Un gioco e un rito, dell’inizio e della fine

5 Settembre 2014

Scegliere i libri necessari, necessari come portarsi l’anima nel bagaglio, necessari come l’unica “cosa” veramente mia, necessari come la scelta dell’essenziale quando il tempo è limitato e lo spazio sarà altro, lontano dal campo base. Dimenticarsi un libro che avrei voluto leggere, questa è una vera ansia, l’unica paragonabile alla dimenticanza delle scarpe giuste per camminare. Il resto si può sempre recuperare, ricomprare, farne a meno.

 

L’adrenalina dell’ultimo giorno prima della partenza è quasi tutta scatenata dalla scelta dei libri. Quest’anno però ne è arrivata di meno. Forse perché, dopo anni di digiuno telematico, nel minuscolo paesucolo istriano dove passiamo gran parte delle vacanze, abbiamo la rete. E con la rete anche di molti libri si può – nello sciagurato caso d’averlo lasciato nella scaffalatura sbagliata, mentre se ne stava sfogliando un altro – trovare un e-book sostitutivo. Ma tra i milioni di e-book può dannatamente mancare il tuo, quello che si rivela decisivo mentre stai scrivendo e proprio lui riappare come un fantasma persecutorio alla memoria.

 

Come sempre è la recinzione del tempo e del luogo che produce il rito: non avendo quasi più riti coinvolgenti, almeno mi rimane il gioco. E questo per me, di nuovo, insieme agli alberi, gli animali e le acque di cui cantava Harry Belafonte nel mio inno-preghiera privato, Island in the Sun, è il gioco preferito. Diceva un detto ebraico: “la vita è seria ma l’arte è un gioco”, a me pare però che l’arte, insieme alla religione e alla filosofia – la vecchia trimurti hegeliana dello Spirito Assoluto, con l’aggiunta del lavoro, madre e padre della tecnica e della scienza – sia l’unico gioco che parla sul serio della vita.

 

E la scelta dei libri sembra parlare dell’inizio: la costruzione di un mondo, provvisorio fin che si vuole, ma sarà il mondo da abitare e che mi abiterà nel perimetro temporale dell’ozio antico, della libertà dal neg-ozio – sostituiti oggi dalla “vacanza”, parola che ha forse il suo bello in quell’accenno al vuoto. Qualcosa però, quando si rifanno le valigie e si riempiono le scatole dei libri per la maggior parte non-letti, ci parla della fine. La metafora dell’intera vita ti sta lì davanti agli occhi, irrefutabile. È il simbolo di tutti i desideri inesauditi, del tremendo rapporto tra il tempo di vita e l’immenso delle vite non vissute: esattamente quanto i libri ci permettono di assaporare, il non vissuto o il non pensato, ci si rivolta contro, nello sconforto di quelle pile intonse eppure, solo un mese fa, annuncio di futuri, favolosi piaceri.

 

I libri d’inizio estate finirebbero per trasformare la pagina in un elenco, così ne scelgo quattro più uno. I libri della fine, i veramente letti. Dell’uno dirò solo che troneggia sulla scrivania, anche perché troppo ingombrante, secondo ogni senso possibile della parola, e da quando è uscito in inglese, nel 2009, è rimasto ospite fisso di ogni estate: è Il Libro Rosso di Jung. Il secondo è Il lamento dei morti. La psicologia dopo il Libro Rosso di Jung di James Hillman e Sonu Shamdasani.

 

Sono quindici conversazioni, pubbliche e private, tra Los Angeles, New York e il Connecticut, dal 2009 al 2011, poco prima che Hillman morisse. Della fine imminente di Hillman non c’è quasi traccia, solo qualche cenno nascosto. I morti non sono solo quelli dei Septem Sermones ad Mortuos, celebre testo paragnostico di Jung contenuto nel Libro Rosso, che lui stesso disse essere una sorta di premessa a quanto seguì poi nelle sue opere. Jung parla ai morti che non hanno trovato risposte a Gerusalemme, a ciò che è rimasto irrisolto e irredento.

 

Per Hillman e Shamdasani i morti sono il peso della storia. Mentre la cultura fugge verso il futuro, per Hillman la morte è un modo per mettersi in contatto con un passato che rimane altrimenti solo pressione confusa. La morte come “cura rivoluzionaria”: intende, e lo dice chiaro, che la cura deve essere cura delle idee, lasciando la psicoterapia, basata sul romanzo psicoanalitico di mamma, papà e amori, a una fase soltanto preparatoria. Cita Auden: “siamo tenuti in vita da poteri che fingiamo di capire”, perché tutto è già nell’immaginazione e si tratta di ascoltarne le influenze che attraversano la nostra vita personale.

