Dall’altra parte. Il diario berlinese di Max Frisch
Per lunghi anni un grande mistero ha avvolto il Berliner Journal che Max Frisch ha scritto tra il 1973 e il 1980 a Berlino, e che, per volontà dell’autore, è restato nascosto per il ventennio successivo alla sua morte.
Quando, nel 2011 (Frisch è morto, poco prima di compiere ottanta anni, il 4 aprile 1991), si è arrivati alla scadenza dei venti anni prescritti, una scena molto solenne deve essersi svolta, sotto la postuma regia dell’autore, nei segretissimi caveau di una banca zurighese. Nell’aprile del 2011, infatti, gli amministratori dell’archivio che gestisce il lascito di Max Frisch, il Max Frisch Archiv, guidati dal loro presidente, hanno finalmente aperto la cassetta di sicurezza in cui giacevano i cinque quaderni del diario, pronti per essere dati alle stampe, come preannunciato da Frisch stesso in varie lettere e dichiarazioni. Di fatto nessuno fino a quel momento aveva mai saputo che cosa quei quaderni contenessero, se si fa eccezione per i primi due, di cui il solo Uwe Johnson, a cui era stata affidata una copia depositata poi da un notaio, aveva potuto prendere visione, dopo sua espressa richiesta e ‘sotto giuramento’ – questo invece richiesto da Frisch – di non rivelarne ‘a nessuno’ il contenuto (così si legge nel carteggio fra i due scrittori, pubblicato in questi giorni in italiano a cura di Mattia Mantovani per le edizioni Armando Dadò [Una difficile amicizia]).
Max Frisch
Come ci si potrà immaginare tutta questa segretezza in un autore che, con le parole di Friedrich Dürrenmatt, ha fatto di se stesso il ‘caso da risolvere’ nei suoi testi, ha scatenato a più riprese la curiosità dei critici e dei lettori di Frisch, ancora molto numerosi almeno nei paesi di lingua germanica. E questo soprattutto in due occasioni: nel 2009, quando è uscito, praticamente a sorpresa, un altro diario, risalente al 1982, intitolato Entwürfe zu einem dritten Tagebuch (pubblicato in italiano nel 2011 da Casagrande con il titolo Frammenti di un terzo diario, nella traduzione di Martino Patti); e poi nel 2012, in occasione della grande mostra itinerante per il centenario della nascita di Frisch, curata da Annemarie Hürlimann. Nelle teche della mostra si potevano leggere ‘in prima mondiale’ alcuni passi del diario segreto di cui la direzione scientifica dell’archivio, già pochi mesi dopo l’apertura dei sigilli, aveva paventato la eventuale assoluta non pubblicabilità.
Preceduto da questa serie di colpi di scena, il diario berlinese è poi finalmente uscito nel 2014, ridotto a una scelta di testi tratti dai primi due quaderni, con il titolo Aus dem Berliner Journal (Dal diario berlinese). L’attesa era grande, e non solo in ragione della storia misteriosa del lascito testamentario, ma anche perché il Journal colma un vuoto cronologico tra i il famoso diario del 1972 (Tagebuch 1966-1971, uscito in Italia nel 1974 da Feltrinelli, con il titolo Diario della coscienza nella traduzione di Bruna Bianchi) e quello postumo, il ‘diario ritrovato’ del 1982.
Inoltre va tenuto conto del fatto che per Frisch il diario non è un genere occasionale o marginale, bensì il centro creativo e programmatico della propria opera, da leggere non tanto come fluire cronologicamente ordinato di annotazioni, ma in quanto ‘ipertesto’: un contenitore di materiale composito, in cui l’eterogeneità e la frammentarietà sono innalzati a principio costitutivo e costruttivo, perché schizzi e i frammenti, è detto già nel diario del 46-49 sono ‘rovine per il futuro’ (Tagebuch 1946-1949, uscito nel 1950 e pubblicato in Italia da Feltrinelli nel 1962 con il tiolo Diario di antepace nella traduzione Angelica Comello e Eugenio Bernardi). Per questo i diari di Frisch non sono mai una scrittura privata, bensì un’officina aperta al pubblico, in cui chi scrive sperimenta, riflette, immagina, appunta e progetta anche per le opere successive. Ragion per cui anche questo berlinese è ‘giornale’ più nel senso di registro o almanacco che di ‘journal intime’. Non a caso, infine, in un autore che ha concepito il proprio autobiografismo come continuo sconfinamento tra realtà e finzione, il diario diventa il luogo privilegiato della scrittura, tanto da proiettare la sua struttura anche sulle opere narrative che da Stiller (1954) a Montauk (1975) passando per Il mio nome sia Gantenbein (1964), possono definirsi romanzi o racconti-diario, con un io più o meno mascherato nella finzione narrativa.
