Restare o diventare bambini / In strada con il pallone

13 Settembre 2017

Pubblichiamo alcuni contributi sul tema dell'infanzia legati alla XIII edizione di Torino spiritualità (21-25 settembre 2017). Qui il programma.

Riprendiamo oggi un testo di Franco Arminio su uno degli oggetti dell'infanzia di noi tutti, o quasi.

 

Giocavo a pallone. Era una cosa che facevano quasi tutti i bambini. La differenza che giocavo insieme agli altri e giocavo anche da solo. Anche questo accadeva a qualche altro bambino, ma il mio era un giocare a oltranza: quando il tempo era brutto giocavo in casa mia e la palla diventa un tappo di bottiglia. Giocavo tra la porta d’ingresso e quella della cucina, nella stanza dell’osteria dove mangiavano i clienti più intimi. Ce n’era uno a cui dava particolarmente fastidio la mia ossessione. Diceva che lo avevo fatto esaurire. Quando si impiccò nella sua casa un po’ mi venne il pensiero di aver contribuito alla sua scelta.

 

Il pallone in casa mia era subito dietro la porta, nel portaombrelli o sulle casse di birra. Lo prendevo e uscivo a tirare calci sul portone verde di zia Caterina. Lei stava affacciata alla finestra, sembrava non gradire i miei calci contro il suo portone. Cinquanta metri più sopra c’era la curva dove finiva la via Mancini. Era il luogo delle partite coi compagni. Una curva a gomito, in salita. Le partite più che dalle macchine, erano disturbate dai muli che tornavano dalla campagna. Anche in questo caso c’era uno spettatore, un amico più grande di noi, paralizzato da una malattia.

 

Qualche volta andavamo a giocare in una campagna subito sotto il paese, un pezzo di terra miracolosamente in piano, con l’orlo che poco alla volta si sgretolava per la frana.

Le partite con gli altri erano lunghe, a volte duravano anche cinque ore. Invece quando giocavo da solo mi bastavano anche cinque o dieci minuti. Era un’abitudine fissa quella di uscire in strada col pallone durante gli intervalli delle partite che facevano alla televisione. Di notte e di giorno era la stessa cosa, d’estate e d’inverno era la stessa cosa. E non cambiava neppure il protagonista immaginario dei miei calci. Era sempre lui, il mio idolo, il cannoniere del Cagliari, Gigi Riva.

 

La pratica del calcio onanistico mi serviva di allenamento quando giocavo con gli altri, ma in quel caso non era Gigi Riva a giocare, ero io. Allora non lo sapevo, ma tra le partite solitarie e quelle normali si formalizzava una tendenza che ha attraversato tutta la mia vita: apertura e chiusura, istinti comunitari e istinti autistici. L’oggetto una volta era il pallone, adesso è la scrittura. Direi che nella mia vita non è cambiato niente, tranne gli oggetti con cui mi accompagno. Adesso a pallone non gioco quasi mai e le partite le vedo raramente. Ecco, il pallone è l’unico cambiamento della mia vita. C’era una volta e adesso non c’è più. La scomparsa del pallone appartiene a una scomparsa appena più grande, quella della realtà: c’era una volta e adesso non c’è più.

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