Serie TV / Loop. Cronache terrestri
Una piccola cittadina americana circondata da immensi campi dove i personaggi scompaiono e riappaiono, eventi misteriosi che si dipanano tra le maglie dello spazio-tempo, un laboratorio sotterraneo in cui si svolgono esperimenti oltre i limiti della fisica conosciuta.
A parole suona familiare, anche troppo. Potrebbe sembrare il tentativo di Amazon Prime di replicare formule di successo seriale come quelle di Stranger Things o (peggio ancora) Dark, di casa Netflix. Niente di più sbagliato.
Loop (Tales from the Loop), la nuova serie di fantascienza lanciata lo scorso 3 aprile da Prime Video, è stata creata da Nathaniel Halpern a partire dalle illustrazioni dell'artista svedese Simon Stålenhag, che ha raggiunto il successo grazie ai suoi paesaggi dove straordinario e banale, natura e tecnologia, uomini e macchine si incontrano sospesi in un tempo sconfinato e meditabondo.
Nelle tavole di Stålenhag una quieta tranquillità pastorale avvolge misteriosi elementi fantascientifici; due i volumi illustrati che raccolgono questi paesaggi visionari e malinconici: Loop (2017, già segnalato su doppiozero) ed Electric State (2020), editi in Italia da Mondadori. Le visioni di Stålenhag, originali e magnetiche al pari di una vera e propria narrazione, sono state così tradotte sullo schermo in una serie antologica dove i protagonisti si alternano di episodio in episodio.
L'idea di trasformare il mondo illustrato dell’artista svedese in una serie TV è venuta al regista Matt Reeves (Cloverfield, Apes Revolution – Il pianeta delle scimmie), qui in veste di produttore esecutivo, che ha affidato il ruolo di showrunner a Nathaniel Halpern (Legion). Tra i produttori figura anche Mark Romanek (One Hour Photo, Non lasciarmi), che ne ha diretto l'episodio pilota. Nel progetto sono stati poi coinvolti registi di alto profilo: tra gli altri Andrew Stanton (due volte premio Oscar, per Alla ricerca di Nemo e WALL•E), Charlie McDowell (The One I Love), Ti West (La casa del diavolo, The Innkeepers) e Jodie Foster, che si era già cimentata sul piccolo schermo con Black Mirror e Orange is the New Black.
Halpern ha spostato gli scenari dipinti da Stålenhag dalla Svezia rurale alle campagne dell'Ohio, in una cittadina fittizia chiamata Mercer, dove una realtà ucronica prende vita assieme alle vicende dei protagonisti, in un lasso di tempo che – presumibilmente – va dagli anni Sessanta ai primi Duemila. Nel primo episodio, il cinema del paese ha in programmazione Monica e il desiderio di Ingmar Bergman (1953), nel settimo La maschera del demonio di Mario Bava (1960) e nel terzo Missing di Costa-Gavras (1983). Nell’ultimo, una radio suona Can't Get You Out of my Head di Kylie Minogue (2001). Queste citazioni, oltre a darci delle indicazioni sul gusto cinéphile del prodotto, ci forniscono delle coordinate temporali che ci aiutano a orientarci nel mondo del Loop.
Ognuno degli otto episodi della serie è incentrato su un membro di questa piccola comunità dell'Ohio, in cui tutti vivono all'ombra di una struttura sperimentale chiamata “The Loop”: qualcuno vi lavora, qualcun’altro vi si intrufola, un altro ancora vi si imbatte per caso. In questo laboratorio sotterraneo si svolgono degli esperimenti ci cui poco ci viene detto, e in tutto il territorio circostante avvengono fenomeni particolari: i corsi d’acqua diventano improvvisamente solidi, il tempo può mutare senza preavviso, si può viaggiare nel futuro, nel passato o addirittura in realtà parallele.
Nel primo episodio della serie veniamo introdotti in questo mondo misterioso da un narratore d’eccezione, Jonathan Pryce, con una frase che suona emblematica: "Tutti in città sono collegati al Loop, in un modo o nell'altro. Col tempo, ascolterete tutte le loro storie". Protagonista in questo caso è una bambina che, andando alla ricerca della madre, incontrerà la sé stessa del futuro.
