Semplicità / Enzo Mari in Triennale
Nel 1971 Enzo Mari progetta un divano letto con una struttura costituita da profilati d’acciaio e imbottiture di poliuretano espanso. Si chiama Day-Night. Semplice, elegante, efficiente: basta un piccolo spostamento e si trasforma da divano di casa in letto singolo: una rotazione. Lo disegna per De Padova. L’imprenditrice che lo ha commissionato lo trova bello, ma decide di non produrlo. Enrico Astori, fondatore di Driade, che non ha una fabbrica, lo accetta e lo mette in produzione. Per quanto sia promosso in modo efficace, il divano resta invenduto. Non incontra il gusto del pubblico e Mari accusa il colpo. Scrive che il pubblico lo rifiuta “in quanto non lo riconosce come facente parte del sistema culturale”. La ragione pratica l’individua poi nel suo costo: troppo basso, si guadagna troppo poco con questo mobile. Riflette: gli oggetti di buon disegno offerti a prezzi bassi risultano “poveri” e non rappresentano uno status symbol per nessun consumatore. Sono trascorsi pochi anni dal Sessantotto studentesco e dall’autunno caldo, a cui Mari ha partecipato con la passione di un giovane, anche se ha passato i trent’anni.
Sino a quel punto ha realizzato opere pittoriche, esperimenti visivi e concettuali, una serie di oggetti per Danese, copertine e interni per libri, sedie, allestimenti modulari per esposizioni e librerie. Si trova in un punto decisivo della sua carriera di designer, dopo aver cominciato e interrotto quella di artista e pittore. Riflette lungamente su quel fallimento, che gli pare emblematico, come racconta a Hans Ulrich Obrist. Intanto il divano è finito nel suo studio dove passano a trovarlo alcuni dei leader del movimento studentesco per cui Mari simpatizza. Il giudizio dei giovanotti sembra unanime: ma tu che fai oggetti così eleganti, gli chiedono, come mai hai progettato un mobile così brutto? Il designer interroga i suoi ospiti su come immaginino un divano letto. Le risposte descrivono un letto che somiglia a quelli prodotti in Brianza per gli sceicchi arabi: rotondo, diametro quattro metri, specchio superiore, televisore, filodiffusione. Il tutto gli provoca un gran nervoso. Come mai le persone, si domanda, capiscono il prosciutto, il parmigiano-reggiano e un certo tipo di vino, ma non un mobile? Capiscono le cose che sperimentano di persona, si dice, ma non la forma, confondono la forma con il formalismo. Pensa: ma se le persone facessero delle cose con le loro mani, un oggetto, un vaso da fiori, una sedia, una scarpa, forse starebbero più attente, migliorerebbero il loro gusto? Da quel fallimento nasce una delle esperienze-oggetto più importanti per cui Mari è ancora oggi ricordato: l’Autoprogettazione (si veda il volume ristampato da Corraini ).
Sceglie degli strumenti di produzione: chiodi e martello; il materiale: tavola di legno; la cultura tecnica: carpentieri e operai scenografi. Pensa quindi a una serie di modelli di sedie, tavoli, letti, panche, armadi e librerie. Non li disegna, realizza invece i modelli. L’unico criterio è la loro solidità. Nessun discorso formale. Arriva a sintetizzare 19 modelli da realizzare per una Proposta e ne definisce i disegni tecnici. Poi vengono realizzati, così da corredare il progetto di fotografie degli oggetti. L’idea di Mari può essere fraintesa, ma lui precisa: non è una proposta autarchica, pre-industriale; si tratta di autoprogettazione non di una autorealizzazione, così ciascuno può introdurre, se vuole, delle varianti. Ne parla ai giornali, ad esempio a “Paese sera”, e spiega che spedirà il catalogo completo di tutto a chiunque ne farà richiesta, basta che sia inserito nella busta il necessario per l’affrancatura di risposta e che chi lo riceve s’impegni a non fare oggetti per fini commerciali. Riceve nel 1974 migliaia di richieste, lettere con fotografie dei lavori realizzati: oltre 5.000 missive. Com’è accaduto al suo magnifico divano letto, il progetto è stato in parte frainteso da molti, letto come l’ulteriore segno del francescanesimo di Mari, del suo stile anticonformista, mentre Mari non è mai stato né anticonformista né rivoluzionario. Nell’ intervista del 2009 in cui è tornato sulla storia del divano e del Progetto che ne è seguito, dice di essere piuttosto “un po’ folle”, e di non essere quel radicale che sembra; si autodefinisce un riformista.
Ha perfettamente ragione, non tanto in senso politico, ma in senso sociale. La domanda che da un certo punto in poi Mari si è posto è: “Come posso influire sul gusto delle persone?”. Dice influire, non modificare o rivoluzionare. Lui ha sempre pensato all’autoprogettazione come un progetto di sé stessi, così che ha coltivato anche nel proprio lavoro l’aspetto intellettivo, come le conseguenze che andava cercando di provocare nella mente degli altri. Progettare, lo ha ripetuto sino all’estenuazione, significa pensare e ripensare. Lo aveva capito tra i primi Paolo Fossati in un libro pioneristico, Il design in Italia 1945-1972 (Einaudi), dove ha parlato dell’aspetto linguistico di Enzo Mari, meglio: metalinguistico. Questo significa che il designer milanese, morto pochi giorni fa a ottantotto anni, ha sempre lavorato prima di tutto con il linguaggio, anche se nella mostra aperta alla Triennale di Milano, a cura H. U. Obrist e Francesca Giacomelli (di Obrist si segnalano le varie interviste in apertura del volume pubblicato da Electa), quelli che si vedono sono oggetti, forme, quadri, immagini. Se si guarda bene l’esposizione, si capisce che la spina dorsale della mostra sono i tavoli autocostruiti su cui stanno le “Piattaforme di ricerca”, come le chiama Mari, che Giacomelli ha curato con grande perizia e precisione. Sono 19 spazi dove si è concentrata la ricerca formale del designer mediante immagini, disegni, didascalie, testi, cui ha dedicato negli ultimi dieci anni della sua vita una grande attenzione, e che vanno dalle ricerche sull’ambiguità percettiva condotta durante gli anni dell’Accademia a Brera e anche dopo, alla “Wunderkammer intellettuale”, come la chiama, ovvero l’archivio analogico: risme di carta con appunti, schizzi, elenchi di vari autori, su cui sono posti sessanta fermacarte del 2009.
