Il magico mondo di Giuliano Scabia
Il successo di un autore si può misurare in estensione, ma anche in “intensione”. Nel primo caso valgono i grandi numeri e la popolarità, nel secondo conta l’intensità dell’ammirazione. Giuliano Scabia è un autore di grande successo perché i “felici pochi” che sono entrati in contatto con le sue attività teatrali, letterarie e artistiche, e i più felici ancora con la sua persona, ne sono rimasti folgorati e ne conservano un ricordo indelebile. Per questi “adepti” l’ultimo numero di «Riga», a Scabia dedicato, è una vera leccornia, ed è anche uno strumento eccellente per presentare il multiforme autore padovano a chi invece non abbia mai incrociato i suoi percorsi.
Scabia nasce con le avanguardie degli anni Sessanta: partecipa a un convegno del Gruppo 63, scrive due libretti per Luigi Nono, testi teatrali per il regista Carlo Quartucci (recitati, fra gli altri, da Leo de Berardinis), manifesti teorici per il rinnovamento del teatro italiano. Il passo successivo è portare le azioni sceniche fuori dai luoghi deputati, coinvolgendo le più diverse comunità locali: operai dei quartieri periferici di Torino, ragazzi di dodici città abruzzesi, studenti del Dams di Bologna (dove ha insegnato dal 1972 al 2005), medici, assistenti sanitari e malati dell’Ospedale psichiatrico di Trieste negli anni di Basaglia (l’esperienza di Marco Cavallo, il totem più iconico fra i molti realizzati nel corso degli anni), e poi contadini dell’appennino reggiano (il teatro di stalla, Il Gorilla Quadrumàno), eccetera eccetera.
A partire dagli stessi anni Scabia scrive e pubblica versi, a volte pensati per il teatro a volte in parallelo alle azioni teatrali. Poco prima della morte, avvenuta nel 2021, pensava di raccogliere tutte le sue poesie in un unico Canzoniere mio, senza riuscire a farlo in tempo.
I romanzi arrivano più tardi: nel 1990 esce In capo al mondo che avvia il «ciclo dell’eterno andare» di cui faranno parte Lorenzo e Cecilia, L’azione perfetta e Il ciclista prodigioso. L’altro ciclo, quello di Nane Oca, viene avviato poco dopo, nel 1992, e anch’esso troverà la conformazione conclusiva in un quartetto, con Le foreste sorelle, Nane Oca rivelato e Il lato oscuro di Nane Oca. Le due serie si alternano nel giro di trent’anni (ma di un quinto Nane Oca è traccia in frammenti conservati nell’archivio dell’autore).
In una estrema sintesi come questa non devono comunque mancare altre due cose: lo Scabia pittore (al di là delle mostre con sue opere, i disegni presenti nei suoi libri, sia di narrativa che di poesia, sono assolutamente consustanziali ai testi) e lo Scabia saggista, che riflette sul proprio lavoro, sulla poesia, sulla scrittura.
Se consideriamo che nel suo teatro non mancano la musica e i balli collettivi e che negli stessi romanzi compaiono non poche notazioni musicali (Scabia era figlio di un importante violoncellista), possiamo dire che la sua figura ha caratteristiche di artista totale, alquanto rare nel secondo Novecento e negli anni più recenti. La sua cifra è quella che permette di far emergere dai contesti più diversi contenuti profondi (antropologici, rituali, perfino teologici) in forme semplici, incantate, toccate dal «tremito della poesia» e da un senso di purezza pur nella (o proprio per la) contaminazione di tutto: alto e basso, bene e male, realtà e fantasia. Senza che l’incanto si confonda con l’ingenuità e con la semplice regressione allo sguardo infantile, essendo Scabia ben consapevole dei poteri della finzione e del benefico distacco dato dall’ironia. Entrare cioè in quello che chiamava «magico mondo» ma crederci fino a un certo punto. Più che altro coglierne gli echi simbolici.
