Cosa chiediamo a un poeta? / Kae Tempest: sopravvivere all’amore
Cosa chiediamo a un poeta? Maestria letteraria, certo. Ma se non si spende nella sua verità, se non si spoglia di ogni dissimulazione, se si nasconde come un romanziere dietro una storia ben strutturata, ci delude. La “lirica” sarebbe il “canto”, un gorgheggiare di sentimenti condivisibili, una lettura, un ascolto in cui il poeta è capace di relazionare, di affabulare ciò che il lettore non sa dirsi. Alla poesia si chiede molto, e richiede molto, in un’era in cui la lettura stessa diventa una opzione sempre più difficile, lontana dalla frammentazione dell’attenzione digitale. Uscendo dalla parola muta, negli anni Sessanta la Beat Generation ha gettato il corpo del poeta nei reading dei club di San Francisco, nel sudore di ormoni astanti, spesso contrastanti, tracciando l’unica strada contemporanea per la poesia: il ritorno alle origini greche, ancestrali della parola cantata o detta dal vivo ad alta voce. Un reading non può essere una tormentosa esportazione sonora di un testo concepito nella bolla asettica della letteratura scritta. Deve ridarsi al teatro, e alla musica, alla prossemica, alla qualità performante di una voce speciale, allenata a tutto il pentagramma dei volumi e dei timbri.
In Italia abbiamo avuto recentemente due approcci di questo tipo: quello cabarettistico di Guido Catalano, che non accettando di essere uno dei tanti poeti sfigati che non bucavano le attenzioni dei tre, quattro editor di poesia di case editrici di rango che portano alla gloria di libro una decina di autori l’anno ha scelto con grande autoironia, coraggio, di sputtanarsi in decine e decine di reading in club prima torinesi, infine recentemente italiani; Catalano è così arrivato a essere un autore Rizzoli perché il poeta che sa scrivere poesia in questo caso ha deciso di prendersi in giro, e di prendere in giro i sentimenti che prova e proviamo, facendo ridere chi lo ascolta, togliendolo da quel triste imbarazzo che solitamente si trova davanti il poeta, che si sente imbarazzato e triste d’essere un poeta invenduto, e non un romanziere che fa girare un po’ l’economia editoriale. E Catalano ha venduto i suoi libri.
Il secondo approccio, che dirò “greco”, “tragico”, di alto tenore teatrale e spesso civile, è quello di Mariangela Gualtieri, che è autrice Einaudi e che nei giorni del lockdown è stata l’unica a parlare per tutti la nostra angoscia nella pandemia, il nostro attonito mutismo; di Nove marzo duemilaventi doppiozero.com ha prodotto un podcast memorabile, che ora testimonia questa capacità “alta” di una poetessa viva, tra di noi, di parlare per noi.
Sono certo che in altri Paesi e in altre lingue esistano molte esperienze importanti di “poesia performata”, ma devo alle traduzioni fenomenali di Riccardo Duranti per e/o la scoperta di quella che ritengo una delle grandi poetesse contemporanee, l’inglese Kate Tempest (1985), ora in coerenza LGBTQIA autoribattezzatasi Kae Tempest.
Prima poetessa in un inglese scritto stupendo, poi performer che declina in spoken words rappate i suoi testi, poi rapper con una band che vende al botteghino in concerto, Tempest lo scorso 9 luglio 2021 in Ca’ Giustinian ha ricevuto dalla Biennale Teatro di Venezia il Leone d’Argento assegnato da Stefano Ricci e Gianni Forte, con questa loro motivazione: «Per l’audacia luminosa nel posizionare deflagranti inneschi riflessivi e per voler ancora sperimentare in un genere definito di nicchia, come la poesia, mescolando l’aulico con il basso, la rabbia con la dolcezza degli affetti – tra versi e rime taglienti di shakespeariana memoria e dal forte contenuto sociale, miti classici e ibridazioni hip hop – arrivando a parlare col cuore a un pubblico sempre più vasto, entrandoti fin dentro le ossa, costringendoti a specchiarti nella tua dolorosa intimità». Il giorno dopo è salita sul palco del Teatro Goldoni per “suonare” il suo reading The Book of Traps and Lessons.
Avevo già segnalato qui il fenomeno-Tempest nel 2018, in un ragionamento sulla poesia (e sulla cattiva poesia) che viaggiava sui media pop. In questi giorni di giusto riconoscimento internazionale il suo editore italiano ha pubblicato un’altra sua raccolta, Running Upon the Wires (2018), ovvero Un arpeggio sulle corde.
Questa volta Tempest non volteggia come un angelo della disperazione sulle strade negli appartamenti di una Londra di single disperati o di coppie sbiadite e fiacche come in una tela di Edward Hopper, ma si esplicita come Saffo contemporanea, rovesciando nell’indice il suo amore erotico e drammatico per una lei che parte dalla Fine, attraverso il Mezzo, concludendo con l’Inizio; se ogni storia d’amore comincia dall’euforia e finisce in vineria, qui si fa che partire da lei che svanisce, che richiama giorni e settimane dopo, “amichevole”, straziando chi l’ama ancora, cercando di ammansire la pugnalata egotista dell’abbandono e si finisce con le farfalle nella pancia e la gioia del fare l’amore ore e ore, e l’incanto delle convivenze dove ogni dettaglio (come lei impugna la tazza del caffè, come lei si muove tra le stanze…) è un incanto. Così Tempest ci fa capire, con turbolenta empatia, che l’amore finisce sempre iniziando, e che è sempre la più bella illusione, e che dovremo viverla ancora e ancora, senza cauterizzarci nella singletudine:
Quante cose in una giornata
e ognuna è
preludio, brano, bis
Vittoriosa sull’ultima
e vittima della
prossima
Quante cose rimangono da fare
ma quando chiudo
la giornata con te
è la cosa più vicina
al riposo
che mi sia mai capitata
Questo verbo, «to rest» è il “restare” eterno dell’amore, è lo “stare” accanto a un corpo, è la pace più profonda che abbiamo mai provato dalla nascita. Come non ricercarla ogni volta?
Il 4 agosto Tempest al grande teatro è arrivata, ha debuttato a Londra, al National Theatre, con Paradise, il suo adattamento del Filottete di Sofocle; a Laura Zangarini sulla “lettura” del “Corriere della Sera” del 13 giugno 2021 ha detto: «Filottete è una tragedia che tocca la coscienza di ognuno. L'esclusione del malato e la sua irrimediabile solitudine, il conflitto tra presunti interessi superiori e la pietà, lo scandalo assurdo della sofferenza, l'enigma della condizione umana. Conosco molto bene la sofferenza di Filottete, perché è anche la mia. Nel testo originale è chiaro che la vittima, chi soffre, chi è ferito prova rabbia. Filottete è intossicato. Il suo essere selvaggio suscita compassione; nella mia pièce è in contrasto con il Coro, donne che hanno dovuto guarire da ferite peggiori di quelle del nobile eroe: sono delle sopravvissute, delle guaritrici. Sono nella vita, non contro la vita. Tutta l'opera riguarda proprio l'essere soprattutto sopravvissuti rispetto all'essere vittime di qualcosa. E questo risuona molto attuale per me».
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