Sulla poesia di Francesco Scarabicchi / La vita di Giacomo
Il titolo La vita di Giacomo prende spunto da alcuni testi che Francesco Scarabicchi ha dedicato al figlio Giacomo, ma incroceremo nell’articolo anche splendide poesie scritte per l’altra figlia, Chiara. Figli nati a distanza di quindici anni l’uno dall’altro, perciò il diventare genitore si è manifestato in due tempi molto diversi, tempi in cui il poeta anconetano e sua moglie erano più giovani e poi più grandi, avevano accumulato esperienze differenti, avevano capacità di provare emozioni, forse diverse, perché condizionate da un minor, o maggior, carico di anni e di conoscenze.
Prendiamo in esame Stagioni una bella poesia contenuta in L’ora felice (Donzelli), poesia che tiene in sé il filo delle stagioni, naturalmente, ma che racchiude molto della poetica di Scarabicchi, scopriamo la natura, presente con tutta la sua forza e la sua musica; il suono che fa il tempo quando incede e retrocede. La voce del vento che raccoglie le foglie. L’inverno, freddo di notte senza richiami. La primavera che porta il giorno, allungandolo con dolcezza, con la sua sapienza, fino alla sera. Ci sono i profumi, gli odori. L’estate con la sua festa di colori, una festa – scrive Scarabicchi – che non finisce. E invece finisce con la quiete dell’autunno che scende – e la bellezza dei due versi finali – “come fa il sonno / quando ti prende”. Le stagioni mutano, chiudono un ciclo, ne ricominciano un altro, lo fanno senza smettere un solo momento e noi con loro, così gli anni stati, tutti quanti quelli prima di noi, tutti quelli che verranno. Compito del poeta è di catturare qualcosa che non si ferma, che non si è mai fermato e – che ci auguriamo – non si fermerà.
Prima di portarvi dentro il lavoro di Francesco Scarabicchi, e quindi all’origine della vita, osserviamo una poesia di Cees Noteboom (da L’occhio del monaco, Einaudi):
“Mio fratello precipizio, mia sorella acqua di torrente,
mia madre canne per una capanna, mio padre
muffa su rocce rosso brune, suo padre parente dei pesci,
figura acquatica con polmoni, come te.
Nessuno ci ha inventato, eravamo nella polvere
già nel primo istante, esistiamo fin
dall’inizio. Solo più tardi abbiamo avuto anime e ci è stato
permesso di scrivere. Nostre sono le parole
di pietra e d’acqua. Mai abbiamo rinnegato
la nostra origine, siamo quel che c’è,
numeri con un nulla alla fine. Una volta qualcuno
lanciò un sasso nell’acqua, quei cerchi che si allargano
ancora, siamo noi.”
Potrebbe sembrare che Noteboom, poeta e scrittore straordinario, abbia scritto questa poesia pensando ai testi di Francesco Scarabicchi, pare che abbia pensato ai motivi che stanno alla base del tema del Kum festival, pare che abbia preso le Stagioni di Scarabicchi e le abbia riportate minuziosamente prima del loro tempo e dei tempi, prima di tutto. Siamo noi quei cerchi nell’acqua che si allargano, lo siamo da sempre, lo siamo da allora, solo che allora non sappiamo quand’è. Siamo quel che c’è, siamo prima e dopo Giacomo e Chiara, siamo durante, siamo insieme, siamo nelle poesie di Scarabicchi, lo siamo da prima che le scrivesse, ma non lo sapevamo, non potevamo saperlo.
