Il tempo che scorre / Le pianure di Federico Falco
«Nelle pianure il tempo è ingannevole. La danza circolare dei raccolti. Sembra che il tempo non passi, che tutto nasca e ricominci, sembra che non si invecchi. Il vuoto produce. I raccolti lo riempiono».
Ho scoperto la scrittura di Federico Falco – argentino di origine italiana come quasi tutti, di origine piemontese come molti – qualche anno fa quando ho letto i suoi racconti, editi da Sur, con il titolo di Silvi e la notte oscura, tradotti da Maria Nicola. Ne sono rimasto molto colpito, li ho letti proprio mentre mi trovavo in Argentina, sul traghetto che fa la spola tra Buenos Aires e Montevideo; perciò, – verrebbe da dire – mi trovano nel posto giusto, ma non sarebbe un’affermazione del tutto corretta.
I racconti di Falco erano diversi. Pur essendo attraversati dal mistero e dalla forza letteraria che è tipica della narrativa argentina, si presentavano sotto una luce nuova, parevano venire da un altro posto, non erano ambientati a Buenos Aires, non a Rosario, non a Cordoba. Le storie si svolgevano in luoghi lontani, nei boschi, appena sotto le montagne, a volte tra la neve e la strada. I personaggi erano magici ma non somigliavano a nulla, più colline che case, più tradizione che leggenda, più ossessione che passione, più fuga che desiderio. Non volavano come i bambini di Silvina Ocampo, non si dissolvevano in loro stessi come i personaggi di Onetti; scappavano da una casa di riposo, da una condanna familiare, da un ricordo, da un matrimonio concordato, dal tormento di vedere ogni giorno la stessa gentilezza, lo stesso fiore. Ricordo a distanza di tempo molto bene quei racconti, qualche passaggio, succede quando la letteratura ci tocca; perciò, attendevo con molta curiosità l’arrivo di un nuovo libro di Falco, non sono rimasto deluso. Per Sur, qualche settimana fa, è uscito Le pianure (sempre per la traduzione – molto bella – di Maria Nicola), e si tratta di un romanzo bellissimo.
«Devo lasciare che il paesaggio mi riempia e mi insegni. Devo imparare a guardare e non cercare di impormi».
Federico Falco è nato in provincia di Cordoba nel 1977, è considerato uno degli scrittori più interessanti della sua generazione, anch’egli inserito, nella ormai nota selezione fatta dalla rivista Granta qualche anno fa, tra i migliori scrittori in lingua spagnola sotto i 35 anni, come molti altri di cui ci siamo occupati qua su Doppiozero. Con Le pianure, Falco amplia il campo da gioco della sua scrittura, lo sguardo si allunga sulle campagne e vaga fino a che l’occhio non si perda, diventa tutto più complicato perché il personaggio è uno, è solo, è il narratore.
Federico, uno scrittore, dopo la fine inaspettata (per lui) di una lunga storia d’amore con Ciro, decide di lasciare Buenos Aires e di trasferirsi in campagna, nel cuore della Pampa, per provare a ritrovarsi, a ricominciare, vivendo dei frutti di un orto improvvisato, di una coltivazione che imparerà man mano, insieme a moltissime altre cose.
«Ci parliamo per mezzo di storie, di aneddoti, di racconti. Un modo di non parlare. Un modo di farci compagnia».
L’isolamento a volte può essere la salvezza, oppure il tentativo che più le somiglia. Scegliere un luogo distante da tutto, misurarsi con attività mai svolte. Soffermarsi sul semplice incedere del tempo, guardare davvero come cambia la luce a seconda delle stagioni, cosa significhi un periodo di pioggia in campagna, cosa vuol dire il troppo sole, a cosa serve il vento. Apprezzare il vuoto, la noia, le poche chiacchiere con un vicino. Guardare le vacche, i maiali, sentirli di notte, decidere di allevare delle galline. Raccogliere le loro uova, preoccuparsi per loro, vederne qualcuna morire. Imparare nuovi rumori, aggiungere altri nomi ai colori. Conoscere il grano, gli ortaggi, cercare di capire il perché della strenua resistenza di una pianta di pomodori al cambio delle stagioni. Pomodori più forti di tutto. Seguire i consigli di un allevatore, qualche volta ignorarli. Parlare con un collezionista d’alberi. Tutti soli, tutti solitari. La campagna domina, il paese è distante, è bene andarci in bicicletta, è bello andarci a piedi, fare il giro più lungo, costeggiare case sconosciute, fermarsi allo stesso bar, scambiare due parole mai più di due.
«Qui tutto è ampio, vuoto. Qui devi essere tu a darti un limite, altrimenti i solchi continuerebbero all’infinito. Qui una persona la vedi arrivare da lontano».
Mentre il tempo scorre capiamo che l’autore ci sta raccontando il modo migliore di lasciare andare le cose: fare. Massacrarsi di lavoro da mattina a sera, sentire la fatica e non sapere mai se ne sarà valsa la pena, se i frutti verranno, se la lattuga sarà mangiabile, se gli ortaggi faranno in tempo a crescere, se il raccolto potrà essere raccolto. Niente dipende da ciò che farai ma dalla natura, dal tempo che scorre e cambia, lavori e aspetti, e nemmeno speri, la speranza in campagna è deludente. Il contadino diventa come il narratore, a un certo punto lascia andare la storia, le zucchine o i personaggi faranno da sé.
Le pianure è un libro essenziale, non enfatizza, non eccede. Federico Falco architetta un’impalcatura sentimentale e racconta la vita dopo l’amore. Per farlo fa avanti e indietro dall’orto e dal tempo passato. Narra delle memorie da ragazzino, dei nonni, delle origini piemontesi, della scoperta dell’omosessualità, della difficoltà a capirla, a dirla. Racconta di Ciro il grande amore, con cui non smetterà mai di volersi bene, della casa pensata e ristrutturata insieme. Racconta del giorno in cui Ciro gli ha detto che era finita, del desiderio sparito, della fatica di continuare.
«La pianura, la pampa, è anche assenza di altezza. Nessun punto da cui guardare in alto. Nessun punto da cui guardare dall’alto».
La semplicità, la lentezza, l’accettazione del fatto di non farcela, la scelta di lasciarsi alle spalle tutto, una sorta di elaborazione del lutto amoroso. Spaccarsi le mani, guardare il sole che sorge o che cala, sentire sul tetto la pioggia martellante di fine agosto che in Argentina annuncia l’inizio dell’estate. Leggere molto, Anne Carson, Margaret Atwood, far sì che ci venga in mente Pavese. Falco ci ricorda poi il fascino della pianura luminosa e malinconica, che sempre in qualche modo ci prende il cuore, in Lombardia o nella Pampa, in Toscana o in Australia. Abbiamo amato le pianure di Gerald Murnane, ci siamo ritrovati nello sguardo di Marco Belpoliti, apparteniamo – dopo questa lettura – almeno in parte alla campagna, al tempo che scorre nelle pagine di Federico Falco.