 

Una rilettura che fa contrappunto al Lamento dei morti, mi viene da La terra desolata di T. S. Eliot. Bastano titolo e primo verso per capire perché: “Aprile è il mese più crudele”, l’inversione è totale, la diagnosi del nostro mondo impietosa. Aprile, il mese della rinascita e della resurrezione, è diventato il più crudele dei mesi, i morti sono “uomini vuoti” che non vogliono risvegliarsi alla incessante trasmutazione della vita, mentre la sepoltura dell’immagine del dio era simbolo di rinascita nei riti degli dei della vegetazione.

 

Ne parlava la fonte prima del poema, From Ritual to Romance della Weston. Aprile è crudele perché mischia “memoria e desiderio, eccitando / spente radici con pioggia di primavera”. Era forse questa anche l’idea di terapia di Jung, il suo corpo a corpo con un mito spento e l’esplodere dell’ immaginazione dal mondo infero. Di qui il motivo ritornante, in lui, di The Grail Legend, la leggenda della ricerca del Graal, scritto da Emma, sua moglie, e completato da Marie-Louise von Franz, la sua allieva più vicina. Forse entrambe avevano capito meglio di altri quale era il mito dei miti di Jung.

 

Gli allievi fedeli sono consolanti, sanno mettere ordine, Hillman invece è l’eretico entusiasmante, e tonificante è la sua freschezza, la malignità polemica contro le meschinerie teoriche di tanta roba psi, a partire da quel mondo junghiano che, trincerato dietro la parola magica della “clinica”, ha scrostato via da Jung tutto il suo zolfo pericoloso. Ma c’è qualcosa nel suo estremismo che mi da allergia. È proprio la sua voluta disattenzione alla dimensione biografica per esaltare quella mitica, che è poi appunto la Grande Memoria dei morti, una volta che la si deletteralizzi. Così è la coniunctio mitobiografica che va perduta, e il bambino si perde insieme all’acqua sporca.

 

Perché qual è la vera novità della psicoanalisi, da Freud a Jung a tutti gli altri, se non il metodo che scava persino nello scarto della biografia insaputa, per disegnarne un accenno più sincero? Dedita esclusivamente alla dimensione simbolica collettiva e alla storia – Hillman sostiene cose meravigliose, intendiamoci, circa l’importanza di un training basato su letteratura, filosofia e arti –, la psicoanalisi rischia così di diventare una costruzione concettuale malferma.

 

Allora, per curarmi l’allergia, mi sono portato L’Architettura dell’umano. Aristotele e l’etica come filosofia prima di Claudia Baracchi. Qui la via rimane in equilibrio, anzi si ridà equilibrio alla lettura di Aristotele: non c’è nessun logicismo da abbattere, lo stesso “principio più certo di tutto”, il principio di non contraddizione, viene ricondotto all’indimostrabilità di un reale che è al di là del discorso della conoscenza dell’essere.

 

Il principio della conoscenza dimostrativa precede ogni dimostrazione e rivela il suo sostrato etico e pratico: “per questi che argomentano contro il principio di non contraddizione, le proposizioni sono vuote – perché le loro proposizioni sono dissociate dalle loro percezioni, esperienze ed azioni”. Si sente qui il peso decisivo del rapporto fra filosofia prima e scelta di vita: “… la scelta che orienta ognuno nei confronti della vita, o, di fatto, nella vita, è precisamente ciò che, a monte di ogni impegno nella ricerca, ha sempre già determinato una postura come filosofica o come sofistica”.

 

Così Claudia Baracchi riecheggia anche Hadot, ma fa un passo decisivo in avanti. Quando si parla della filosofia come modo di vita, che sta alle origini della filosofia greco-romana, l’obiezione più ovvia è che questa interpretazione non valga per Aristotele. Invece qui abbiamo una ricostruzione che non rovescia le parti, dicendo che l’etica deve venire prima della metafisica, ma che la stessa filosofia dei primi principi è in se stessa intessuta di intuizioni e di pratiche che affondano nella partecipazione al cosmo naturale e alla costitutiva dimensione politica dell’agire.

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