Il focus del prodotto però, al contrario dei suoi cugini targati Netflix, è più ampio rispetto a quello di un semplice thriller, che costruisce una storia affastellando paradossi, enigmi e misteri da risolvere, dove per tirare avanti sono necessari, di volta in volta, plot twist ben al di là del proverbiale “salto dello squalo”. Qui ogni singola storia – collegata in maniera più o meno stringente rispetto a quelle degli altri personaggi – va a indagare come la presenza del Loop (e dei fenomeni fantascientifici che ne derivano) investa l’umanità delle persone.
Il sesto episodio, per esempio, ci porta nella vita di una guardia di sicurezza, Gaddis (Ato Essandoh), la cui vita trascorre placida nella guardiola d’ingresso del Loop. Su un trattore dall’aspetto retro-futuristico abbandonato nei campi trova la foto di un uomo che suona il pianoforte (Jon Kortajarena). Non ha idea di chi sia, ma la sua ossessione amorosa lo trascina in una situazione surreale, tra romanticismo e infedeltà, all’interno di un universo parallelo, in diretto conflitto con il suo doppio. L’impianto fantascientifico viene utilizzato per raccontare un dramma sul desiderio, sul senso di solitudine e di inadeguatezza, alla ricerca di un ideale romantico impossibile. Un meccanismo, questo, non dissimile da quello che Charlie McDowell, il regista dell’episodio, ha utilizzato nel suo debutto sul grande schermo, The One I Love (2014).
Loop non è una serie pensata per il binge watching. È un piatto che chiede di essere assaporato con calma e non ha timore di lasciare domande aperte, ma non per questo rimane incompiuto. Non ci sono risoluzioni forzate come non ci sono vuoti che chiedono di essere riempiti. Invece di rincorrere intrighi e cliffhanger, la serie usa la sua narrazione – musicale e visiva – per costruire una delicata meditazione sulla vita (quindi, ovviamente, sulla morte e sul distacco). Le singole storie, indagando il nostro rapporto con il tempo, riescono a stimolare un senso di vertigine e meraviglia attraverso uno spettro di percorsi piuttosto ampio: non a caso il settimo episodio, che fa da preambolo alla chiusura, è una rivisitazione del classicissimo Frankenstein, con tutta la simbologia che ne deriva.
«Uno dei punti di forza del Tarkovskij artista è la quantità di spazio che lascia al dubbio» spiega Geoff Dyer nel suo La Zona (edito da Il Saggiatore). E sono proprio quelli di Tarkovskij – di cui Stålenhag è un grande ammiratore – gli echi più riconoscibili (e immediati) che possiamo cogliere: nelle intenzioni, nella gestione del soprannaturale, nel caratterizzare l’ignoto e nel mettere al centro della poetica il tempo. «La Zona non simboleggia niente – spiegava Tarkovskij a chi chiedeva spiegazioni su Stalker – non più di qualsiasi altra cosa nei miei film: la Zona è la zona, è la vita»: possiamo dire lo stesso del Loop.
In Loop le atmosfere sospese e silenziose del gotico americano e il realismo poetico di Andrew Wyeth incontrano una fantascienza malinconica e di fascino visionario, dando vita a un universo dolente e desolato. Le luci al neon rosse e blu dei bar e dei vicoli che illuminano Stranger Things (ma che arrivano da I ragazzi della 56a strada di Coppola) qui cedono il passo a una palette di toni pastello, dal senape all’azzurro polvere, che restituiscono in maniera incredibilmente efficace la visione di Stålenhag dove gli orizzonti rurali si tingono di soprannaturale.
Loop si configura così come una serie ambiziosa, che lavora per sottrazione e, tenendosi lontana da una prevedibile operazione a cavallo tra feticismo e nostalgia, ci invita a rallentare il nostro sguardo. Come ha spiegato in maniera più che eloquente il direttore della fotografia Jeff Cronenweth: «Soffermarsi fa parte del processo: l'arte richiede impegno da parte di chi la osserva».