Ancora nel libro L’ora felice, all’inizio di un gruppo di poesie che riguarda Giacomo, Scarabicchi inserisce un piccolo testo scritto dal figlio stesso dal titolo Antefatto di Giacomo: “La neve scende lenta lenta / e fa gli alberi luccicanti e brillanti / come la gioia / dei bambini felici.” Credo che la purezza, l’ingenuità, la profondità di quelle parole, siano alla base dell’origine della vita, di Giacomo, di quella di Scarabicchi, della nostra. Il poeta anconetano ci ha scritto su molti testi, quasi un libro intero, ci ha basato gran parte della sua ricchissima opera. Il testo è posto all’inizio di quella parte del libro perché in quelle parole è presente una verità ignota, inafferrabile, quanto il trovare il candore, l’ingenuità e la profondità in così poche righe; lì c’è un sentire comune, una rivelazione insita nella vita o a chi la porta in sé.
I due figli di Scarabicchi sono nati a distanza di quindici anni l’una dall’altro, due momenti, due paternità, quando una parte del ciclo naturale andava a splendere nell’adolescenza di Chiara, arrivava Giacomo, con i genitori cambiati, adulti (sempre che lo si diventi mai). Frugando nei testi del poeta e cercando nella memoria qualcosa che mi ha raccontato, immagino le due vite come quelle di due figli unici, ma vissute con uguali timori e preoccupazioni, forse maggiori quelli per Giacomo, perché minore, perché arrivato così tanto tempo dopo. Credo che il rapporto con entrambi i figli sia stato vissuto da Francesco con naturalezza, questo è ciò che traspare dalle poesie. Un padre disposto all’ascolto e al dialogo, un padre protettivo e riservato. Un padre che ha scritto per loro e di loro cercando di non far pesare il suo lavoro letterario. Un padre che tra le armi a disposizione, oltre alla penna, ha avuto le carezze e la capacità del silenzio. Silenzio che in poesia conta quanto (e a volte di più) delle parole.
Nei primi tre versi di una poesia leggiamo: “I mesi hanno lasciato / il calendario / e questo è un anno”. Come è semplice la poesia e quanto sa dire, ma quanto è difficile da ottenere quella linearità. Qui c’è l’ordinario detto in maniera inusuale, i mesi non passano soltanto ma abbandonano il calendario, li immagino cadere e da qualche parte andare a sommarsi, sottraendo tempo e andando a completare l’anno. Una poesia che si è sempre vestita di parole semplici, toccando i punti più sensibili dell’essere e così scendere in profondità. In quei mesi che lasciano il calendario c’è il tempo, di come passi cambiandoci. I giorni, gli anni che si susseguono, il modo in cui ci trasformano, sono i grandi temi della poesia di Scarabicchi, una poesia mobile, che resiste alla lunga distanza, che cambia davanti agli occhi del lettore a ogni rilettura perché il lettore cambia.
C’è un coniglio bianco, in un’altra poesia, il bianco è il colore fondamentale dei versi di Scarabicchi, ha lo stesso peso e valore del silenzio, il bianco da riempire, da osservare, dentro il quale, qualche volta, sparire. Il coniglio “è un finto animale / col collarino rosso”; e più avanti: “Faccio quel che posso / perché lui ti risponda”. È commovente l’amore, la tenerezza di un padre verso il figlio, la voglia di esserci, e il timore – in questa piccola immensa cosa – di non farcela. Il coniglietto di Giacomo (e quindi Giacomo), ripensando alla pedagogia dell’umano di uno scrittore caro a Scarabicchi come Fabio Tombari, dovrà affrontare tutte le bellezze e tutto l’orrido del mondo, partendo da una cameretta. Amore e timori incondizionati hanno viaggiato di pari passo.
“Con i miei anni aspetto / che torni dal tuo sonno”. Di nuovo tutto, c’è un peso specifico nella conta degli anni con le cose che si portano dietro, con la memoria e tutto ciò che è stato. Quel peso è con il poeta mentre si aspetta la sveglia di chi si ama tanto, l’equilibrio di due versi equilibra tutto. C’è però già il futuro, si intravede ciò che sarà, quegli anni aspetteranno un figlio adolescente, adulto che torni non dal sonno, ma dal suo tempo nuovo che se lo prende e lo conduce fuori di casa. La vita che continua, che cambia, che fa ritorno a casa e alla sua origine. Altri genitori aspetteranno altri figli che rincaseranno tardi o neonati che si sveglieranno pieni di stupore e – ricordiamocelo – di fame.
