Tár, il volto nudo del potere
La direzione di un’orchestra: è il termine di paragone perfetto per raffigurare il potere in quanto tutt’uno di performance e azione fisica, con l’esibizione e i movimenti di un corpo da solo su un podio, che si muove creativamente per dare ordini di esecuzione, mentre tutti gli altri, sotto, guardano e ubbidiscono. La musica e il corpo di chi dirige un concerto sono una cosa sola.
Ma è difficile, ancora, incontrare una donna in questo ruolo di comando, una come Lydia Tár (Cate Blanchett), la protagonista del film di Todd Field. È la prima compositrice e direttrice a guidare la Filarmonica di Berlino; dopo aver vinto tutti i premi possibili, ha appena pubblicato un’autobiografia, sta preparando l’esecuzione e la registrazione dal vivo della Sinfonia n.5 di Mahler. È una leader, arrivata sulla cima di un mondo tradizionalmente maschile. Eppure va detto subito: Tár non è un lavoro moralistico e punitivo sulle cosiddette “donne in carriera”. È un film che, attraverso una crisi e un protagonismo lesbico raccontato senza enfasi, rappresenta il potere e i suoi possibili modelli di realizzazione.
La vita lavorativa e sentimentale della protagonista è piena di donne – le stesse attraverso le quali, o a causa delle quali, il successo di Lydia, nel giro delle tre settimane coperte dalla traiettoria del film, andrà fuori controllo e esploderà. C’è l’assistente personale, Francesca (Noémie Merlant), dominata dal carisma di Lydia; poi c’è la compagna Sharon (Nina Hoss), primo violino, che soffre di attacchi depressivi; una ex collaboratrice e forse ex amante, Krista, allontanata da Lydia, che si suiciderà, dopo aver annunciato il suo gesto con l’invio di un romanzo – Challenge (Sfida) di Vita Sackville-West; e infine c’è Olga (Sophie Kauer), una giovane violoncellista russa molto vitale e talentuosa per la quale la direttrice prova subito un’attrazione, senza essere ricambiata. Nessuna di queste relazioni, tuttavia, è raccontata e mostrata con chiarezza, contribuendo a mantenere un clima di tensione bloccata, un senso di stranezza raggelata che funziona, anche in senso scenico, come atmosfera dominante dell’intero film.
Accanto a questo sistema formale di non detti e emozioni trattenute, un altro codice continuamente all’opera è il genere, che viene usato e trattato sia come elemento rituale della vita sociale e come stile personale di comportamento, sia come tema. Ogni volta, però, facendo agire la scena dei corpi, quella che, con Goffman, possiamo definire “facciata”. Ecco un esempio. Lydia e Sharon hanno una figlia adottiva, Petra, di origini siriane. Accompagnandola a scuola, la protagonista viene a sapere dalla ragazzina che una compagna la sta bullizzando. Senza far commenti, Lydia, dopo aver salutato la figlia, si avvicina all’altra bimba, e, parlandole in tedesco, le dice con toni perentori: «Io sono il padre di Petra… so cosa le fai, se lo rifai ti prenderò, e nessuno ti crederà». Non c’è alcuna presumibile tenerezza “femminile” e “materna”, anzi; come in tutti gli altri casi, Lydia si comporta e si dichiara, anche sorprendendo le nostre aspettative, come un “padre” minaccioso.
Nella scena immediatamente successiva, Lydia è già in teatro, in procinto di fare le audizioni; trovandosi alla toilette, è misteriosamente distolta da una figura entrata in uno dei bagni, ma, non sapendo chi e cosa sia, butta gli occhi attraverso la parte vuota della zona inferiore della porta, per provare a capire di più dalla posizione del corpo: il genere, qui, agisce come spunto intrigante e voyeuristico. Passaggio di scena: stavolta, sempre in teatro, Lydia è in platea, davanti a un lungo paravento messo apposta sul palco per coprire chi suona, e impedire così di riconoscere il genere, per poter valutare, di conseguenza, soltanto l’esecuzione (tra parentesi: grazie a questo sistema che premia le competenze, anziché il genere, maschile, è realmente accaduto che le donne assunte fossero il doppio del solito).
