La nazione delle piante / Angela Borghesi, La camelia
Durante le vacanze, nell’ora della siesta, Fermina Daza appare nel cortile di casa seduta sotto i mandorli, accanto alla zia, entrambe ricamano. Un giorno di gennaio, entrata la zia in casa, Fermina si ritrova fuori da sola; allora Florentino Ariza, frastornato dal sole e dal desiderio, può consegnarle il biglietto in cui le promette ciò che vi è di più raro: l’amore imperituro.
È difficile dare in pegno il tempo in una terra in cui il caldo fa marcire ogni cosa rapidamente, tuttavia è ben noto come il tenace protagonista de L’amore ai tempi del colera riesca nel suo intento.
Siamo nella seconda metà dell’Ottocento in una città immaginaria del Caribe colombiano. Florentino Ariza è un giovane richiesto, balla la musica alla moda, suona il violino, sa recitare a comando le poesie d’amore, è elegante, dall’aspetto malinconico ma non trascurato. Il suo mucido sentimentalismo è preso di mira dalla voce narrante, ma, al contempo, la sostanza verbale di cui è fatta quest’ultima si nutre dell’inscalfibile dandismo del personaggio, lasciando sulla pagina mirabolanti esempi di un poeticizzare gioioso attraverso il linguaggio comune, mentre opera un abbassamento della maschera dell’eroe romantico. Orbene, come osserva puntuale Angela Borghesi in La camelia – pubblicato nella serie “La Nazione delle Piante”, diretta dal neurobiologo vegetale Stefano Mancuso per Editori Laterza – è proprio una camelia bianca, fiore delicato eppur longevo, che Florentino porta all’occhiello della finanziera dalla cui tasca interna estrae il foglietto clandestino per Fermina.
È risaputo come nelle pagine di Gabriel García Márquez si alternino vertiginosamente personaggi che spesso confondono il lettore meno accorto, vale a dire chi non si sia procurato a tempo debito una matita per annotarne i nomi, in modo da compilare elenchi di ascendenze e discendenze che assumono via via sul foglio l’aspetto di un viluppo di mangrovie. Va puntualizzato che anche gli elementi vegetali non sono da meno, anzi: fiori e piante di ogni foggia e colore riempiono gli spazi, interni ed esterni, e guarniscono la caratterizzazione di molti personaggi del premio Nobel colombiano, richiamandone, per analogia, i tratti fisici e psicologici.
In un tale intrico di nomi e varietà, di caratteri e indoli, colpisce la precisione di Angela Borghesi che, nella sezione del suo libro dedicata alla camelia nell’arte e nella letteratura, dall’Europa si sposta in America Latina, scovando proprio il corteggiatore più innamorato e demodé delle lettere ispanoamericane moderne, che di questo fiore, con tutto il suo portato ottocentesco, pare essere l’incarnazione.
Così, accanto a Marguerite Gautier, La Dame aux camélias di Alexandre Dumas fils, e ad altre figure letterarie meno note che qui non si vogliono citare per non ridurre tutto a un elenco, Angela Borghesi annovera Florentino Ariza tra i personaggi che, associati alla camelia, ne evidenziano l’allusiva e contraddittoria densità semantica, invogliando a ripercorrere le pagine del romanzo solo per seguire le tracce dell’antico fiore orientale. C’è chi ha provato (le occorrenze trovate sono sette), ed è come frugare sul petto del telegrafista alla ricerca di qualche taglio segreto nella giacca da cui possa far capolino un bocciolo come dall’umidore fragrante di un terreno di castagno.
La finzione letteraria si nutre delle convenzioni culturali, delle consuetudini, dei modi di vivere e di pensare di un’epoca, allora la letteratura è una formidabile via d’accesso ai meccanismi di sedimentazione dell’immaginario, che è sempre storicamente e geograficamente determinato. La miscibile sostanza fantastica che irrora i testi narrativi attinge anche dal patrimonio comune di conoscenze derivate dagli accadimenti che definiscono un periodo storico, incluse le esplorazioni, le traversate, i viaggi. La camelia, scrive Borghesi, dapprima conquistò l’Europa con le sue foglie, poi, in seguito, fece infatuare della magnificenza generosa delle sue corolle molti giardinieri e letterati – “È desiderando e cercando di possedere la pianta del tè che gli europei scoprirono altre camelie e la bellezza dei loro fiori” (p. 14).
Per i fiori di questo arbusto, nell’Ottocento scoppiò una vera e propria passione simile alla fern fever, la grande mania vittoriana per le felci che Oliver Sacks racconta in Diario di Oaxaca (Adelphi, 2015, trad. di Maurizio Migliaccio): “Mia madre e le mie sorelle avevano ereditato l’amore per le felci dal padre, mio nonno, che era arrivato a Londra dalla Russia verso la metà dell’Ottocento, quando in Inghilterra impazzava la pteridomania” (Diario di Oaxaca, p. 21).
