Mister Fluxus e l'utopia che voleva purgare l'arte
La faccia arcigna in una foto in bianco e nero, con la luce dall'alto che accentua e incupisce i lineamenti: sguardo diretto e ostile, capelli rasati, occhialini rotondi a pince-nez, gessato e club collar. È una delle immagini più frequentate di George Maciunas, l'inventore di Fluxus. E richiama la griglia di francobolli Fluxpost, composta da fototessere di uomini anziani e serissimi di inizio Novecento, che compare sulla copertina del libro dedicato ai suoi scritti (Scritti Fluxus. A cura di Patrizio Peterlini e Angela Sanna, Abscondita, 2023).
Chiunque abbia una qualche idea di Fluxus sa che è pura ironia. Per questo fa un po' effetto vedere questa seriosa raccolta di testi, presentati col rigore dovuto a documenti storici (anche se in effetti lo sono) e corredati da un minuzioso apparato di note.
Se avessero chiesto a Maciunas di pubblicare una raccolta dei suoi scritti probabilmente avrebbe tirato fuori uno dei suoi eccentrici progetti grafici; o una scatola contenente poster e gadget vari; o uno dei suoi complicati diagrammi storici, magari da affiggere abusivamente sui muri di musei e gallerie. In effetti, Maciunas non era uno scrittore. Tutte le enciclopedie lo definiscono artista, ma è una definizione che gli va stretta: era un eclettico creativo (grafico, redattore, direttore creativo, artista concettuale, attivista), un fallimentare impresario di spettacoli antispettacolari, un comunicatore che utilizzava qualunque mezzo: proclami e design; progetti editoriali e chiacchiere; lettere ed eventi; azioni da antagonista e burle ingegnose; pubblicità e spazi collettivi. E tutto per promuovere una sua personale utopia che coincideva – e allo stesso tempo contraddiceva – un pezzo importante dello spirito artistico del suo tempo. Ha inventato un brand che è rimasto nella storia dell'arte ed è stato un “connettore” di persone e idee; persone e idee che avrebbe voluto tenere insieme come i fili di una rete, ma che hanno continuato a fluire da tutte le parti come rivoli di una sorgente.
Per render conto in maniera completa di un personaggio così, non bastano i suoi scritti: forse bisognerebbe anche imbottigliare l'aria di New York degli anni Sessanta; o trascrivere su uno spartito le sue continue risatine. Nel primo caso ne verrebbe fuori un'opera ironica e concettuale come la famosa ampolla di Duchamp; nel secondo, un disegno astratto come una partitura di Cage. I nomi non sono casuali, perché sono, rispettivamente, il nonno (involontario) e il padre (naturale) delle idee di Maciunas e del suo (non)movimento.
In ogni caso, questo libro, nato in occasione del sessantesimo anniversario di Fluxus, ha il merito di invitarci a prendere sul serio un artista per il quale, paradossalmente, era importante non prendersi sul serio, e a guardare con più attenzione un fenomeno sfuggente che è stato vittima del successo del suo brand. Fluxus è famoso, ma per molti è solo una bandiera senza esercito sulla quale è scritto «Tutto può essere arte e chiunque può farla»; e sotto la quale pare ci siano solo un mucchio di bizzarrie e quisquilie indefinibili, create e pensate da una banda irregolare di avanguardisti burloni e provocatori. Eppure, anche se il vento dell'arte è cambiato molte volte da quei primi anni Sessanta, la bandiera di Maciunas continua a trovare refoli che la fanno garrire.
In questo anche l'Italia ha contribuito, grazie a gente come Gianni Emilio Simonetti, Giancarlo Politi e Gino Di Maggio e collezionisti come Francesco Conz e Luigi Bonotto, la cui fondazione raccoglie molte testimonianze di Maciunas e degli artisti Fluxus e ha collaborato alla realizzazione del libro assieme all'Accademia di Brera. A proposito della quale, viene da chiedersi: non è imbarazzante, per una Accademia di Belle arti, divulgare l'idea che l'arte non richiede alcuna abilità o competenza perché può esser fatta da tutti in qualunque modo, e che anzi le Belle arti dovrebbero essere eliminate? («Non c'è alcun bisogno di artisti – scrive Maciunas in una lettera – e gli artisti dovrebbero quindi trovare un'altra professione per guadagnarsi da vivere»).
