Raccolta di Saggi / Don DeLillo. Nelle rovine del futuro
Marotta & Cafiero, "una casa editrice terrona made in Scampia" (come si autodefinisce) pubblica una raccolta di saggi di Don DeLillo: con un linguaggio immaginifico mutuato dal retroterra di quel quartiere violento e violentato di Napoli, i giovani editori "hanno eruttato, all'ombra del Vesuvio" libri di Daniel Pennac, di Stephen King, di Osvaldo Soriano, di Raffaele La Capria, di Gunter Grass e di altre celebri firme del panorama letterario mondiale, "spacciando narrativa stupefacente, civile, storie dei Sud del mondo". Le bozze che ci hanno cortesemente inviato di Nelle rovine del futuro sono arricchite da un extratesto meticoloso: ci danno informazioni su chi ha tradotto (Ercole Leo, 21 anni), sul Typedesigner (Joshua Darden, 43), sui crediti fotografici (il libro contiene immagini), su chi ha curato l'editing (Maurizio Vicedomini), su chi ha stampato e su quale tipo di carta (Legatoria Salvatore Tonti), perfino sul tempo di lettura per ognuno dei quattro saggi pubblicati. Ci si sarebbe aspettati una data tra parentesi e sarebbe stato utile (ma non indispensabile) sapere su quali testate quelle riflessioni di Don DeLillo erano uscite, per avere una completezza dei segnali accessori che stabiliscono il primo patto di incontro tra scrittore e lettore, soprattutto trattandosi di Don DeLillo, uno che ha sempre trafficato con la comunicazione, interessato più di altri autori a una strategia di dialogo col pubblico.
È sempre interessante leggere un autore del suo calibro, al di fuori delle opere di narrativa vere e proprie perché si ritrovano, enunciati nell'intento di farsi capire, concetti che nei romanzi il lettore era chiamato a ordinare e mettere insieme per dare loro unità e significato. Bene hanno fatto Marotta & Cafiero a proporci di rileggere questi brevi scritti. Il primo, In the Ruins of the Future (pubblicato su Harper's Magazine nel dicembre 2001), elenca in otto sezioni numerate (che in questa edizione vengono accorpate) alcune intuizioni che l'autore ha avuto dopo l'attacco alle Twin Towers dell'11 settembre 2001 (il sottotitolo del pezzo su Harper's dice "Reflections on terror and loss in the shadows of September"). Il malessere della civiltà, il fallimento dei miti e del famoso sogno che l'America si ostina a propagandare, emergono nelle parole di DeLillo: "Era l'America a fomentare la rabbia dei terroristi (...) era la lucentezza della nostra modernità. Lo slancio della nostra tecnologia. La nostra apparente empietà (...) Era il potere della cultura americana di penetrare qualsiasi muro, casa, vita, mente". L'11 settembre come "frontiera" varcata tra "l'immaginabile e l'inimmaginabile" secondo Salman Rushdie, o evento che “ha segnato l'apoteosi postmoderna dell'era delle immagini e della percezione” secondo Martin Amis, diventa per Don DeLillo qualcosa di intrinsecamente distruttivo, insito nella natura della tecnologia.
Una tecnologia – quella dei terroristi – a uno stadio embrionale, con i piccoli dispositivi letali, i detonatori telecomandati che manovravano con le radio, i jet passeggeri trasformati in missili. Il cupo sottotesto di quell'impresa artigianale e catastrofica, dice DeLillo, sta nel fatto che il nostro mondo si è dissolto nel loro, "e questo significa che conviviamo con il pericolo e la rabbia", come se i terroristi dell'11 settembre avessero voluto rispedirci nel passato. La nostra ricchezza e il nostro privilegio non valgono niente agli occhi di chi è disposto a immolarsi con metodi arcaici per una causa ritenuta giusta. L'uomo che cade (parafrasando Falling Man, romanzo di DeLillo del 2007, (trad. it. L’uomo che cade, Einaudi, 2008) è la metafora, resa dal performer che si lancia a testa in giù da vari punti in alto di New York, assumendo la posizione di quelli che si erano buttati dalle torri per sfuggire al fuoco, di un'America tardo capitalistica, abbattuta nei suoi due simboli da un attacco che arrivava da un'altra realtà, esterna ed esotica: con la morte ineluttabile, sia che l'uomo scegliesse di schiantarsi al suolo, sia che optasse per morire bruciato. In questo destino senza scampo l'America è stata messa di fronte a una realtà di incertezza e di paura che prima del crollo del WTC non veniva percepita.
Roland Barthes avrebbe detto che l'azione del commando terroristico sarebbe stata un'introduzione "allo scandalo dell'orrore, più che all'orrore in sé". Anche per via dei suoi trascorsi di copywriter pubblicitario, Don DeLillo è stato spesso considerato l'interprete per eccellenza della società dello spettacolo, il maestro del simulacro, dell'immagine senza profondità che fluttua sopra il vuoto sociale. Ma un conto sono le opere di finzione, un conto è la saggistica, con la quale DeLillo si confronta nell'incertezza di non riuscire a rappresentare la realtà, nella perdita di fiducia di saper restituire il significato di quello che la realtà ha prodotto. A un certo punto dice: "La tecnologia è il nostro destino, la nostra verità. È questo che intendiamo quando ci definiamo la sola superpotenza del pianeta". E aggiunge che non dobbiamo nemmeno più dipendere da Dio, perché "noi siamo il miracolo. Il miracolo è quello che noi stessi produciamo, i sistemi e le reti che cambiano il nostro modo di vivere e di pensare". Questo non toglie che con gli attentati dell'11 settembre il futuro si sia arreso "a un mondo medievale, alle antiche, lente collere di una religione di tagliagole".
