Di necessità virtù / Grace Paley: Volevo scrivere una poesia, invece ho fatto una torta
Quest’anno Grace Paley avrebbe compiuto cento anni, forse nella sua casa a Thetford Hill, nel Vermont, dove si trasferì definitivamente alla fine degli anni Ottanta con il suo secondo marito, un poeta come lei, o forse al Greenwich Village dove, chi può dirlo, sarebbe forse ritornata dopo avere vissuto per qualche anno sulla cima di una collina. In entrambi i casi, probabilmente, avrebbe organizzato una festa e ci sarebbero stati tanti amici. Invece è morta quindici anni fa, nel 2007, lasciando due figli, un po’ di nipoti e poche centinaia di pagine scritte, tra le più belle della letteratura universale: racconti, poesie e interventi saggistici pubblicati e ripubblicati in vari volumi e in molte lingue.
Nacque nel 1922 in una famiglia di ebrei socialisti che vivevano nel Bronx (erano scappati dalla Russia dello zar). Proprio nei luoghi emblematici della New York popolare, quella dei muri di mattoni e dei cavi aggrovigliati sui pali di legno, Grace Paley ha ambientato la maggior parte dei suoi racconti.
Sulle scale antincendio, nelle sale d’attesa degli ambulatori, in sinagoga, sui marciapiedi, per strada, sui pianerottoli, in cantina e soprattutto in cucina, “centro di una quotidianità agitata da passioni alle quali i bambini non erano estranei”, per usare le parole di Marisa Bulgheroni, si muovono personaggi molto simili alle persone che le hanno vissuto intorno e a cui ha voluto bene. Sono tutti protagonisti di trame di quartiere dove le faccende di casa e le tribolazioni famigliari, strappate alle pressioni della contingenza, si trasformano in materiale per un processo estetico di riarticolazione anche politica della dimensione domestica. Quest’ultima è sempre intesa, in tutti gli scritti di Paley, in senso perimetralmente allargato, dagli appartamenti alle aree pubbliche dove la vita è anzitutto collettiva, come i parchetti, della cui esistenza beneficiano tutti e che per questo motivo sono da salvaguardare e proteggere strenuamente, come i trasporti pubblici. A questo proposito, non è raro leggere nelle pagine della scrittrice di persone impegnate in campagne di attivismo locale, fortemente schierata com’era a favore dei diritti civili e umani, dell’ambientalismo e della promozione sociale delle classi subalterne.
Quest’anno, in dicembre, Grace Paley sarebbe arrivata ai cento anni, facendo così il giro completo di un secolo che le appartiene di diritto, tanto per l’importanza unanimemente attribuita alla sua opera all’interno del processo di rinnovamento dei temi e delle forme, quanto per la specificità della sua voce, di una lucidità rara, senza data di scadenza. L’incisività di questa voce non smette di rinnovarsi con il passare dei decenni, senza pagare pedaggio al tempo, che tutto ingiallisce e accartoccia, tranne ciò che rimane vivido nella memoria, come gli amori e gli scalcagnati affanni delle creature di Paley, un’umanità vivace e multiforme, scossa e incalzata da rotture e rinnovamenti che appartengono al mondo di ieri come a quello di oggi. Alcune delle frasi che Grace Paley ha usato per condensare la quotidianità faticosa delle persone, spesso sconfortante quando non deludente, sono ormai diventate patrimonio comune di molte generazioni di lettori. Un esempio fra tutti, l’incipit “Un anno a Natale mio marito mi regalò una scopa”, del celebre racconto “Un minimo d’interesse”, ora raccolto nel volume, edito da SUR e tradotto da Isabella Zani, Tutti i racconti, di cui ho scritto qui.
Proprio a Zani, al suo gusto e alla sua accortezza, SUR ha affidato anche le quarantuno poesie della preziosa antologia Volevo scrivere una poesia, invece ho fatto una torta, che raccoglie testi scritti da Paley durante gli ultimi anni della sua vita. È preziosa perché molti componimenti erano finora inediti in Italia; Zani li ha tradotti insieme a Paolo Cognetti, già traduttore, insieme a Livia Brambilla, di un altro volume di poesia dell’autrice statunitense, Fedeltà, pubblicato una decina di anni fa da minimum fax. L’uscita di Volevo scrivere… permette quindi di compiere un ulteriore passo verso l’inquadramento di Grace Paley all’interno di quella schiera di maestri della letteratura che ha trovato nella scrittura in versi le chiavi – uno sguardo sul mondo e un metodo – per trattare la forma racconto, così segreta e ripiegata su se stessa, parafrasando l’argentino Cortázar, le cui parole invitano a citare di nuovo Bulgheroni, che definì la scrittura di Paley “densa di enigmi”.
