CUCULA- Refugees Company for Crafts and Design, Berlin
Dal divano di casa a cui Enzo Mari lamenta di essere inchiodato da ormai un paio di anni, le sue invettive e le sue parole caustiche non smettono di risuonare e di ispirare progetti radicali e visionari. Dopo anni di militanza e di critica programmatica verso un mondo del design che – a dispetto delle lotte politiche degli anni ’60 e ‘70 – si è drammaticamente convertito ai diktat di un mercato onnivoro e ha tristemente ridotto la figura del designer da filosofo-creatore a semplice esecutore delle tendenze e dei trend del momento, nel 1999 Mari stendeva e firmava il Manifesto di Barcellona, in cui dichiarava l’urgenza e la necessità di tornare a quella "tensione utopizzante delle origini del design", dichiarando quanto l’etica dovrebbe essere il fine primo di qualsiasi progetto di design. "Tutti dovrebbero progettare per evitare di essere progettati”, diceva allora e continua a ripetere oggi. Perché “la creazione è un atto di guerra, non un armistizio con la realtà”[1].
È sullo spunto di queste parole di Mari che vorrei qui introdurre l’esperienza e la storia di CUCULA – The Refugees Company for Crafts and Design, una compagnia di design fondata e gestita da rifugiati, nata a Berlino nel 2013 su iniziativa del designer Sebastian Däschle e dell’organizzazione JugendKunst- und Kulturhaus Schlesische 27: una associazione pensata per fornire a migranti e richiedenti asilo una struttura che permetta loro di sfuggire al circolo vizioso della necessità di possedere un permesso di soggiorno per ottenere un permesso di lavoro. CUCULA in lingua Hausa – la lingua nativa di alcuni dei rifugiati – significa “prendersi cura”, “mettere insieme”, ed è con questo scopo che l’iniziativa è nata, ponendosi come chiaro obbiettivo la necessità di diventare una manifattura di design autosostenuta, in grado di offrire ai rifugiati vere relazioni di lavoro e opportunità di educazione.
Erano i mesi intensi in cui in Germania le voci di dissenso politico dei rifugiati si facevano sentire sempre più a gran voce, e che sarebbero culminate a Berlino nelle manifestazioni del campo di protesta di Oranienplatz (6 Ottobre 2012 – 8 Aprile 2014) e nei terribili momenti di tensione avvenuti durante l’occupazione dell’edificio della ex-Gerhart-Hauptmann-Schule a Kreuzberg[2]. Erano i giorni decisivi in cui i migranti prendevano coscienza della loro forza politica, il momento in cui all’orizzonte si intravedevano possibilità di negoziazione con le istituzioni e in cui grandi figure di attivisti e militanti di tutto il mondo decidevano di battersi apertamente per la loro causa. “Il movimento dei migranti è il movimento del ventunesimo secolo, è il movimento che sta sfidando gli effetti del capitalismo globale, è il movimento che reclama i diritti civili per tutti gli esseri umani”, dichiarava Angela Davis in un incontro con i rifugiati di Berlino, usando parole che immediatamente si fecero virali nei media.
Attraversato il Mediterraneo, approdati a Lampedusa e poi risaliti in Germania attraverso l’Italia, Ali Maiga Nouhou, Maiga Chamseddine, Malik Agachi, Moussa Usuman, Saidou Moussa – 5 ragazzi, come tanti altri scappati da guerre, torture e situazioni drammatiche e ritrovatisi a Oranienplatz – a malapena potevano continuare a tollerare quello “stato di eccezione”[3] a cui loro erano stati relegati dal momento del loro arrivo nella “Fortezza Europa”, quello stato di totale sospensione dei diritti umani che così bene ha teorizzato Giorgio Agamben sulla scia di Carl Schmitt. A differenza di altri rifugiati con un’educazione ben più solida, i cinque non erano però in grado di esprimere il loro dissenso attraverso le parole e le armi della retorica politica. L’alfabetizzazione scarsa, il carattere più schivo e i traumi che avevano subito durante la loro odissea verso l’Europa li portarono a cercare una forma di resistenza differente, e li spinsero a organizzarsi sotto l’ala protettiva di una piccola istituzione quale Schlesische 27, che con tutti i mezzi a sua disposizione tentò immediatamente di salvaguardarli dalle ormai non più tollerabili umiliazioni e lungaggini burocratiche di una politica che li costringeva a un estenuante limbo d’attesa, isolati in ghetti dalle condizioni inumane. Offrendo borse di studio, supporto educativo e possibilità di integrazione, CUCULA è stata fondata con l’idea di dare ai cinque ragazzi la possibilità di costruirsi un futuro elaborandolo “con le loro stesse mani”, concedendogli la dignità di un lavoro e di una professione nell’attesa dell’ottenimento di un legale permesso di residenza.
