liberazione, poiché quella figura storica gli è nota come «capo della Lega Sveva al tempo delle guerre contadine e come padre di servi di campagna», e per di più concepisce le Waffen-SS come un corpo elitario, destinato ai ruoli di maggiore responsabilità, aggiungendo che quei corpi speciali «avevano un che di europeo: concentrati in divisioni, volontari francesi, valloni, fiamminghi e olandesi, molti norvegesi, danesi, persino svedesi neutrali combattevano sul fronte orientale una battaglia difensiva che, così si diceva, avrebbe salvato l’Occidente dalla marea bolscevica». Le scusanti non mancano, ma la realtà è ben diversa, anche se per decenni egli se lo nasconderà: «Quello che avevo accettato con lo stupido orgoglio dei miei anni giovanili ho voluto tacerlo dopo la guerra per un senso di crescente vergogna. Ma il peso restava, e nessuno poteva alleviarlo». Notoriamente, infatti, le Waffen-SS svolgono in realtà un ruolo fondamentale nei campi di concentramento nazisti, organizzandoli e contribuendo alla loro costruzione. Durante il duro addestramento da carrista tiratore, periodo in cui Grass è sia vittima sia spettatore di angherie, ignora totalmente i crimini di cui i nazisti si macchiano, né è al corrente del reale andamento della guerra. Soltanto alla fine del conflitto bellico si avvede di aver fatto parte di un’organizzazione che ha sterminato milioni di persone, e si sente corresponsabile: è questa probabilmente la motivazione più profonda che lo ha indotto a tacere.
Alla fine dell’addestramento viene inviato con i compagni della sua divisione al fronte in Bassa Slesia. Vede molti morti (anche impiccati agli alberi, uccisi dai tedeschi in quanto considerati “vili disfattisti”) e città distrutte. Si trova sballottato da un luogo all’altro, finché i russi riescono a sfondare il fronte, determinando così lo smembramento della sua divisione, i cui componenti si uniscono ad altri gruppi. Più temibili dei nemici di guerra sono però i cosiddetti “cani da catena” tedeschi, cioè la polizia militare che va a caccia di tutti quei soldati (indipendentemente dal grado) che, se risultano privi dell’“ordine di marcia”, vengono presi, portati via come imboscati, vigliacchi e disertori dinanzi ai tribunali di guerra mobili e poi impiccati, «ben visibili da lontano». Alla fine egli riesce a salvarsi, sebbene ferito e intimamente segnato da un’esperienza infernale (l’accerchiamento della propria divisione, in Lusazia, nell’aprile del 1945) che gli ha insegnato che cosa fosse la paura: «La paura è stata il mio bagaglio impossibile da scrollare di dosso. Partito per imparare la paura, ogni giorno mi venivano elargite delle lezioni». I suoi sogni di gloria crollano insieme alla fede nel Führer. Per Grass la guerra finisce di fatto con la sua permanenza nell’ospedale militare di Marienbad, seguita da un periodo di prigionia nel campo di Bad Aibling, dove conosce il compagno Joseph, che con allusioni abbastanza esplicite egli crede di poter identificare con Joseph Ratzinger, futuro papa Benedetto XVI: «Joseph, si chiamerà quel compagno, e sarà così tenacemente cattolico che vorrà senz’altro diventare prete, vescovo, magari cardinale...». Quando viene sottoposto al “Re-education Program” e gli americani gli mostrano fotografie dei campi di concentramento, il giovane soldato non riesce a credere ai propri occhi. Non ci credono neppure i suoi compagni («Impossibile che l’abbiano fatto i tedeschi»; «I tedeschi non fanno queste cose»); pensano che si tratti di propaganda diffusa dagli americani. Grass si convince degli orrori nazisti e apre gli occhi sul carattere criminale delle azioni di cui si è reso complice solo un anno dopo, quando accende la radio che trasmette il resoconto del processo di Norimberga e sente che il suo idolo, il capo della Hitlerjugend, Baldur von Schirach, ha confessato i suoi crimini affermando che solo lui era a conoscenza dell’annientamento di massa pianificato e attuato come “soluzione finale” della questione ebraica. È il momento della caduta delle illusioni, il momento in cui si fa strada la vergogna. In una commovente dichiarazione di sofferenza interiore che l’avrebbe coinvolto per decenni, lo scrittore fa capire che, a questo punto, l’iniziale incredulità si è trasformata in mutismo:
«Passò del tempo prima che capissi gradatamente ed esitando confessassi a me stesso che senza saperlo, o meglio senza volerlo sapere, avevo preso parte a un crimine che non si rimpicciolì con gli anni, che non vuole cadere in prescrizione e che ancora mi fa soffrire. Come della fame, anche della colpa e della vergogna che la asseconda si può dire che rode, rode senza sosta; ma la fame l’ho patita solo per qualche tempo, la vergogna invece…»
I tre Fratellinis con Weißclown (Bianco Clown) e due dummer August, 1932
Gli attacchi personali con cui la sua confessione autobiografica viene accolta, non solo in Germania ma anche in Italia e nel resto d’Europa, lasciano Grass sconfortato, anche se molti amici non lo abbandonano. La sua risposta, nei mesi immediatamente successivi all’uscita di Sbucciando la cipolla, è la raccolta di liriche, litografie e disegni del 2006 che ha per titolo Dummer August. Nella lirica che dà anche il titolo al volume egli si paragona a un clown («Già mi sento ridicolo, / processato per direttissima / dai giusti. / E anche il cappello a punta, arrotolato / dal giornale di ieri / si addice, perché sempre valido»), giocando sul termine August, che in lingua tedesca è sia il nome del mese, agosto, sia il nome di uno dei più famosi pagliacci del circo, Augusto. Sono testi poetici in cui Grass guarda ancora una volta in faccia l’abiezione di quell’episodio che è restato «vergogna» e su cui, per pudore, ha preferito stendere per così tanti anni un velo di silenzio. In pari tempo, però, le sue poesie paiono volerlo trascendere: l’io lirico è infatti deciso a «tener testa» malgrado il fango che si sente gettare addosso, e a trovare il coraggio di dire «bello è il mattino», soffocando il «ribrezzo» da cui si sente «attanagliato» non appena apre i giornali. In uno di essi, Mein Makel (La mia macchia), va dritto al cuore del problema, senza mostrare pietà né per sé stesso né per il coro di «rane gracidanti» da cui si sa circondato:
Tardi, dicono, troppo tardi.
In ritardo di decenni.
Annuisco: sì, ce n’è voluto
prima che trovassi parole
per l’usurata parola vergogna.
Accanto a tutto ciò che mi rende riconoscibile ora mi rimane appiccicata una macchia,
netta quanto basta
per gente
che indica con dito senza macchia. Addobbo per gli anni che restano.
O forse si doveva provare il travestimento, stendere il velo pietoso?
D’ora in poi mi circonderebbe la quiete
in mezzo a rane gracidanti.
Ma già dico sì, no e nonostante.
Non si può mascherare
il torto sanzionato.
Mai troppo tardi ciò che fu ed è
viene chiamato per nome.
La macchia vincola.
Il brano è estratto da: Giulio Schiavoni, Günter Grass. Un tedesco contro l’oblio, Carocci Editore, Roma 2011.