In ogni caso il Journal, dopo questa lunga attesa, non ha deluso i suoi lettori, se non per alcune questioni di cura: è parso infatti discutibile l’intervento censorio sui primi due quaderni, gli unici pubblicati, e solo parzialmente accettabile la scelta di non rendere accessibili neanche agli studiosi gli ultimi tre, incentrati sulla fine del matrimonio con Marianne Oellers. Così il testo uscito per l’editore Suhrkamp e curato da Thomas Strässle, si presenta come una successione cronologica di annotazioni con alcuni forti salti temporali e senza un’indicazione veramente precisa dei criteri di cura, a eccezione di un generico principio di correttezza editoriale a tutela delle persone nominate nei quaderni. Resta così aperta la questione di alcune mancanze, prima fra tutte l’assenza di un qualsiasi commento sulla tragica morte di Ingeborg Bachmann nell’ottobre del 1973. Comunque, il Berliner Journal, pur nella sua incompletezza, è un testo di grande intensità e tenuta stilistica, testimonianza di una forte crisi personale e professionale attraversata da Frisch in quel periodo, e, allo stesso tempo, documento d’eccezione del clima culturale nelle due Berlino degli anni Settanta.
Frisch, in generale abbastanza nomade forse anche a causa della sua insofferenza verso la Svizzera, sembra trasferirsi a Berlino soprattutto in ragione dell’acquisto di una casa a Friedenau, il quartiere di Berlino Ovest dove abitano Uwe Johnson e Günter Grass, due scrittori con cui ha stretto un’amicizia che si consoliderà proprio attraverso il rapporto di vicinato. Per lui la città ha in ogni caso una “patina”, è detto nel Journal, non tanto “storica” quanto “privata”: Frisch vi era stato la prima volta nell’immediato Dopoguerra durante un viaggio attraverso la Germania, descritto nel Diario del ‘46-‘49, e vi era ritornato a più riprese. Fin da allora Berlino, che pure nel ‘47 era ancora in gran parte in macerie, è descritta come una città vitale, aperta, ricca di possibilità. E, come nel primo diario, anche in quello di circa trent’anni dopo Frisch sente che la città, la sua aria, la famosa Berliner Luft, gli potrebbero fare bene, aiutandolo a superare la crisi. Il diario si rivela in effetti fin dalle prime annotazioni lo specchio di un profondo e diffuso malessere che rende impossibile quasi ogni forma di godimento: la notorietà («do sempre il mio nome al contrario: Frisch Max» – ma l’espediente non pare avere molto successo), il ruolo orami acquisito di ‘scrittore nazionale’ e persino l’agiatezza economica (la vergogna di possedere una jaguar), sono causa di insofferenza. A cui si aggiungono l’insoddisfazione per il proprio lavoro, la lotta contro l’alcol, la paura di invecchiare (ha 62 anni), un generale astio verso se stesso. Eppure non è Berlino Ovest, o almeno non solo Berlino Ovest, la città in cui Frisch trova stimoli positivi per il suo lavoro e le sue riflessioni: di questa parte della città Frisch pare quasi abitare solo il suo appartamento, isola nell’isola, a cui regolarmente approdano gli amici in visita, e nel quale si sente «il guardiano di un faro che non è più in funzione: prende nota delle navi che passano, perché non sa che cos’altro potrebbe fare».
Max Fischer e Günter Grass
Infatti, pure se segnato dalla sofferenza, il diario berlinese è anche la cronaca di incontri e rapporti umani salvifici: l’amicizia con Uwe Johnson, e poi, sempre più importante, il confronto e scambio con gli scrittori che vivono oltre il muro, a Berlino Est. Ed è Berlino Est la vera sorpresa del Journal, di cui è l’indiscussa protagonista. La metà occidentale della città rimane per lo più in ombra e, nei pochi passaggi che le sono dedicati, risulta vuota, indefinita, opaca: «Berlino: sensazione di vuoto (…) ovunque l’impressione che Berlino non si trovi qui. Le strade, per quanto larghe, sono tutte secondarie e non portano a un centro». Sia gli edifici che rappresentano la potenza economica del capitalismo occidentale che quelli che potrebbero testimoniare la rinascita culturale della città appaiono tentativi di arginarne «la sparizione dalla storia». Tanto che a Berlino Ovest Frisch si muove «senza neanche un pensiero, (…) una sensazione, o l’eco di qualcosa».