Certo, la storia dell'arte non può non render conto anche degli attacchi portati al suo oggetto da avanguardie e neo-avanguardie, a cominciare dal fenomeno Dada, perché la conoscenza del passato, lontano e recente, è importante per la formazione di uno studente d'arte. Ma questo non fa che confermare quanto l'istituzione accademica sia un baluardo di quel sistema che spinge l'arte ad essere qualcosa che Maciunas e il suo (non)movimento rifiutavano violentemente: una professione.
Un modo per uscire da queste contraddizioni è accettare che in arte non sia necessario uscire dalle contraddizioni; e che anzi possa essere benefico. Nel caso di Maciunas sembra inevitabile: era un vero ossimoro vivente. Il suo libro lo conferma: benché pubblicati per rimanere, i suoi scripta di fatto volant, anzi fluunt, scorrono in ogni direzione e in ogni forma, come un vulcano in continua eruzione di iniziative concrete e utopistiche, ridicole e rigorose, commerciali e invendibili, artistiche e anti-artistiche, collettive e individualiste. Un bell'esempio della mentalità ossimorica di Maciunas sono i grafici rigorosi e analitici, da architetto razionalista, con cui si ostinava a mettere in forma un'entità inafferrabile e informe come un “flusso”.
Nato in Lituania nel 1931 da un architetto e una ballerina classica, Jurgis Mačiunas arriva in America nel '48 e per dieci anni non fa altro che studiare: studia arte, grafica e musicologia, si laurea in architettura e si specializza nella storia dell'arte delle antiche migrazioni euro-asiatiche, ma si interessa anche di logica, psicologia, fisiologia. È in questo periodo che comincia a progettare i suoi diagrammi storico-genealogici, convinto che la cultura umanistica abbia bisogno di nuove forme di organizzazione visiva (un suo ambizioso progetto teorico di chiamerà “Learning Machines”).
La svolta arriva nel 1960, quando comincia a frequentare il corso di composizione sperimentale della New School of Social Research di New York. Nella succosa intervista inserita nel libro, Maciunas dice che l'inizio di Fluxus è «un viaggio dentro una nebbia di mistero». In realtà, il principale incubatore delle sperimentazioni artistiche a cui Maciunas avrebbe presto trovato un brand è proprio quel corso, che è una creatura di John Cage (anche se in quel momento c'è Richard Maxfield, che insegna musica elettronica): da lì sono passati quasi tutti gli artisti del giro originario di Fluxus. La composizione come semplice struttura di eventi indeterminati che si svolgono nel tempo, teorizzata e praticata da Cage fin dall'inizio degli anni Cinquanta e poi rielaborata da George Brecht, è all'origine di una delle forme artistiche più tipiche di Fluxus: gli scores, spartiti concettuali fatti di semplici istruzioni, con o senza i relativi events cioè le esecuzioni-performance. Due esempi: nello “spartito” di Brecht intitolato “Eventi con due veicoli” c'è solo un punto seguito da “start” e un punto seguito da “stop”; in uno di La Monte Young, musicista assai sperimentale che dalla West Coast era arrivato a New York attirato proprio da Cage, c'è la frase “Traccia una linea e seguila”.
Sono queste bizzarre composizioni fatte spesso di rumori, azioni insignificanti e semplici istruzioni lasciate all'interpretazione degli spettatori che, nel dicembre del 1960, George scopre nello studio-loft-senza-acqua-calda appena inaugurato in Chambers Street da una giovane giapponese destinata a diventare il nome veramente famoso del futuro movimento (anche se per merito di un musicista che con Fluxus non c'entra molto). A invitarlo alle serate da Yoko Ono è il suo organizzatore, La Monte Young. Entusiasta, Maciunas propone a La Monte e agli altri di presentare i loro lavori. Per farlo apre una piccola galleria, la AG Gallery, con un socio, lituano come lui. L'intenzione era quella di finanziarsi vendendo strumenti musicali antichi e opere di altri artisti, che avevano accettato di pagare l'affitto con le loro quote; e poi, di sera, avere lo spazio a disposizione per gli eventi dei giovani sperimentatori.
