Alejandra Pizarnik e il pharmakon del linguaggio
“Le parole / non fanno l’amore / fanno l’assenza”, dipingono il contorno del vuoto, cadendoci dentro con lo stesso suono di una goccia che dal cielo precipita sul fondo di un pozzo. Le parole rimbombano, le parole si parlano, le parole si sgretolano.
Alejandra Pizarnik nasce ad Avellaneda, presso la capitale argentina, nel 1936, da una coppia di emigranti ebrei di origine russa, che intingono, fin da subito, le radici della piccola bicho (“bestiolina”, come soleva affettuosamente chiamarla l’amico Julio Cortázar) in un eterno e irrimediabile altrove. Per esser-ci, per sentirsi esistente hic et nunc, nella sua patria geografica ed esistenziale, Alejandra ha un unico strumento, un pharmakon – medicina e veleno al tempo stesso – che la accompagna ossessivamente per tutta la vita: il linguaggio. Divora compulsivamente i classici della letteratura, si iscrive alla facoltà di Lettere e Filosofia di Buenos Aires, studia pittura con il surrealista Juan Baltle Planas per poi approdare a Parigi, dove traduce autori come Yves Bonnefois e Antonin Artaud – scrivendo, di quest’ultimo, in un diario del 25 dicembre 1959: “Artaud sono io. La sua lotta con il silenzio, con il sentimento d’abisso assoluto, di vuoto, con il suo corpo alienato, come non associarlo alla mia lotta?”.
La sua lotta insegue il movimento del Fort / Da freudiano – il gioco del rocchetto – l’alternarsi di presenza e assenza, di parole e silenzio, attraverso cui Alejandra allontana e avvicina la morte, i fantasmi, le ombre. A questo le serve il linguaggio, il suo con-fondersi con la letteratura: per nascere e morire, costruirsi e sgretolarsi a ogni sputo di sillaba.
Il linguaggio è una medicina, un antidoto al vuoto – “se c’è una ragione per la quale scrivo, è perché qualcuno mi salvi da me stessa”, leggiamo da un’intervista del 1962. Il linguaggio crea, argina, definisce, nomina, dà forma. Un linguaggio per “spiegare con parole di questo mondo / che partì da me una nave portandomi”, unica ancora per non venire risucchiata nel gorgo dell’informe, negli abissi di un’identità ab-negata.
“Scrivere è cercare nel tumulto dei bruciati l’osso del braccio corrispondente all’osso della gamba”. Riassemblare pezzi di cadaveri mai morti, fantasmi di un’infanzia che non smette di ritornare, cocci di specchi che riflettono “questo affondare senza affondarsi”. Scrivere per ricucirsi, a causa di quella “paura di essere due / sulla via dello specchio: / qualcuno che dorme in me / mi mangia e mi beve”. Scrivere per tessere un filo tra la donna che (non) è e la bambina che (non) è stata, tra un presente sfocato e un passato pre-edipico, ancestrale, fetale: “ora / in quest’ora innocente / io e colei che fui ci sediamo / sulla soglia del mio sguardo”.
Versi tanto brevi e scarni quanto immediati, materici, visionari. L’inquietudine di Alejandra rianima gli spiriti dei suoi maestri letterari – in particolare Nerval, Artaud e Blake – alimentando le braci verbali con gli aneliti del proprio annaspare. La sua vita è tutta un tentativo di crearsi un’identità attraverso le parole, di essere sorretta e protetta da un linguaggio che accolga quel malessere senza voce (o con troppe voci) che sgorga informe da tutti i suoi gangli. Un tentativo di “estrarre la pietra della follia. Non la pietra dalla follia”.
Ma se da una parte il linguaggio è una forma di salvezza, dall’altra è l’incarnazione dell’impossibilità di dire (di dirsi). “La parola mi riveste come uno strato di terra”, scrive Alejandra, ben conscia che “la voce va sul foglio e continua, / continua a non parlare di me”. Ecco il rovescio del pharmakon, la cura che diventa veleno, la “salvezza [che] celebra / l’abbondanza del nulla”.
Il linguaggio non salva. Il linguaggio la abbandona alla sua “paura di non saper nominare / ciò che non esiste”. Il linguaggio è una struttura che la ingloba senza darle voce, senza permetterle di espiare i suoi fantasmi.
Naufraga in se stessa, traghettatrice della propria anima come un Caronte che ha smarrito la via, aggrappato con tutte le sue forze a una barca che fa acqua da tutte le parti. “Non ho più trappole di parole”, si dice senza riuscire mai – ecco la condanna del linguaggio – a liberarsi dal dire. Anche l’impossibilità del dire può soltanto essere detta, restando così appesa tra una bocca che si apre e un suono che non esce, appesa a una penna che si arrende a un inevitabile foglio bianco.
Cosa fare, allora, per riuscire a manomettere almeno un poco il sistema linguistico? Per creare uno spazio, un respiro all’interno della gabbia dorata del linguaggio?
“Mi dico i miei silenzi”, risponde Alejandra, “mi silenzio”.
Ecco la sua vera voce: un’ossimorica voce che tace. “Quando alla casa del linguaggio vola via il tetto e le parole non guariscono, io parlo.”
Il sussurro di Alejandra rimbalza tra bocche che si chiudono, riempiendo gli spazi interstiziali dell’anima con il silenzio di un manto di neve che ricopre ogni cosa.
Le poesie di Alejandra Pizarnik – di cui i frammenti qui riportati sono in gran parte tratti dal testo La figlia dell’insonnia (a cura di Claudio Cinti, Crocetti Editore, 2004) – hanno l’incredibile capacità di veicolare il silenzio, di essere silenzio, il più tragico e salvifico silenzio – “tentazione e promessa”. Sono gelida neve sciolta che scorre fino alle più remote profondità dello stomaco, che pietrifica il lettore in un empatico riconoscimento di qualcosa che nemmeno sapeva di provare.
Alejandra muore nella notte tra il 24 e il 25 settembre 1972 per un’overdose di barbiturici, aggiungendo il suo nome al registro delle eroine della letteratura che le parole non hanno saputo salvare: da Sylvia Plath a Marina Cvetaeva, da Anne Sexton ad Antonia Pozzi.
A me piace immaginarle tutte insieme, mentre la forza vitale della loro inquietudine conia un nuovo linguaggio, in cui le parole sono solo orpelli inutili; un linguaggio fatto di sguardi e silenzi, che non riverberano il vuoto ma afferrano e costruiscono il presente. Un linguaggio che permetta a loro – e a tutti noi – di “tornare a essere”, come scrive Alejandra ne La notte, una poesia tratta da Le avventure perdute del 1958:
So poco della notte
ma la notte sembra sapere di me,
e in più, mi cura come se mi amasse,
mi copre la coscienza con le sue stelle.Forse la notte è la vita e il sole la morte.
Forse la notte è niente
e le congetture sopra di lei niente
e gli esseri che la vivono niente.
Forse le parole sono l’unica cosa che esiste
nell’enorme vuoto dei secoli
che ci graffiano l’anima con i loro ricordi.Ma la notte deve conoscere la miseria
che beve dal nostro sangue e dalle nostre idee.
Deve scaraventare odio sui nostri sguardi
sapendoli pieni di interessi, di non incontri.Ma accade che ascolto la notte piangere nelle mie ossa.
La sua lacrima immensa delira
e grida che qualcosa se n’è andato per sempre.Un giorno torneremo a essere.