I 19 spazi non sono un’autocitazione, bensì la raccolta sistematica del suo fare linguistico: i “codici del suo metodo per capirne la struttura semantica”, scrive Giacomelli. Da questi lunghi tavoli e stretti si evince l’istanza politica di Mari che non è consistita nelle dichiarazioni ideologiche provocatorie – anche quelle naturalmente – quanto nel dare una forma al suo stesso lavoro, che è stato politico nel senso forte del termine. La mostra è composta di tantissimi oggetti, alcuni davvero magnifici, oggetti di design, ma anche opere grafiche e opere spaziali, che sono certamente quelle per cui Mari verrà ricordato. Come dimenticare la Serie Putrella del 1958 per Danese, consistente in un vassoio in ferro, tratto appunto da un pezzo di putrella con le estremità leggermente arcuate. Francesca Giacomelli scrive che “Mari è un costruttore di grammatiche, un inventore di linguaggi”, e che “reputa questi strumenti necessari “a migliorare la qualità e l’efficacia di comunicazione della conoscenza”. Mari è stato un designer nell’epoca in cui il design si è dissolto a vantaggio delle forme immateriali, perché è un designer del pensiero prima ancora che degli oggetti. Il suo è un modo di pensare e progettare perfettamente consono all’esperienza attuale, come dimostrano i Libri mastri, dove ha raccolto tutti i codici e le potenziali coordinate per compiere il periplo delle discipline del suo lavoro: i suoi lavori in ordine cronologico, realizzati e non realizzati nel corso dei quasi settant’anni di attività, un archivio del proprio archivio. Se non si capisce l’aspetto metalinguistico di Mari non si comprende l’estrema contemporaneità del suo lavoro, e soprattutto l’importanza che per lui ha la forma.
In un’epoca in cui il Kitsch è diventato lo stile preponderante in arte, letteratura, moda e design, Mari è riuscito ad essere l’anti-kitsch, o il senza-kitsch per antonomasia, un nemico dell’ornamento senza tuttavia rinunciare al piacere estetico. Quando nel 2008 fu invitato a Torino alla Galleria d’Arte Moderna per realizzare una mostra della sua opera, di cui testimonia un inconsueto catalogo (L’arte della forma, Federico Motta editore), volle discriminare all’interno del suo stesso lavoro la qualità della forma dalla non-qualità del formalismo. Al riguardo ha scritto che la qualità della forma emerge indipendentemente dagli aspetti tecnici, da quelli del mercato, dalle mode, e che quando la qualità della forma c’è, “colpisce al cuore”. Una dichiarazione impegnativa, che si sostanzia nella sua incredibile capacità di stupirsi per le cose semplici. Chiama i suoi amici e i collaboratori a indicare tra tutti i progetti quelli che li avevano emozionati. Ne scaturiscono 250 opere tra le quasi 2000 che ha prodotto; poi diventano 20 e come tali figurano all’inizio del volume con accostamenti davvero inconsueti e rivelatori. Questo è il suo Progetto globale tra architettura, design, grafica, didattica, riflessione filosofica ecc. Ora questa mostra ripensata ed elegantemente disposta nelle grandi sale della Triennale è visitabile e godibile da tutti. Una rassegna che distingue i progetti nati dall’esigenza dell’autore di indagare la forma, oppure di contestare la realtà, e quelli nati da una precisa richiesta e contrattazione con le imprese di produzione o altri enti.
La semplicità resta lo stigma di questo artista-filosofo-designer. In un libro popolare, e insieme intelligente, Design Classic edito da Phaidon all’inizio degli anni duemila, con i 1000 oggetti più importanti prodotti al mondo secondo un team internazionale di esperti, Enzo Mari vi figura con nove oggetti, Bruno Munari con tre e Vico Magistretti sette. Sono due calendari perpetui, segno della sua ossessione per il tempo; un cestino di carta e una fruttiera, oggetti umili di casa; un vassoio e una sedia, presenze quotidiane; una scatola, niente di più semplice e usuale; e infine un gioco per bambini. In questo ultimo campo, quello del gioco, Mari, grazie alla collaborazione con la moglie Iela e il fratello, Elio, alle invenzioni grafiche e progettuali, e usando anche il linguaggio delle parole, è un grande pedagogista, migliore di tanti altri laureati in questa disciplina inafferrabile, che necessita empatia, fantasia e invenzione. Del resto, Mari è stato per gran parte della sua vita un perfetto adulto bambino. Il più bell’oggetto della sua carriera è probabilmente 16 Animali, un puzzle di 16 forme del 1957 per Danese: sono 16 animali dal cane al serpente, dal canguro al maiale, ricavati da un’unica tavola di legno. Un oggetto, un gioco, un sistema di relazioni, un’Arca di Noé, un incastro, un esploso, e altro ancora. Niente è stato per Enzo Mari così serio come il gioco, a partire dal gioco linguistico in cui è stato, con i suoi modi ruvidi, diretti e secchi, un maestro intramontabile.
Questo articolo è uscito in forma più breve su "la Repubblica Online", che ringraziamo.