Lo strumento principe per questa “azione” testuale è la «stralingua», il personalissimo idioma di Scabia impastato di dialetto padovano, di «lingua rovescia» usata per gioco dai bambini, di neologismi, di “parole macedonia”, di forzature sintattiche (per esempio l’uso esteso e polivalente del participio presente). Un idioma per certi aspetti imparentato col petèl di Zanzotto (di cui Scabia era amico e profondo lettore), ma gli ingredienti per raggiungere questa lingua primigenia e archetipica, soprattutto nelle poesie e nei romanzi di Nane Oca, sono più variegati e fantasiosi.
Il numero di «Riga», curato da Angela Borghesi, Massimo Marino e Laura Vallortigara, è organizzato in diverse sezioni. La prima raccoglie alcuni testi teorici sul teatro pubblicati negli anni Sessanta e primi Settanta (più un inedito dello stesso periodo), a rappresentare la prima fase dell’attività di Scabia e delle sue posizioni. La seconda è centrata sul «teatro vagante», anche in questo caso con testi teorici o di autoriflessione, ma con l’apporto del Dialogo del teatro con la medicina della mente, che è un testo effettivamente recitato, e di uno stralcio delle Lettere a un lupo, testo, quest’ultimo, fra le cose più memorabili di Scabia. E anche in questa sezione non manca un inedito, sempre di provenienza dall’Archivio della Fondazione Giuliano Scabia. Nella terza la fa da protagonista il poemetto Dioniso germogliatore, pubblicato in rivista nel 1998 ma decisamente poco noto: ed è importante perché vi si concentrano molte idee di Scabia sulla poesia e sul teatro, in parallelo ai suoi corsi sulle Baccanti che tenne per quattro anni al Dams. Con i due testi successivi tratti dalla raccolta di saggi Una signora impressionante, emergono tutti insieme i concetti di visione e di mistero, di rigenerazione del sacro attraverso l’infanzia e il gioco. E opportunamente vengono presentate anche tre pagine sul gioco del «pìndolo pindolèche», cioè la lippa, con protagonista un gruppo di ragazzi da Nane Oca rivelato. Altri testi dalla Signora impressionante ci conducono nella quarta sezione, dedicata ai luoghi: paesi, città, boschi, con le loro presenze, il loro respiro, i racconti, le chiacchiere, le immaginazioni che il «teatro vagante» fa in modo di far riaffiorare.
Più due poesie dai Canti del guardare lontano, su Venezia e sul mormorio dell’universo. Da segnalare anche un testo su Meneghello, altra figura letteraria di grande vicinanza. Ai romanzi è dedicata la quinta sezione, con antologia dai due cicli narrativi e un testo teorico sulle fiabe di magia dove Scabia, con la sua passione per le finte etimologie che fanno risuonare legami segreti, mette in fila «fiato – fato – fata». L’ultima sezione di testi di Scabia è di pertinenza della sua poesia, con assaggi dal Poeta albero, Opera della notte, Canti brevi e come sempre testi teorici (che peraltro sono ugualmente creativi) dalla Signora impressionante e da Il tremito. Che cos’è la poesia?
