Non basta leggere / I libri non danno la felicità
Si narra dalle mie parti che un uomo sia stato visto, un giorno, con in mano la pagina capovolta di un quotidiano. A chi glielo faceva notare, rispondeva: «Uno che sa leggere, sa leggere anche alla rovescia». Fingeva per darsi un tono intellettuale, è chiaro, ma era analfabeta. Nella sua pittoresca verità quest’aneddoto si coniuga bene con l’assunto da cui si origina il ragionamento che Luigi Mascheroni conduce in questo suo Libri. Non danno la felicità (tanto meno a chi non li legge) (Oligo, p. 40, euro 12): sfatare l’opinione che sia importante leggere a prescindere da cosa, che cioè non occorra selezionare, purché si stia con un libro in mano. Non c’è nulla di più falso e ipocrita di questa affermazione, sottolinea l’autore di questo agilissimo pamphlet, perché, quando pensiamo a un quadro di riferimenti nei quali il libro assume una precisa fisionomia – non è intrattenimento, non è evasione, non è esibizione di sé –, bisogna scegliere, dividere il grano dal loglio e, in altre parole, leggere bene.
Il sospetto che la proposta avanzata da Mascheroni sia la rivincita di un crocianesimo declinato in chiave postmoderna può avere una sua credibilità. Come l’antica distinzione tra poesia e non-poesia con cui Benedetto Croce apriva il Novecento, anche il nostro tempo impone la necessità di operare dei distinguo. Il che non si traduce nell’ipotesi di stabilire gerarchie o di creare classi di appartenenze, ma certo obbliga a fare i conti con il mercato. Non sono persuaso che Mascheroni in queste pagine abbia voluto resettare tutta la cultura di un secolo in cui si è modificato lo statuto di editoria, spostando l’impostazione da uno stadio di artigianalità a un livello decisamente industriale, dove a guidare le scelte è il mercato. Ma il suo occhio è puntato a sfatare i falsi miti che le convenzioni si portano dietro. Il tema ha evidenti caratteri provocatori ed è senza dubbio uno degli argomenti più attuali in tempi di crisi come quelli che stiamo attraversando. Esiste una retorica legata all’esercizio del leggere, questo in sostanza è il dato da cui comincia l’arringa di questo testo, tanto fastidiosa quanto inopportuna, che spesso alligna perfino in luoghi come le istituzioni scolastiche, designate per statuto a incentivare la cultura.
Proprio lì, infatti, pur di avviare studenti alla lettura, si è disposti a venire a patti con i loro gusti da fast-food, a proporre loro opere di più scadente fattura ma coccolate da un sapore mainstream che non inquieta nessuno e nemmeno turba, anzi mette tutti d’accordo, docenti e studenti, nella comune convinzione che basti avere tra le mani un libro per essere considerati lettori e, dall’altro lato, aver promosso la lettura e sentirsi con la coscienza a posto. Siamo soltanto alla prima di questa apologia dell’antiretorica, ma non è che il preludio di ciò che si professa nelle pagine successive, dove si smonta sistematicamente l’idea che i libri rendano migliori, che godano di una intoccabilità sacrale, che siano un prodotto non avulso dalle regole del mercato e che sarebbe un orrore trattarli come merce.
I libri sono merce, di tipo particolare s’intende, ma oggetti destinati a un pubblico – l’aveva capito Aldo Manuzio agli albori della civiltà tipografica – e sarebbe un errore volerli proteggere dalla libertà che ciascun lettore ha l’obbligo di esercitare, così come si è stato ricordato, con persuasiva provocazione, da Daniel Pennac in Come un romanzo (1992). Certo, in Libri non si vuole minare alla base l’istituto della lettura come strumento pedagogico e come veicolo per il riscatto umano, soltanto precisare che anche all’interno di questo mondo frutto di creatività e di fatica si annida un labirinto di contraddizioni, per cui non sempre è facile riconoscere dove finisce il bene e comincia il male e viceversa. «Adolf Hitler, le cui squadre di SA appiccarono i roghi più tristemente famosi del Novecento» – ci ricorda Mascheroni in uno dei passaggi – «leggeva un libro a notte, adorava i libri, li collezionava e portò una biblioteca di sedicimila volumi persino nel bunker della disfatta». Non diamo per scontata l’idea che l’edificio della civiltà si eriga attraverso qualsiasi mattone che ha forma di carta e contiene parole. Potenzialmente è così, ma occorre anche su questo comprendere che la linea di demarcazione è nient’affatto lineare, che ci sono opere adatte a costruire e altre a demolire, che soltanto le prime diventano mattoni di civiltà.