“Le tabelline d’oro / che canti da quell’angolo / dove non posso entrare”, recita un’altra poesia. L’esclusione, il punto intimo, la soglia da non valicare, esserci ma non potere (dovere) comprendere tutto. Rimanere esclusi sempre e per sempre da qualcosa, dal gioco, da una tabellina, da quello che sarà. Scarabicchi ci dice, attraverso la forza di quei versi, del tempo in cui – stando sulla soglia di una cameretta – si cerca con l’attenzione di non invadere, cercando le giuste parole, la lama di luce, lo spazio per entrare nel mondo di Giacomo e non sentirsi escluso. Più avanti la cameretta diventerà un altro luogo, la crescita, quello che chiamiamo “vita privata” che, tra le altre cose, priva il genitore della vicinanza di una volta, costringendolo a trovare nuovi modi, altri campi da gioco.
“Non somigliarmi,
non avere, con me, niente in comune,
lascia che sia, ogni volta,
l’imprecisa dolcezza di un saluto
a condurre i tuoi passi
e quel tremore trepido che guarda
il niente per cui è dato consegnarsi.”
Chiara la figlia maggiore di Francesco Scarabicchi vive da tempo in Australia, ci era andata per fare esperienza, per rafforzare l’inglese, poi come succede ci è rimasta, si è sposata, è diventata cittadina australiana. Ci sono delle bellissime poesie raggruppate sotto la parola “Australe”, di cui cito ad esempio un verso meraviglioso: “Ti mancherà ciò che è con te per sempre”. Ecco, se dovessimo andare in una scuola qualsiasi a spiegare cosa significa l’accelerazione della poesia – concetto caro a Brodskji, che definiva la poesia una rara forma di accelerazione mentale –, cosa vuol dire contenere tutto il senso del mondo, potremmo usare quel verso, potremmo incollarlo sui muri di ogni aula, dalle elementari alle superiori, forse anche nelle università, e non solo nelle facoltà umanistiche. Nel libro L’esperienza della neve (Donzelli), una poesia dice: “figli che andate come fosse inverno”, un verso che mette freddo e che intenerisce. Questo verso insieme a quel “Ti mancherà…” rappresenta l’amore, la dedizione, rimanda all’educazione data e credo a una profonda nostalgia già vista dal poeta prima ancora che accada. Sono versi che sentono l’assenza ancor prima che si realizzi. Quanta bellezza.
La pioggia è un altro elemento che ricorre spesso nelle poesie di Francesco Scarabicchi in versi come “m’accompagna notturna come un padre” è intima, è confortante. Ha un potere catartico e torna di frequente come il colore bianco, che è il non-colore che contiene tutti gli altri, un altro libro bellissimo il bianco ce l’ha nel titolo Il prato bianco (Einaudi).
Giacomo nato dopo quindici anni nella vita familiare di Scarabicchi dovette piombare come una rivoluzione. “Egli è nato / nell’ora / di giugno / meridiana // nel chiarore / che dona / alla luce / la luce / che non c’era.”
Per concludere vorrei citare ancora due versi: “è qui che sei venuto, se hai memoria / del resto e anche di me che non so niente.” Un incipit straordinario e anche una chiusura, perché l’origine della vita è una partenza ignota ed è anche un ritorno. Non sappiamo mai niente di noi e nel nostro non conoscerci originiamo ogni giorno la vita. Credo che la poesia di Francesco Scarabicchi nasca proprio da quel non sapere e che dentro la parola abbia cercato e cerchi il senso profondo del nostro esistere.
Questo testo è l’adattamento di un discorso tenuto al Kum Festival del 2019 sulla poesia di Francesco Scarabicchi. Tema del festival era “L’origine della vita”.