Nel secondo saggio The Power of the History (uscito sul numero del 7 settembre 1997 del magazine del New York Times) DeLillo discute di come usa i fatti realmente accaduti nella sua narrativa. Ed è giusto che, nell'edizione di Marotta & Cafiero, queste considerazioni vengano posizionate dopo il pezzo sul WTC, nonostante siano antecedenti, perché chiariscono il modo dello scrittore di percepire il fascino dei grandi eventi e del suo desiderio "di immergersi nella storia".
Qui DeLillo parte dalla descrizione di una polemica su una celebre partita di baseball che si svolse a New York nel 1951 per portarci nell'"americanità", nel sentimento di un artista di quel grande paese, che dovrebbe sentirsi come un giocatore di baseball, "il membro di una squadra che scrive la storia americana". Il fatto è che gli scrittori americani non si sentono per niente membri di una squadra e questo non aiuta lo spettacolo evanescente della vita contemporanea "dove tutto lampeggia per un istante e poi muore", nel più grande ed effimero spettacolo del consumo che sia dato vedere. Si capisce che DeLillo abbia voluto vendicarsi, nel 2020, con il romanzo breve Il silenzio (Einaudi, 2021), dove un blackout interrompe il flusso della vita dominata dalla tecnologia, oltre a oscurare gli schermi della tv proprio mentre si svolgeva il Super Bowl.
"Il microonde, il telecomando, il tasto di richiamata e altri dispositivi che fanno collassare il tempo, ci fanno avvertire come la tecnologia che regola la nostra vita quotidiana rifletta l'immagine di un flusso che scorre in profondità nella nostra cultura, un appetito impaziente per il tempo affinché corra più in fretta", scriveva nel 1997, quando Internet era agli albori. Un curioso sentore di archeologia pervade anche la tecnologia più all'avanguardia di oggi, tale è la velocità con la quale le nuove invenzioni rendono obsoleto qualunque strumento, per nutrire l'appetito impaziente di cui parlava DeLillo. La narrativa è fatta di convenzioni che ci consentono di ritenere realistiche opere fortemente stilizzate, perché è veritiera per mille cose "ma raramente per l'esperienza vissuta". Le distanze tra verità e finzione diventano conflittuali in un romanzo, ricomposte nel vortice paranoico che rimpiazza la storia a forza di frammenti. In L’uomo che cade questa doppia tendenza alla crisi della rappresentazione risulta legata alla natura perturbante dell'attacco dell'11 settembre e della guerra in Iraq: il racconto è concentrato sui giorni "dopo" l'attentato e diventa perciò importante la riflessione In the Ruins of the Future che DeLillo consegnò a caldo a Harper's Magazine, appena due mesi dopo il crollo delle Twin Towers.
Con quel crollo, le deviazioni dal tempo, dallo spazio e dal destino dell'America divennero materia di racconto per molti romanzieri statunitensi, tra cui John Updike (The Terrorist, 2007; trad. it Terrorista, T.E.A, 2011)) e Paul Auster (Man in the Dark, 2008; trad. it. Uomo bel buio, Einaudi, 2009)). In quasi tutti si avverte come una crisi di aderenza alla vita vera, una profonda perdita di fiducia nella capacità di rappresentare il reale. In un libro recente, Fuga dalla rete – Letteratura americana e tecnodipendenza di Luca Pantarotto (Milieu, 2021) l'autore censisce gli scrittori americani nei loro rapporti con la realtà, rappresentata dal grande cambiamento digitale in atto, e rileva anche negli autori presi in considerazione questa difficoltà: la realtà della Rete sembra deludere i più giovani perché la vedono come un sistema di prevaricazione e di controllo e i più vecchi che si rifugiano in una sorta di narrativa del rifiuto (Franzen, lo stesso DeLillo in modo però più sfumato), quella più interessata a scrivere bei romanzi che a capire il proprio tempo.
C'è qualcosa che unisce il libro e il sé. A uno scrittore molti chiedono perché scrive, lui chiede loro perché leggono. Il lettore e lo scrittore collaborano silenziosamente, creando personaggi che aleggiano in uno spazio che condividono: Don DeLillo chiarisce in A History of the Writer Alone in a Room, il discorso che pronunciò quando ricevette il "Jerusalem Award" nel 1999 (poi ripubblicato da Die Zeit nel 2001) la sua poetica: "il libro sta in una mano. E sta in un individuo", è un prodigio di duttilità fisica e spirituale, ecco l'unica evoluzione che nessuna tecnologia potrà uguagliare.
Il libro edito da Marotta & Cafiero si chiude con The artist Naked in a Cage (pubblicato nel 1997 su The New Yorker). DeLillo scrive che nel racconto di Kafka Il digiunatore, un uomo trascorre quaranta giorni e quaranta notti senza cibo in una piccola gabbia, esposto agli sguardi della gente che paga il biglietto per vederlo morire di fame. L'uomo ha un agente, che ha messo il limite di quaranta giorni alla performance del digiunatore, non perché preoccupato che possa davvero morire ma perché, secondo i suoi calcoli, questo limite rappresenta la soglia estrema dell'attenzione da parte del pubblico. La stessa cosa accade a uno scrittore cinese, carponi in un recinto con un collare da cani. La tipica condizione dello scrittore – stare chiuso da solo in un posto, avere una stanza tutta per sé, direbbe Virginia Woolf – è crudelmente estremizzata, nota DeLillo, che chiude questo apologo morale con questa frase: "Più in basso lo sotterrano, più remota e più piccola è la cella, più sono gelide e dure le pareti, più ardente e vivo è lo scrittore".