C’è sempre stata la poesia nella vita di Grace Paley, non solo per il suo marcato senso della forma, che viene anche dalla scrittura in versi, a cui si avvicinò fin da giovane, ma perché la scrittrice ha sempre usato questa parola anche nel suo significato più ampio, di processo compositivo nella sua completezza, il che significa dall’attento ascolto del dato umano fino alla sua messa in forma. Ciò è possibile, nel caso di Paley, attraverso un tipo di scrittura che ha sempre in sé il senso etico di un uso competente della lingua, perché informato ai principi della defamiliarizzazione e perciò consapevole anche dei rischi legati all’uso degli elementi idiomatici. L’autrice li padroneggia – “potreste prendermi per una / delle persone titolari di questa / lingua [...]” (p. 123) – eppure non si tratta solo di questo, perché Paley non prende scorciatoie e va oltre, scongiurando il rischio del senso comune attraverso l’elemento umoristico sostenuto sempre da una partecipazione attiva alle umane sventure.
Le poesie di Paley, colei che ha fatto dell’enjambement una figura della possibilità più che della rottura, hanno lo stesso incedere dei suoi racconti, e viceversa. È lei stessa, in Volevo scrivere…, a suggerirci l’adiacenza e la permeabilità tra poesia e racconto: “E adesso prosa // Trovare il paragrafo che / tenga ferma la poesia / per sei o otto pagine [...]” (p. 41). Nel caso di Paley si è trattato, per molti decenni, la durata di una vita intera, per sei o otto pagine alla volta, con tenacia, di non perdere la poesia, il che significa, da un lato, rimanere con l’orecchio teso ai bisbigli delle madri, al vociare dei padri e agli schiamazzi dei vicini, per sottrarli al qui e ora dove tutto evapora e per trasmutarli in finzione. Dall’altro, non spezzare mai il fragile, perché delicatissimo, legame di se stessa con se stessa, nella consapevolezza che l’uomo, in senso universale, innanzitutto assorbe, come la carta in cui si avvolge la fetta di torta regalata ai propri cari, da portare a casa, per la colazione dell’indomani – e che “[...] la stanchezza è / normale anzi perfino opportuna / alla fine del giorno” (p. 117).
Ciò che rimane dei giorni, alla fine del giorno, vale a dire il perduto che la poetessa riesce a trattenere, su cui lavora durante il suo personale processo di sedimentazione che dell’umano eleva i limiti ancor più delle virtù, fa sempre i conti con la possibilità del superamento di tali limiti. Nelle poesie di Volevo scrivere… c’è la fatica del sottrarsi: mantenere la concentrazione, non lasciarsi distrarre dalla superficie, o meglio, lavorare nel profondo stando in superficie, per questo motivo l’intera operazione non si risolve mai nella legittimazione di una condizione di separatezza delle ragioni letterarie. Da una parte la responsabilità della scrittura, che ha a che fare con il futuro; dall’altra il presente, che per Paley è il tempo degli affetti e della militanza: “Ho un’avidità terribile, non mi piace rinunciare alla famiglia per scrivere. Non mi piace rinunciare a scrivere per la famiglia. Non mi piace rinunciare alla politica per andare alle feste di famiglia e non mi piace sentire la mancanza dei miei nipotini solo perché devo finire un pezzo”. Allora perché è necessario ipotecare ogni volta ciò che appaga e potrebbe già bastare? Nella poesia “La sporadica alternativa della poetessa”, da cui provengono i versi che per i lettori italiani sono anche il titolo del libro, l’autrice si pone questa domanda, scegliendo, tra la scrittura di una poesia o la preparazione di una torta, la seconda opzione, perché “la torta aveva già un suo / pubblico vociante e capriolante tra / camioncini e un’autobotte dei pompieri sul / pavimento della cucina” (p. 55). Ce la immaginiamo ai fuochi, ma la torta diventa subito qualcos’altro, un termine in codice, la metafora dell’impasto creativo. In un’altra occasione, infatti, Paley sembra propendere per l’altra alternativa, quella per cui è necessario esercitare la perseveranza confidando nei giorni e negli anni: “Forse le poesie le scrivi perché vuoi allargare il tuo mondo e aiutarlo a splendere [...] le cose non migliorano granché, ma si sente un suono nel mondo”. Non è indecisa sul da farsi, al contrario: Grace Paley vuole tutto. Il suo stato di ricerca, la sua condizione di poetessa, non sono separati dal mondo, lo implicano, partono da esso per tornarvi: la poesia è nei giorni e l’altrove è qui, nei quotidiani contrattempi del tempo minore.
Precisazioni bibliografiche
Entrambe le citazioni di Marisa Bulgheroni provengono dal libro Chiamatemi Ismaele, Il Saggiatore, 2013, rispettivamente a p. 198 e a p. 199; la prima dichiarazione di Grace Paley, quella in cui parla della sua “avidità terribile”, viene dal libro di Annalucia Accardo, L’arte di ascoltare. Parole e scrittura in Grace Paley, Donzelli, 2012, si trova a p. XIX; la seconda, in cui spiega perché scrive poesia, è contenuta in “Responsabilità e felicità: Conversazioni con Grace Paley”, a cura di Edward Lynch e Alessandro Portelli, in Ácoma, num. 5, 1995, p. 47.