Ma torniamo alle tre situazioni appena ripercorse: sono tre momenti che, senza darlo a vedere, ci fanno vivere, come accade per gran parte del film, una delle domande più forti di cui risuona Tár, vale a dire quale sia e possa essere il rapporto tra bravura e potere (soprattutto per le donne, vale a dire i soggetti storici per secoli e secoli “imprevisti” dai giochi sociali); e se assumere il potere, e gestirlo, debba significare necessariamente comportarsi come un certo tipo di uomo, e con riturali maschili, secondo un modello unico di autorità fondato sulla prepotenza, anche sessuale, e comodamente centrato su una presunta posizione di universalità patriarcale, che rifiuta tutto ciò che è estraneo e non si conforma («non è una di noi», dice Lydia a Francesca riferendosi a Krista). Assomigliare, nei modi, nell’habitus, a un maestro sprezzante ed egocentrico è l’unica strada, per una donna, e in generale per una persona brava, per dirigere con autorevolezza? (e non solo, evidentemente, quando si tratta di guidare un’orchestra). Davvero questo modello di genialità maschile è il meglio che il mondo possa augurarsi?
Il film di Todd Field non dà risposte, piuttosto apre contraddizioni, squarci, abissi. Come quando, durante una lezione di composizione, Lydia aggredisce e deride uno studente di origini non europee che contesta Bach per la sua misoginia. «Non essere così ansioso di sentirti offeso e vittima» gli risponde Lydia. Certamente non ha ragione, con quei modi così narcisisti; ma questo non significa che sia del tutto vero che abbia torto, per principio, a difendere la musica di Bach, nel senso che questo tipo di contraddizioni, così scomode, così rimandate, sono le questioni importanti della contemporaneità: da vedere, da attraversare. In questo senso, il film con cui abbastanza probabilmente Blanchett vincerà l’Oscar per la miglior interpretazione femminile ha il merito di non essere didascalico o banale (non una volta viene nominata, con la superficialità con cui di solito si usa, l’espressione “cancel culture”). Tár riesce, in senso formale, a costruire una partitura aperta ai dubbi, persino al silenzio, più che alle certezze.
Sembra strano, considerata la storia di successo di cui si parla, tuttavia Tár è un film che continuamente mostra anche spazi (reali e simbolici) marginali e decentrati, come se tutti insieme costruissero una contropartitura della vita di Lydia. C’è, in speculare contrasto con la casa coniugale elegantissima, l’appartamento usato come studio, dove la donna va a suonare e comporre e dove riceve Olga; o, nel medesimo condominio, la casa accanto, dove abita un’anziana moribonda assistita da una figlia che impazzirà; ci sono gli spazi degli edifici di periferia dove Lydia, trasognata, accompagna e insegue Olga; o la vecchia casa di famiglia dove a un certo punto si rifugia; o gli spazi totalmente altri del sudest asiatico dove nel finale, andrà a lavorare. È qui, in tutti questi posti, e non al centro, che sono accadute o accadono le cose più importanti, come ci fa capire il film; ma ce lo dice proprio lasciando questi eventi insistemabili, incomponibili, informalizzabili, fuori campo, insomma (come il suicidio di Krista, o l’episodio dell’aggressione, rimosso dal racconto); il trauma è tenuto fuori, in una zona borderline, anche per non dare risposte semplici.
Così, la potenza – a volte anche eccessivamente sforzata – di quest’opera cinematografica passa dalla sua partitura; e, soprattutto, dalla scelta di portare tutta la tensione e la pressione a cui la storia “sottopone” la protagonista (rovesciandola dal podio non come esito di una parabola morale, ma per effetto di una tensione drammatica). Tutto il film viene fatto esistere sulla pelle di Lydia, proprio in senso fisico e letterale, anche, o proprio perché, non ci sono praticamente mai momenti classici in soggettiva, in cui si possa sentire con evidenza cosa pensi, ricordi, provi.
La vita interiore di Lydia è tutta estroflessa, diventa un racconto visuale messo sulla superficie del suo corpo, e in particolare sul suo volto, così espressivo e così messo a nudo dai primi piani (diventando una superficie liscia ma, in profondità, piena di microtraumi: pieghe, occhiaie, contrazioni, graffi quando è stato picchiata). Il volto diventa un vero campo di battaglia, di controllo, e, in crescendo, di scontornatura. Senza nessun pathos, con un’interpretazione mandata avanti, dalla recitazione e dalle inquadrature, a forza di sottrazioni. Musica e corpo sono una cosa sola.