Ragionando per paradossi, Mascheroni giunge a individuare quella che egli stesso definisce «bibliocastia», una sorta di iconoclastia dei libri, cioè un’ostilità distruttiva, proprio in coloro i quali avrebbero tutte le caratteristiche per svolgere la funzione di presidio: «A ordinare il rogo del patrimonio scritto dei Maya e degli Aztechi, nel Messico del 1562, fu il vescovo cattolico Diego de Landa, raffinato studioso di tale civiltà. Mao tse-Tung, la cui rivoluzione culturale annientò in Cina un intero popolo, lavorò nella biblioteca dell’Università di Pechino. Pol Pot, che in Cambogia sterminò chiunque portasse un paio d’occhiali, perché leggere era un crimine, studiò alla Sorbona, a Parigi». La lista prosegue con nomi di casi eccellenti ed è la conferma che leggere non sempre rende migliori, che spesso anzi i peggiori nemici della cultura sono proprio i nuovi chierici, gli intellettuali che Julien Benda, un centinaio di anni fa, etichettò come traditori. Penso che Mascheroni non sia un apocalittico, ammesso che si possa applicare la classificazione di Eco a questo presente.
Sono convinto che la traiettoria del suo discorso non accarezzi il senso del rifiuto, né si compiaccia di urlare il vocabolario della fine, però certo egli pone questioni che implicano una ricaduta sul piano etico e riposizionano i libri al centro di un progetto costruttivo, non distruttivo. In ciò il suo pamphlet trova un ideale raccordo con ciò che Franco Antonicelli pronunciò mezzo secolo fa, mentre inaugurava la Biblioteca dei Portuali, a Livorno, il 15 ottobre del 1967: «Cercate sempre i libri che tormentano, cioè che vi conducono avanti, i libri che vi gettano lo scrupolo di coscienza, i libri non di fede accertata ma di fede incerta». Le letture tendenziose – questo il titolo del piccolo volume in cui il testo è raccolto (Introduzione di Norberto Bobbio, edizioni e/o, p. 96, euro 8) – è un manifesto di civiltà, un invito pronunciato davanti a un pubblico minore (i portuali) nella ferma convinzione, manifestata da una voce con un retroterra culturale di altra natura rispetto a quello a cui attinge Mascheroni, che i libri non possono avere il medesimo valore e che nel formare una biblioteca è necessario operare differenze perché – suggerisce Antonicelli – «chi legge deve leggere con uno scopo», perciò – aggiunge – «vi ho suggerito letture tendenziose».
Torniamo dunque nel punto iniziale, all’incrocio pericoloso da cui si dirama l’ipotesi di una fruizione cosciente degli strumenti culturali, nettamente separata dall’arrogante invadenza di pseudo-testi (autobiografie, romanzi, saggi) usciti dai computer di chi Raffaele La Capria ha definito “scrittori alieni” sul «Corriere della Sera» del 14 gennaio 2013: calciatori, cantanti, attori, presentatori, comici, politici, influencer, imprenditori... A nessuno va tolto il gusto di narrare o di narrarsi e può diventare perfino curioso interrogarsi su come mai chiunque faccia parte del «vasto popolo delle celebrities», come li circoscrive Mascheroni, di punto in bianco decida di mettere mano a un proprio libro. Vanità? Narcisismo? Desiderio di autoesposizione? Tutto vero. Ma non basta pubblicare un libro, ci vuole qualcosa che lo faccia sollevare ben oltre il rango di letteratura da supermercato.
Occorre il riconoscimento critico, recensioni, premi. Su questo interviene un fattore non così secondario, che a mio giudizio riporta il discorso a Benedetto Croce. Il cinema, la tv, la canzone, i media sono strumenti di gran lunga più efficaci nel moltiplicare l’aura di successo a ritmi e su frequenze più estese rispetto alla sfera di influenza di un libro, perciò suona quasi strano che un divo del cinema o della canzone dirotti sulla tastiera del computer una parte del suo tempo semplicemente per riempire fogli bianchi. Se ciò avviene (e, visti i dati, avviene con una frequenza insospettabile) probabilmente è perché nonostante la crisi, nonostante la concorrenza di scritture digitali e di social, si continua a riconoscere nel libro (nella sua forma, nella sua funzione di oggetto destinato a una spazialità misurabile) una tradizionale superiorità rispetto ad altri strumenti in cui far circolare messaggi con un raggio d’incidenza numericamente più dilatati ma dagli effetti più evanescenti, più liquidi rispetto al valore della carta stampata e del suo peso tipografico.
Preferiamo non ammetterlo, ma siamo ancora imbevuti di suggestioni crociane, tendiamo a separare manifestazioni culturali alte e manifestazioni culturali basse. Difficile stabilire che siano questi i presupposti di tanta produzione “aliena”, la cui ipertrofia molto spesso nuoce allo stesso mercato editoriale, però non sarebbe la prima volta che la tanta deprezzata tradizione culturale si prenda la rivincita sulle nuove forme di comunicazione. In fondo, avere il proprio nome stampato sulla copertina cartacea – e sottolineo cartacea, non digitale – è un bel modo per assicurarsi una piccola porzione di eternità promessa, il passaporto per la posterità. I tempi passano, le forme mutano, ma quel che cercano gli uomini stava già scritto nell’ode III di Orazio: «Exegi monumentum aere perennius».