L’esperienza fondamentale del diario è dunque quella della città oltre il muro: dove non si tratta di sentirsi a casa: anzi, subito c’è, all’Est, l’impressione di essere in un luogo “estraneo”. Tuttavia proprio in questa altra Berlino c’è la possibilità di acquisire, attraverso la frequentazione degli scrittori e degli intellettuali della DDR, uno sguardo nuovo sulle cose, attraverso il quale ritrovare la vitalità, la curiosità, la creatività perdute: nelle discussioni con Christa Wolf, Ulrich Plenzdorf, Günter Kunert, Jurek Becker, Wolf Biermann e altri vengono poste questioni fondamentali, sul ruolo degli intellettuali, sulla scrittura, sulla società, in conversazioni in cui nulla è mai dato per scontato: «la letteratura come finestra. In ogni discussione qui si sente che ha una funzione …non chiacchiere». Grazie a questo sguardo ‘dall’altra parte’, Berlino nel suo insieme – unica e divisa, vecchia capitale ma anche comunità di nuova fondazione, città chiusa e contemporaneamente ‘aperta’ al di là della cortina di ferro – diventa il luogo dove forse per lo scrittore, arrivato “senza progetti” e “senza propositi”, fare qualcosa è ancora possibile. Forse persino «diventare di nuovo giovani. Un poco più giovani»: disarmante desiderio in cui però si rispecchia uno dei moventi della scrittura di Frisch: la libertà di sovvertire l’ordine della biografia, di straniarla e reinventarla guardandola appunto attraverso la lente della letteratura.
D’altra parte Frisch non è un ingenuo cantore del socialismo reale: riconosce e indica precisamente non soltanto le difficoltà e i problemi concreti della DDR, ma anche le contraddizioni in cui i suoi stessi interlocutori, per lo più dissidenti ‘dall’interno’, sono invischiati, e, in generale, la paradossalità di un sistema che definisce «burocratismo con fraseologia socialista». Eppure invidia fino alla fine agli amici dell’Est la possibilità di guardare alla realtà dell’“Occidente” da un altro punto di vista – non tanto per il contenuto delle loro critiche, ma per la possibilità in sé e per sé di dirigere uno sguardo diverso sulla società in cui è diventato difficile, per lui, trovare una collocazione e una funzione: e in generale riconoscersi.
Questa tensione verso uno sguardo ‘rivoluzionario’, che poi è fondamentalmente poetico, produce nel Journal un’inaspettata visione: quella di Zurigo, città natale di Max Frisch e suo principale luogo di residenza, divisa da un muro. Con la precisione di un urbanista (non bisogna dimenticare che era anche architetto) Max Frisch organizza sulle pagine del diario berlinese la distribuzione fra Zurigo Est e Zurigo Ovest di quartieri (a Est vanno a finire tutti quelli borghesi eleganti), ponti, edifici pubblici, strade e persino tombe e case di personaggi illustri. Non è solo un sarcastico esercizio fantapolitico, ma anche lo scenario reinventato della propria vita: «Io sono nato e ho fatto le scuole a Hottingen, ovviamente mi ricordo di questo quartiere in cui, presumibilmente fino alla fine dei miei giorni, non potrò rimettere piede», «(…) mostro da lontano gli edifici delle due università che ho frequentato». E anche qui rinnova l’invito, rivolto al visitatore che guida in questa città surreale, a guardare il muro ‘dall’altra parte’.
L’esperimento berlinese si conclude, nella parte di diario a nostra disposizione, con la partenza di Frisch per New York nella primavera del ‘74, esperienza da cui nascerà il testo radicale di Montauk: il primo libro in cui racconto biografico e racconto diaristico coincideranno, perché, come dice un’annotazione del diario stesso, la perdita della creatività, della capacità di inventare, ha comportato la genesi di un interesse “storico” verso la biografia: «interesse per l’oggettività dei fatti, abusati finora come materiale», e quindi di nuova visione di essi, fin a quel punto «visti in modo arbitrario o non visti.»
Proprio in Montauk Frisch ci svela i motivi del “tentativo” berlinese: la presenza degli “amici dall’altra parte” e, soprattutto: “poter vivere con il muro”. E quindi , potremmo aggiungere parafrasando il titolo di una sua opera teatrale del 1968, poter riaprire ‘il gioco con la biografia’: con quella ‘drammaturgia della permutazione’ che gli permetterà di nuovo, come aveva detto in Gantenbein, di “inventare una storia e pensarla come la propria vita”.
In attesa della traduzione in italiano, qui si possono ascoltare alcuni brani del diario presentati da Mattia Mantovani sul secondo programma della radiotelevisione svizzera.