La Monte, di quelle strambe opere, stava anche progettando una raccolta e Maciunas si offre di pubblicarla curandone la grafica (uscirà nel '63 col titolo An Anthology). Gli viene così l'idea di fare una rivista che diffonda quella nuova arte; ed è pensando al titolo della rivista che incappa nel brand del movimento: Fluxus. Yoko racconta che George le fece vedere la voce in un grosso dizionario indicando, divertito, il significato medico-scatologico.
È proprio questa voce di dizionario, anzi la sua foto invertita, il primo “manifesto” di Fluxus: uno scritto “readymade”. La versione effettivamente resa pubblica, (sotto forma di volantino al festival di Düsseldorf nel febbraio del '63) è però la seconda, in cui Maciunas aggiunge di suo pugno brevi commenti che sottolineano il significato di purga, oltre a quello di marea e di fusione: «Purgare il mondo dalla malattia borghese, dalla cultura “intellettuale”, professionale e commercializzata. Purgare il mondo dall'arte morta».
Gli echi futuristi e dadaisti sono evidenti. E proprio “Neo-Dada in Musica, Teatro, Poesia e Arte” s'intitola il primo articolato testo teorico di Maciunas. In esso si rivendica una creatività senza confini tra le arti, in nome di una realtà non illusoria e artefatta (esempi eloquenti: un pomodoro marcio, un pianoforte percosso con un martello); e si rivendica l'indeterminazione, l'improvvisazione, l'anti-arte intesa come vita e natura: «La pioggia è anti-arte, il mormorio di una folla è anti-arte, uno starnuto è anti-arte, il volo di una farfalla o i movimenti di microbi sono anti-arte. […] Se l'uomo potesse sperimentare il mondo, il mondo concreto che lo circonda (dalle idee matematiche alla materia fisica), allo stesso modo in cui sperimenta l'arte, non ci sarebbe bisogno dell'arte, degli artisti e di simili elementi “non produttivi”».
Tuttavia, l'atto di nascita ufficiale di Fluxus non è uno scritto, è un grande evento organizzato in Germania, dove Maciunas arriva dopo il fallimento della galleria e sotto l'assillo dei creditori. Lì trova lavoro come grafico alla rivista della base militare americana di Wiesbaden e stringe amicizia con Nam June Paik un estroso musicista coreano che segue i famosi corsi di Stockhausen nella vicina Darmstadt. I due organizzano subito un concerto dedicato a John Cage a Wuppertal e uno a Düsseldorf; mentre Robert Filliou organizza un evento a Parigi in cui compare il nome “Fluxus”.
Il botto però arriva nel settembre del 1962 a Wiesbaden: un intero mese di concerti e performance intitolato “Fluxus Internationale Festspiele Neuester Musik”. In una lettera a La Monte, Maciunas racconta con entusiasmo il successo del festival: «Wiesbaden è rimasta scioccata, il sindaco ha dovuto quasi fuggire dalla città per averci dato la sala». L'evento finisce su giornali e riviste di mezza Europa e arriva anche la tv, che riprende la storica serata in cui Paik esegue il succitato score di Young intingendo la testa in un secchio d'inchiostro e strisciandola su un lungo foglio di carta steso sul pavimento; e Maciunas esegue il suo omaggio “ritmico meccanico” a Olivetti assieme a quattro serissimi complici che leggono da nastri dell'omonima calcolatrice: «uno sollevava una bombetta, un altro si sedeva o si alzava, un altro indicava il pubblico, un altro spernacchiava con le mani, un altro respirava asmaticamente». Ma il pezzo che fa più scalpore è Piano Activities di Corner: «Abbiamo sistematicamente distrutto un pianoforte che ho comprato per 5 dollari e lo abbiamo tagliato tutto a pezzi per buttarlo via, altrimenti avremmo dovuto pagare i traslocatori, una composizione molto pratica».
