Albero stella di poeti rari
Continua lo speciale dedicato a Giuliano Scabia, uno dei padri fondatori del nuovo teatro italiano, maestro profondo e appartato di varie generazioni, artista sperimentatore, poeta, drammaturgo, regista, attore, costruttore di fantastici oggetti di cartapesta, pittore dal tratto leggero e sognante, narratore, pellegrino dell’immaginazione, tessitore di relazioni, incantatore.
Dopo l’intervista Alla ricerca della lingua del tempo, prosegue con la pubblicazione in esclusiva, in quattro puntate, di un poema inedito, Albero stella di poeti rari – Quattro voli col poeta Blake, recitato per la prima volta dallo stesso Scabia durante il festival A teatro nelle case del Teatro delle Ariette a Oliveto di Valsamoggia (Bologna). Dopo Volo sopra la città di Londra, pubblicato mercoledì 13 maggio, e dopo Volo secondo sopra la Francia, pubblicato mercoledì 20 maggio, il fantastico viaggio guidato da William Blake continua sopra isole, città, venti, capre della Grecia antica e di quella di oggi, in cerca della visione della più amorosa tra gli dei, Afrodite. Nella prossima puntata il viaggio terminerà e voi, lettori, potrete scaricare tutto il poema e conservarlo.
ph. Massimo Agus
VOLO TERZO SOPRA LA GRECIA CON VISIONE FINALE DI AFRODITE
1. Visione dell’isola di Citera
“Hai voglia, Blacche, di ancora
volare?” “ O Scabius,” – dice – “ho voglia sì.”
“Da tempo mi piacerebbe,” – dico – “o vi
sionario, veder dal mare sorgere Afrodite.”
“Andiamo, – dice – che non si sa mai
quando un dio si forma o si dissolve:
bisogna stare pronti per sentire
dentro di noi se viene, se sta per germogliare.”
E dunque riprendemmo il volo
entrando nelle nubi affastellate,
a volte silenziosi, a volte chiacchierando,
fin che la Grecia monti e mare apparve.
“Guarda,” – dice la mia guida – “ecco là
le isole disseminate, le navi e i venti,
le città antiche e le presenti,
i turisti, le capre, gli eroi, gli dei viventi.”
Ed ecco che, dopo un gran girare,
siamo su un’isola piccola, meravigliosa ,
contornata di mare smeraldo colore.
“È Kithira,” – dice Blake. – “Qui fu vista apparire.”
“E se fosse che per noi si rifacesse
viva?” – dico. “Potrebbe,” – dice – “perché Memoria
trattiene tutto e nominando
tutto di nuovo si presenta in gloria.”
Lentamente volando tutta l’isola
lungo il mare abbiamo ammirato,
ascoltato le onde e il colore delle rocce,
la schiuma chiara nasconditrice.
“È l’incontro dello sguardo con le cose
che fa sacro ciò che appare,” – dice Blake. –
“È là che si formano gli dei e si rivelano
negli occhi di quelli che s’accorgono.”
“Ma forse allora o Blacche gli dei
sono tutti ancora là.” “Sì,” – dice Blake – “ma
sofferenti di non essere pregati.
E il mondo soffre la loro sofferenza. Ma
verrà giorno che di nuovo, seguendo
il nostro nominare, tutti ritroveranno
quel guardare che sa fare,
con lo sguardo, giardino.”
“È questo il segreto della poesia?” – dico.
“Sì, da sempre,” – dice. – “Essere vivente
è la lingua da noi seminata
per sapienza di logos e veggenza.”
“O Blacche, mio poeta, ora sto piangendo
perché confermi ciò che andai scoprendo
ascoltando la voce e lo strumento
dei genitori antichi e il loro intento.”
“l’albero dei poeti: forse saffo, forse rosvita, forse louise labé, forse emily dickinson, forse…”, ph Massimo Agus
2. A Kypros, vista del sasso di Afrodite e cafenìo nel villaggio di Kyklos
Così parlando riprendemmo il volo
meta avendo Kypros luminosa
dove un tempo lei sorse dal mare
e prima cosa andammo a Kyklos paesetto,
alla piazzetta presso il tempio,
al cafenìo, godendo il caffè greco
e l’insalata verde e bianca di formaggio feta,
rossa di tomati, nera d’olive, d’origano adornata.
“O Blakos,” – dico – “qual è il caffè
che preferisci?” “Il greco amaro,” – dice –
seguito dal moka all’italiana
e cafeçito cubano piccinino: e l’etiopè.”