Seguendo la lezione del design radicale italiano degli anni ’60 e ’70, del progetto come strategia e critica al sistema, nell’inverno del 2013 CUCULA sceglieva una strada alternativa alla protesta e al movimento politico, e decideva di adottare un piano di azione – e di resistenza eppure –, addentrandosi in una sorta di viaggio di esplorazione nei territori dell’eterotopia: un percorso per i sentieri impervi dell’auto-iniziativa e dell’autodeterminazione, una gincana per sfuggire alla politica del rifiuto e dell’esclusione giocata dall’Europa. Una scorciatoia in direzione dell’autonomia. E lo faceva adottando come manuale del suo progetto “DoItYourself” proprio Autoprogettazione di Mari, quello stesso libercolo che nel 1974 era stato pensato dal maestro italiano per esortare la gente a produrre con le proprie mani, a disegnare e costruire a basso costo i propri mobili per sfuggire alle dinamiche imposte dai processi di produzione e distribuzione delle grandi aziende, e, soprattutto, per rifiutare l’idea dell’acquisto passivo: diciannove progetti e disegni esecutivi necessari alla costruzione di sedie, tavoli, divani e scaffali con il semplice utilizzo di chiodi e di tavole di legno, tutti realizzabili contando sulle proprie capacità manuali senza dover ricorrere a strumenti e competenze specialistiche, utilizzando semplicemente la tecnica rudimentale del carpentiere (chiodi e martello). Per imparare a usare la propria testa e le proprie mani per costruirsi una propria autonomia: perché è pensando con le proprie mani che si possono rendere i propri pensieri più chiari, e perché è solo attraverso la responsabilità della trasformazione che si può ottenere la conoscenza del mondo.
Affascinati dalla vena militante del progetto di Mari, Ali, Maiga, Malik, Moussa e Saidou accettarono l’invito di Sebastian Daeschle di fabbricare con le loro stesse mani gli oggetti della loro vita quotidiana, letti, sedie e tavoli, e di imparare insieme i rudimenti della carpenteria e del design usufruendo di borse di studio, workshop e corsi di integrazione offerti loro da Schlesiches 27. Presto il gruppo si organizzò in una compagnia vera e propria, a scopi commerciali, con la chiara strategia di vendere i prodotti da loro realizzati per autofinanziare l’iniziativa e per rivendicare – più tardi – il proprio diritto di soggiorno in Germania. Ben presto arrivò il successo della stampa e della critica, le parole di supporto e di elogio da tutti i fronti e la partecipazione al Salone del Mobile 2014. È in questa occasione che, con grande ammirazione ed emozione dei rifugiati, io e Jean Blanchaert accompagnammo CUCULA al cospetto di Enzo Mari, per ottenere la di lui benedizione e richiedere ufficialmente il diritto di utilizzare i suoi modelli del 1974. Nonostante l’arrendevolezza ormai cinica sviluppata con gli anni, Mari ha ben compreso l’importanza di questa iniziativa animata invece da quella tensione intimamente utopizzante di cui il designer ha sempre parlato negli anni della sua attività: esattamente quarant’anni dopo la sua pubblicazione, Autoprogettazione si è trasformato da progetto di critica al mondo del design a vero e proprio progetto sociale, concretamente volto a trovare soluzioni alternative al problema dell’integrazione dei rifugiati nella società. E lo ha apprezzato.
Oggi i ragazzi, in attesa di un permesso di soggiorno che non hanno ancora ottenuto, continuano a lavorare nel loro workshop (anche se al momento, dopo l’incendio del loro atelier la scorsa estate, non ne hanno uno permanente), seguitano a imparare il mestiere del carpentiere e a progredire nei corsi di lingua tedesca. Hanno ormai sviluppato una loro tecnica e talvolta si permettono piccole elaborazioni aggiuntive e alternative al progetto di Mari, ridisegnando talvolta i prodotti in direzione delle loro tradizioni culturali di origine, e arricchendole delle loro storie. Lo scorso inverno alcuni di loro hanno deciso di tornare a Lampedusa, di cercare i barconi stessi con cui erano approdati in Italia, e di recuperare il legno di queste imbarcazioni per integrarlo nei loro progetti. Un passo psicologico importante per loro, fatto con l’intenzione di tentare di metabolizzare i momenti più traumatici della loro esperienza, per trasformarli alchemicamente in nuova materia su cui costruire il proprio futuro di cittadini. Per ribaltare il processo di passiva vittimizzazione a cui troppo spesso i rifugiati vengono esposti, e agire con le loro stesse mani, sulla loro stessa storia.
[1] “La Repubblica”, 7 settembre 2015, intervista di Antonio Gnoli a Enzo Mari.
[2] Onorevolmente raccontati nel testo The Penultimate Dance on the Roof del mio collega Bonaventure Ndikung, scritto per e in occasione del Padiglione Tedesco della scorsa Biennale di Venezia.
[3] Vedi Giorgio Agamben, Lo stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003.