Da questo momento l'attività di Maciunas diventa sempre più frenetica: eventi, newsletter, manifesti, lavori grafici (sempre molto originali e raffinati), pubblicazioni (come Fluxus 1, la prima in cui appare il brand, pensata come libro nel '61 ma uscita nel '64 sotto forma di buste di carta manila imbullonate e contenenti materiali vari); e poi film, scatole, gadget di tutti i tipi e addirittura delle Flux Olympiad con giochi assurdi ed esilaranti (come le “composizioni” che firma a suo nome). È un assiduo lavoro di organizzazione e promozione, con in mente l'idea di creare un collettivo di artisti in cui sparissero individualismi ed egoismi e prevalesse l'impegno politico e sociale: un'utopia allegramente donchisciottesca e destinata al fallimento, dato lo spirito anarchico, le differenze e le eccentricità di quegli artisti – oltre all'inevitabile tendenza egocentrica di ogni artista.
Tuttavia Maciunas è caparbio e ottimista, e non demorde. Nonostante sia sempre a corto di soldi e inseguito dai creditori, mette in piedi una rete mondiale Fluxus con tanto di Flux-shop (in Europa uno dei suoi complici più attivi è Ben Vautier). E arriva addirittura a progettare l'acquisto di un'isola per artisti, di cui traccia una mappa con tanto di lotti e relative quote. Ma la sua impresa più concreta e rischiosa sono le Fluxhouses, cooperative per trasformare immobili abbandonati di SoHo in loft per artisti. Riesce ad acquisire quasi venti edifici attorno ai quali era in corso un'importante speculazione edilizia, ma aggirando leggi e scroccando bollette, provoca l'inevitabile reazione degli speculatori e del procuratore generale di New York. Maciunas si difende con ingegnosi sotterfugi e con l'ironia (spassose le lettere che scrive al procuratore); ma nel '75 cade in un agguato e viene pestato a sangue, perdendo un occhio. Dall'ospedale invia una newsletter comica con tanto di illustrazioni in cui racconta l'accaduto e la chiama “Hospital Event”.
Dopo l'incidente si ritira in un podere nel Massachusetts, dove immagina di realizzare una nuova Bauhaus. Nemmeno il tumore al pancreas, che lo colpisce nel 1978, ferma il suo entusiasmo: poco prima di morire si sposa con la poetessa Billie Hutching e ne fa un grande Fluxus Wedding (tra gli eventi lo spogliarello con scambio di vestiti tra lo sposo e la sposa).
Maciunas pensava di promuovere un'anti-arte intesa come «espressione di una creatività che non sia un prodotto criptico e concettuale destinato a una élite intellettuale», scrivono i curatori. In realtà, dietro la semplicità e la disarmante banalità delle opere-eventi Fluxus c'è un'idea di arte che discende dal paradigma postduchampiano, nel quale è decisiva la componente concettuale: un tipo di arte che non richiede abilità “artigianali”, ma che implica comunque una “specializzazione”, una consapevolezza e una pratica delle sperimentazioni in corso, una conoscenza della storia delle avanguardie e della tradizione a cui ci si contrappone. L'equivoco del “lo potevo fare anch'io!” incombe e schiaccia Fluxus sotto il peso delle contraddizioni teoriche che Maciunas ha così allegramente sbandierato: «L'arte-divertimento Fluxus è la retroguardia senza pretese o sollecitazioni a partecipare alla competizione della “gara al rialzo” con l'avanguardia. [...] È la fusione tra Spike Jones, vaudeville, gag, giochi per bambini e Duchamp».
Quest'ultima frase coglie bene la sua poetica personale, che si deve più a Cage che a Duchamp. Nelle lettere e nelle interviste, Maciunas racconta sempre i pezzi Fluxus come barzellette. Ma barzellette sembrano anche i koan del pensiero zen, che Cage aveva appreso dal maestro Suzuki e che aveva disseminato negli ambienti dell'avanguardia americana. Nei koan dello zen, nonsense e paradossi puntano a smontare le pretese dell'io e della mente individuale. Nei koan di Fluxus, sono le pretese del Genio e del Capolavoro ad essere smontate. In entrambi l'intenzione è farci sentire parte del flusso della vita, anche nei suoi eventi più banali. Per questo, forse la migliore definizione di Fluxus è il bellissimo koan di Robert Filliou: «L'arte è ciò che rende la vita più interessante dell'arte».
George Maciunas l'avrebbe accolto con una risatina soddisfatta.
In copertina, Maciunas con gli Excreta Fluxorum all'Accademia di belle arti di Berlino nel 1976 (foto Larry Miller).