“Chissà Afrodite,” – dico – “quale preferito
avrebbe suo caffè.” “Tremante cosa,” – dice
il mio maestro caro – “è quando
l’amor amore l’umido ristora
del corpo la gloria con tazza
di caffè, tostato bene, arabico, e sen
za zucchero – ché dolce è già di baci
il corpo fatto fiore dall’amore.”
Ora vediamo là verso il blu mare
frangersi le onde che sembrar formare
la figura meravigliosa e come lievitare
e sorridere di schiuma le onde chiare.
“È tutto scritto fin dai tempi,” – dice Blakò –
del brontolon poeta Esiodò
e anche da prima, quando appoggiati
al seno fruttuoso, delicatissimo,
s’accorsero i figli che lei, madre cara,
era signora d’ogni mare
e umidissime grotte – e la porta della vita
aveva al centro del suo corpo chiaro.”
“O Blacche,” – dico – “come mai la nostra religione
s’è tanto impaurita di vagina e fallo
da far madre di dio una verginina
e padre un vergine soppiantato dal vento?”
“Sono i misteri dell’immaginare,” – dice –
“quando si confonde il mito col reale
e magari si scambia un animale
per un divino principe regale.
È la terra la sempre vergine, la madre,
la sempre di nuovo fecondata,
la sempre a partorire preparata
con l’aiuto del vento, pioggia e sole.”
“Oh come m’illumini, poeta veggente,” – dico –
“insegnandomi a capire che i misteri
sono nodi che nelle parole
si formano insieme ai desideri.”
“È così,” – dice. Com’era in quel cafenìo
il nostro colloquio per capire dio!
Accanto, nel suo santuario, sicuramente
Afrodite gioiva in nostre parole udite.
“Gallocavallo: azione improvvisa in borgo san niccolò a firenze fin dentro la galleria ‘base’, 2004”, ph. Massimo Agus
3. Apparizione
Aspettammo il calar del sole
e poi la notte vegliando sulla riva
certi che lei si rifacesse viva
formandosi dal mare e dall’afrore
secondo quanto andavamo immaginando
ogni tanto parole sussurrando
intonate al mormorar del mare, sperando
evocare l‘apparizione
dell’amatissima madre della vita: fin
che giunse piano piano l’alba e l’aprirsi
dell’aurora indorata di color del sole
riemerso con la brezza del mattino
quand’ecco che il prodigio
vedemmo – credemmo di vedere:
intorno allo scoglio dove il mito
insieme ai turistici depliant narrava
lei bianca e oro sorridendo
sorgeva – soavemente:
per noi, da noi sorgeva
e ci parve parlasse, divinamente dicendo:
“Brama, desiderio, voglia, amore,
concordia degli elementi
e di tutto ciò che esiste mutamenti
avviene attraverso di me: e anche il tempo
corre per desiderio di formare
lo spazio: io sono il calore
che tutto ha messo e tiene in moto
infinitamente: io
sono la luce che tutto attraversa,
curiosa, rivelatrice, misteriosa: luce
è il mio corpo – corpo esteso
dappertutto – luce Afrodite: io
sono colei di fiori inghirlandata
e stelle, pianeti, galassie, nebulose
e universi tanti quanti infiniti forse
si godono le corse smisurate,
le catastrofi, i rotolamenti
negli immensi venti in cerca
d’armonia – dei numeri armonia
e del sorridere beato
per le simmetrie concordi
e le metamorfosi e gli accordi
nelle bestie, uomini, mondi:
per questo scienziati e poeti
talvolta cercano descrivere
il mio corpo, madre di luce:
noi, gli dei, siamo atomi e stelle
dell’immaginazione.
O Blake, o Scabius, dite
di ascoltare il desiderio di amare: e quando
dopo il colmo della gioia l’odio torna, dite
che Afrodite no, non è assassina.
Insegnate a ridere di gioia
e desiderio e dolce voglia
e tenerezza: con me giocando
tutto si viene illuminando.”
Qui taceva sorridendo quella
Afrodite dea, da noi evocata:
c’era nell’aria profumo di viole
e cinguettio di passeri cantava
mentre lei spariva. Noi sbalorditi
per un po’ non osammo parlare: poi
Blake disse: “O Scabietòs, avevi ragione:
sono i poeti che fanno gli dei.”
“Sì e no, – dico. – “È la mente
che è piena di semi
infernali e divini.
Come tu ben sai gli dei
sono accovacciati là, in attesa
d’essere chiamati per nome,
pronti a diventare visione
secondo la nostra intenzione.
“Via,” – dice Blacchèus – “è l’ora di colazione:
yogurt con miele e frutti: guarda,
giungono i pullman, i turisti cominciano
a scendere sul mare
selfie
sperando
sé con Afrodite
fotografare.