Segue una ricchissima sezione di interviste dal 1978 al 2012, in cui miracolosamente, per virtù di Scabia e/o dei selezionatori, non compaiono troppe ripetizioni. Quindi un’antologia della critica, nella quale spiccano tre interventi di Gianni Celati, che di Scabia è stato non solo un fraterno sodale, ma uno degli interpreti più acuti. E poi la sequenza dei saggi originali scritti espressamente per questo numero di «Riga» da vari studiosi, amici e testimoni. Non potendo compendiarli tutti, mi limito a segnalarne alcuni. Quello di Mario Barenghi, che analizza il regno dei morti rappresentato nel finale di Nane Oca rivelato mettendolo in relazione contrastiva con quello dantesco, per mostrare come per Scabia qualsiasi esperienza narrativa, morale o ultraterrena sia sempre fortemente fondata sull’idea di comunità (per cui l’unica punizione possibile consiste nella vergogna di fronte alla collettività di riferimento, piccola o universale che sia). Il saggio di Marco Bazzocchi, anche utilizzando le dispense dei corsi universitari sulla Baccanti, ripercorre con molta chiarezza il rapporto fra Scabia e il pensiero mitico, e ne fa vedere le direzioni del riutilizzo nel vivo del suo teatro e dei suoi testi letterari. Angela Borghesi evidenzia l’importanza delle esperienze pedagogiche sperimentali che Scabia aveva fatto a Milano negli anni Sessanta e in provincia di Parma nel 1971, come motore primo della sua idea di teatro e di letteratura. Luca Lenzini si occupa della poesia di Scabia e in particolare della raccolta Il poeta albero, del 1994, trovandone tracce germinali fin nella prima raccolta Padrone & Servo, del 1965. Massimo Marino ci dà l’elenco totale dei titoli del «teatro vagante», secondo l’ultima stesura di mano di Scabia: sono 102 fra testi veri e propri, tracce, schemi vuoti per improvvisazioni, frammenti non conclusi. Laura Vallortigara indaga il fondamentale rapporto con la storia nel ciclo «dell’eterno andare», notando come l’ultimo romanzo del ciclo sia piuttosto affine per stile e andamento ai romanzi di Nane Oca, come se Scabia, alla fine, abbia voluto fondere le due saghe, e dare ancora una volta l’idea della propria opera come fortemente unitaria.
La descrizione del volume non sarebbe completa se non segnalassi l’avvincente appendice di fotografie, disegni e documenti inediti, sempre tratti dal prezioso Archivio della Fondazione e, all’inizio del volume, la fondamentale Cronologia messa a punto da Laura Vallortigara, senza la quale sarebbe difficile orientarsi nella vita e nelle opere di un autore tanto prolifico quanto variegato nelle cose che faceva.
Che dire in conclusione? La ricchezza di questo numero di «Riga» è evidente: molti i testi inediti o rari di Scabia e i contributi tutti di grande competenza e passione. Scabia, si è già detto, si è formato con le avanguardie degli anni Sessanta e da quella temperie intellettuale ha sempre mantenuto l’attitudine a teorizzare molto, a tracciare programmi, a definire i termini del teatro, della poesia, della scrittura, a riflettere sul proprio fare, sulla propria lingua. I brani di questo tenore scelti nel volume sono di gran lunga la maggioranza, a cui vanno aggiunte tutte le interviste. Inoltre gli stessi testi teatrali e letterari sono spesso metateatrali, metaletterari e metalinguistici. È forse normale che, in questo contesto, anche gli interventi critici vadano prevalentemente in questa direzione, tranne poche eccezioni di saggi che analizzano alcuni testi. Ecco, se c’è una cosa di cui si può avvertire la mancanza è una più corposa lettura dei testi più spiccatamente creativi. Ai tempi di Walter Binni sembrava che individuare la “poetica” di un autore fosse la soluzione per ogni indagine letteraria, ma oggi si è capito che molti scrittori danno il meglio di sé proprio quando scartano dai loro progetti e dalle costruzioni teoriche. Forse si avverte un eccessivo rispetto della “narrazione” che Scabia stesso ha fatto della propria opera. Per certi versi è vero che in Scabia “tutto si tiene”, e lo si vede per esempio nel saggio di Lenzini sulla poesia, ma per altri versi forse, analizzando più direttamente i testi, si potrebbero individuare delle cesure, vedere l’evoluzione della lingua. Scabia ci teneva a mostrare insieme, legati fra loro, i 102 titoli del suo «teatro vagante», ma se c’è davvero qualcosa che li lega insieme, c’è anche molto che li divide. Si tratta di mutamenti ideologici, si tratta di un progressivo passaggio dalla politica alla spiritualità, dalla lingua della neoavanguardia alla «stralingua». E anche per la parte figurativa, dai totem del «teatro vagante» ai raffinati calligrammi dei libri più tardi la discontinuità sembra prevalere rispetto alla continuità. Una lettura ravvicinata dei testi potrebbe dirci qualcosa di più sulla grandezza di questo scrittore, e forse qualcosa di diverso dal tanto che ci ha già detto lui sul proprio lavoro. Ma è bene che ci sia ancora spazio per ulteriori indagini. Scabia è autore da continuare a leggere e studiare.
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