Per entrambi gli autori, Angela Borghesi e Oliver Sacks, l’interesse per le piante deriva da affetti e storie famigliari e dà origine a una rara abilità narrativa che amplifica la capacità di offrire al lettore intriganti percorsi di botanica storica. I due libri potrebbero essere letti contemporaneamente.
Il viaggio compiuto dalle camelie da un continente all’altro, la diffusione dei semi, le vicende legate alla domesticazione delle varietà, s’intrecciano alla storia della specie umana, che è una storia di potere, di prevaricazioni, di strategie difensive, nonché di fortunate coincidenze: “C’è chi sostiene che l’ingresso in Europa della camelia ornamentale – giunta a noi prima della pianta del tè – si debba a un inganno, a una tattica di depistaggio dei cinesi che scambiarono la Camellia sinensis con la japonica per impedire l’uscita del loro tesoro verde fuori dai confini, oppure si debba a individui di japonica finiti per sbaglio in una partita di piante del tè” (p. 22).
Leggendo le pagine di Borghesi si fa la conoscenza di mercanti olandesi, monaci orientali, samurai, farmacisti tedeschi, naturalisti italiani... e di un manipolo di studiosi e di appassionati di giardinaggio inglesi che, volendo arricchire i loro parchi composti prevalentemente da presenze floreali pallide e morigerate, cambiarono per sempre i connotati al paesaggio britannico. Essi, inoltre, proiettando l’Inghilterra nell’avanguardia della floricoltura, diventarono i protagonisti di una tappa importante della storia occidentale del paesaggio.
È il caso, per esempio, di Lord James Petre, VIII barone di Writtle, che, nel 1739, “nel suo giardino botanico a Thorndon Hall nell’Essex, mise a dimora in una serra riscaldata una camelia dai fiori semidoppi rossi” (p. 30).
La storia delle camelie s’intreccia allora a quella del paesaggio, che i visionari del giardino come il succitato lord hanno ridefinito spesso contravvenendo a usanze e superstizioni. Domesticare fiori esotici, tropicali, alludendo a una sensualità prima sconosciuta alle aiuole, significa anche contribuire a svincolare dalle preoccupazioni morali la contemplazione dell’elemento naturale; con le camelie di Borghesi si viaggia così anche nella storia delle emozioni, che ha molto a che fare con l’evoluzione dell’estetica dei luoghi.
E, se di passioni si tratta, bisogna spostarsi più a Sud, in Italia, dove la camelia “è stata il fiore del Romanticismo e del Risorgimento”. Infatti, come spiega Borghesi, “I decenni dell’Ottocento in cui il movimento politico e culturale promuove e raggiunge l’unità nazionale coincidono con quelli del suo maggiore fulgore” (p. 101).
Nelle pagine dedicate all’acclimatazione del fiore negli orti e nei parchi delle ville e delle residenze nobiliari della penisola, l’autrice arricchisce la sua ricerca, condotta attraverso una prosa sempre misurata ed elegante, con alcuni elementi di storia sociale e politica legati ai protagonisti dell’Unità d’Italia. Così, soffermandosi, per esempio, sulla figura di Bernardino Lechi, che “consacrò una camelia ad Arnaldo da Brescia [...], il frate agostiniano allievo di Abelardo che [...] fu eletto campione del libero pensiero” (p. 103), o su Angelo Borrini, oculista mazziniano dedito a impiantare nel lucchese camelie e idee liberali, Borghesi delinea un quadro narrativo affascinante, valorizzando il repertorio vegetale presentato con le avvincenti tribolazioni dei moti risorgimentali e delle cospirazioni carbonare.
Come Florentino Ariza, anche i confratelli della società segreta fondata da Angelo Borrini portavano una camelia all’occhiello. La loro non era bianca, bensì variegata rossa e bianca che “con il verde delle foglie ammiccava al tricolore” (ibid.).
In un andirivieni temporale colto e ben documentato, il libro La camelia ravviva la semantica del fiore. L’autrice libera il fiore della sua aura di delicatura stantia notandone la presenza non solo sui caminetti un po’ tetri, ma anche laddove si manifestò l’aspirazione al futuro, arricchendo così la palette di sfumature che compongono la sua densità simbolica.
In fondo, l’ansia emancipatoria che il telegrafista colombiano e i cospiratori italiani hanno voluto consegnare al domani, seppur direzionata diversamente – il primo verso l’amore che fonde due esseri in un’unica armonia, i secondi contro le istituzioni politiche esistenti – è la stessa. Essa ha travalicato i secoli e non si è estinta, proprio come la camelia, che ancora oggi fa bella mostra di sé nei giardini e sui terrazzi poco assolati.