Libri fantasmi
Chiunque abbia un po’ di dimestichezza con il mondo dei libri sa benissimo che le storie non sono soltanto contenute dentro le pagine, ma anche intorno a esse, in quel vuoto morbido e pneumatico che circonda le copertine, il dorso, il titolo, la bandella e non sempre arriva alle orecchie del lettore, anzi il più delle volte rimane alla periferia di quel che il lettore recepisce. Frequentare una biblioteca, muoversi tra gli scaffali di una libreria dove sono conservati volumi vecchi e nuovi, come fa Andrea Kerbaker con La vita segreta dei libri fantasmi (Salani, 2023, p. 160), può diventare l’occasione per attraversare certe curiose vicende editoriali prendendo parte al grande gioco della letteratura che da sempre vive al bivio tra il tempo della Storia, il lavoro degli individui e quella che gli antichi chiamavano fortuna.
I libri, come gli esseri umani, ricevono il proprio destino al momento della nascita, a volte anche prima, in quell’inconsapevole non-vita che ne accompagna la pubblicazione, ne pregiudica la fortuna e non si sa fino a che punto sarebbe auspicabile che questo loro essere fantasmi non sia un’avventura così rara come sospettiamo, piuttosto un’anomalia che si ripete di frequente, come se la storia della letteratura mondiale comprendesse anche simili irregolarità. Di fatto essa le contiene. Non è, a suo modo, un fantasma la Commedia che ci viene tramandata dai copisti? E non sono fantasmi i poemi attribuiti a Omero? Il confine tra verità e finzione davvero non conosce limiti e Andrea Kerbaker, che negli anni ha costruito, mattone dopo mattone, la Kasa dei Libri, conosce bene i meccanismi di una filologia tanto severa quanto ludica, capace di giocare a nascondino con le stramberie di una certa aneddotica editoriale senza lasciarsi invischiare nelle gravose ricostruzioni di genealogie e di varianti.
Innanzitutto bisogna intendersi bene sulla qualifica di fantasmi: una categoria spesso ignorata dagli studiosi, talvolta confusa con quella dei libri perduti, ma non necessariamente coincidenti. Non tutti i libri possono esserlo, anzi è un privilegio che tocca a quei pochi che subiscono una vicenda travagliata. Prendiamo il caso di Vitaliano Brancati. Nel 1928, quando il fascismo è già una realtà ampiamente nota, pubblica due opere teatrali dai toni fascistissimi. Everest, la prima delle due, appare presso uno sconosciuto stampatore di Catania, lo Studio Editoriale Moderno, e si annuncia addirittura con una prefazione firmata da Telesio Interlandi (il direttore del «Tevere», autore della Difesa della razza): «Una società umana dell’avvenire vive nel clima ideale creato dagli italiani di Mussolini; ha le sue radici morali in quel lontano tempo e tende, con le sue estreme vette, a una cima, su cui si scoprirà il segno del Condottiero».
L’altra, Piave, si ambienta al tempo della disfatta di Caporetto e ha, tra i personaggi, un impavido sergente Mussolini che non teme la morte in battaglia. Non è difficile trovare le ragioni per cui entrambe le pièces siano state oggetto di rimozione da parte dell’autore, tanto da non figurare nell’edizione complessiva di tutta l’opera nella collana dei Meridiani. Il caso Brancati è soltanto uno dei tanti, presenti in questo libro, che andrebbe annoverato tra i fantasmi per colpa non tanto sua, quanto della storia novecentesca. Se gli esiti del 25 aprile fossero stati diversi, probabilmente il destino delle due pièces sarebbe stato tutt’altro. Gli scenari non cambiano se si pensa a quel che avviene al grande scrittore russo Vasilij Grossmann che nel 1946, prima ancora di comporre il suo capolavoro, Vita e destino (scritto nel 1959 ma uscito postumo, un’epopea dell’anticomunismo che segue di appena due anni Il dottor Živago), pubblica sotto il titolo Armi di guerra le corrispondenze dal fronte redatte come inviato per il giornale dell’esercito.
Di questo libro esiste una prima traduzione francese integrale, completa quindi dell’intero corredo che apparteneva alla propaganda staliniana, poi una seconda traduzione con diversi tagli e censure, uscita nel 1993, infine una terza, del 2021 (identica a quella del 1993). Sarà anche vero che ogni parola è figlia dell’epoca in cui viene scritta, ma è altrettanto vero che alcune di esse assomigliano a quei cadaveri ingombranti di cui spesso gli assassini, nei gialli, non riescono a liberarsi tanto facilmente. I casi di Brancati e Grossmann sono forse i più comuni della categoria, i più regolari nella casistica di questo genere. Assai più curioso invece risulta quel che accade a Mark Twain. Sette anni dopo la sua morte, avvenuta nel 1910, arriva in libreria Jap Herron, un romanzo postumo, curato da una giornalista di St. Louis che sosteneva di averlo trascritto sotto dettatura, durante le sedute spiritiche in cui, tramite una medium, entrava in contatto con il grande romanziere americano.
I sospetti non tardarono a manifestarsi, considerando che il libro era lungo duecentocinquanta pagine e che, per comporre una singola parola, un pezzo di legno si spostava tra le lettere dell’alfabeto. Ma era soprattutto la figlia di Mark Twain a non gradire la pubblicazione dell’opera di suo padre, tanto da arrivare a muovere causa contro la giornalista di St. Louis con uno stratagemma degno del migliore Sherlock Holmes: o si trattava di una clamorosa invenzione (dunque di un falso e, come tale, perseguibile nei termini di legge) oppure, ammesso che fosse vera la notizia della dettatura durante le sedute spiritiche, la trovata era una semplice violazione del diritto d’autore, che spettava, appunto, alla figlia. In un modo o nell’altro, l’edizione andava ritirata dal mercato, cosa che accadde puntualmente. Anche in questo caso, però, far sparire tutta la tiratura di un’edizione non era un’operazione che poteva assicurare totale successo. Qualcosa rimane sempre in giro.
Quel che è certo, però, è che all’etichetta di libro fantasma corrisponde assai più la storia di Twain che di Brancati, se non altro per la sua stravagante circostanza in cui sarebbe avvenuta la composizione. Il che non esclude che non possa essere vero, trattandosi di una materia come la letteratura, che dovrebbe propendere verso le regole dell’immaginazione anziché quelle delle mimesi. Il caso vuole che dentro questa divertente galleria di libri/non libri ci siano anche esemplari congedati da autori totalmente inesistenti. Prendiamo Sesso, scritto da un certo Stephen Blacktorn, uscito nel 1970 per i tipi di Dellavalle, un editore di Torino specializzato in pubblicazioni erotiche. Il testo è una specie di inventario, organizzato per ordine alfabetico, di oggetti e di definizioni che riguardano l’erotismo praticato da androidi, in un futuro che appartiene alla fantascienza.
Al di là del contenuto, ci sono molti altri aspetti che incuriosiscono, a cominciare dal fatto che, anche se questa del 1970 viene presentata come traduzione, manchi un’edizione in lingua inglese di questo libro, cioè di quella che a tutti gli effetti sarebbe da considerare come la princeps. Se poi si considera che prefatore e traduttore è Sebastiano Vassalli, autore due anni dopo di un libro molto simile – anche in questo caso una sorta di inventario di vite aliene, De l’infinito, universo e mondi. Manuale di esobiologia, scritto per Einaudi ma uscito solo nel 2018 per i tipi di Hacca editore – il sospetto che sotto lo pseudonimo di Stephen Blacktorn si nasconda l’autore della Chimera diventa altamente credibile. Anche in questo caso si tratta di un’ulteriore, successiva declinazione della nozione di fantasma, ottenuta non con le medesime ragioni e gli stessi effetti di un’edizione ripudiata, ma obbedendo a quel precetto che Mario Pomilio – chissà se nella Kasa di Libri c’è qualche aneddoto che lo riguarda? – ha riassunto in una pagina di autoesegesi in cui, illustrando come ha lavorato al suo Il quinto evangelio (1975), dichiarava la scrittura letteraria un’«industria del falso».