Soggettività animale tra desiderio ed estasi / L’animale chiacchiera con il mondo
Che cos’è l’animalità? È questo l’interrogativo che intende affrontare Etologia filosofica. Alla ricerca della soggettività animale (Mimesis, 2016), testo in cui Roberto Marchesini mira a scuotere le fondamenta dell’edificio umanistico, sorretto dalla credenza in un sé autarchico, puro e incontaminato. Si tratta di una ricerca che, attraverso un’indagine sui modelli teorici che hanno definito l’animalità, ha l’obiettivo di cambiare radicalmente il modo con cui ci rapportiamo non soltanto agli eterospecifici ma anche a noi stessi.
Etologia filosofica si presenta, dunque, come un’opera di demolizione delle certezze identitarie sulle quali riposa la concezione di “uomo”, accompagnata dalla creazione di un nuovo concetto di animalità. Come afferma Gilles Deleuze in Che cos’è l’atto di creazione (Cronopio, 2010), se la filosofia è quella disciplina attraverso cui fabbricare nuovi concetti, allora possiamo affermare che il saggio di Marchesini si situa all’interno di una cornice prettamente filosofica. Si tratta di una peculiarità della ricerca espressa chiaramente dall’autore: «Il mio intento in questo saggio è […] eminentemente filosofico», afferma Marchesini (Etologia filosofica, p. 9).
Il cammino che Etologia filosofica dovrà percorrere si presenta «complesso e irto di ostacoli» (p. 22), ostacoli che hanno intrappolato l’animalità nel regno del meccanicismo, che attribuisce agli animali non umani uno status di passività e di cattività immersiva nel mondo. L’errore che sta alla base di questa valutazione distorta dell’animalità è, secondo l’autore, il dualismo ontologico cartesiano che «riservando al solo essere umano la partecipazione alla res cogitans» ha inaugurato «il meccanicismo di tutto ciò che non è umano, accostando l’animalità ad altri fenomeni naturali quali la caduta di un grave o lo scorrere di un fiume» (p. 26).
Sarebbe un errore ritenere che la relegazione dell’animalità nel dominio della res extensa sia un approccio terminato con la formulazione cartesiana, poiché attraversa, come un filo rosso, modelli di esplicazione recenti e contemporanei. Lo ritroviamo nel«modello psico-idraulico» dell’etologia classica, nel «modello domino innescato dallo stimolo» (p. 7) del behaviourismo e nel campo dell’etologia cognitiva sviluppatasi a partire dagli anni ’70. Quest’ultima disciplina, evidenzia Marchesini, ha avuto il merito di superare la visione riduzionista che caratterizzava le teorie citate ma non è stata in grado di sfuggire ai tranelli del paradigma cartesiano. L’etologia cognitiva ha, infatti, lasciato immutato il principio secondo cui il comportamento animale è frutto dell’automatismo, aggiungendo la mente a coordinare questo processo.
Come ribaltare, dunque, una concezione che dipinge gli animali non umani come «ricettacoli di passività o di ripetitività» (p. 22)?
Per Marchesini è necessario estirpare i pregiudizi di natura epistemologica e di natura etica che guidano l’indagine. Le teorie che mirano a definire l’animalità sono, infatti, inficiate da tre bias: il bias antropometrico, da ἄνθρωπος (uomo) e μέτρον (misura), che utilizza l’essere umano come «metro di giudizio» (p. 40) nel momento in cui mira a definire l’animalità; il bias disgiuntivo, che mira a creare una distanza incolmabile tra l’essere umano e le altre specie; il bias categoriale, che annienta i caratteri propri di ciascuna specie, riunendole in un «unico contenitore» (p. 40). Il pregiudizio di natura etica si esprime nella mancanza di uno sguardo neutro e obiettivo nei confronti dell’animalità: l’osservatore informa l’oggetto indagato plasmandolo attraverso un sistema di valori, un «non detto valoriale o pregiudiziale» (p. 67) che intralcia il percorso conoscitivo. Decostruire, dunque, i pregiudizi che ostacolano la ricerca scientifica – i bias epistemologici –, significa anche decostruire l’atteggiamento – il pregiudizio etico – che adottiamo nei confronti di un problema che ci riguarda da vicino.
È a questo punto che possiamo addentrarci nell’indagine dell’animalità, attraverso uno strumento di ricerca che Marchesini definisce come “antropomorfismo critico”. Si tratta di un concetto che mira a individuare la parentela di somiglianze tra l’essere umano e l’eterospecifico, sfuggendo ai pericoli di antropomorfismo: ciò che si ricerca non è il modo in cui l’animale riflette l’immagine umana ma una dimensione definita come “meta-predicativa”.
Con predicato si intende l’insieme delle dotazioni comportamentali di una specie o di un particolare individuo, attraverso cui si percepisce la realtà circostante, declinandola a seconda dell’esigenza che si deve soddisfare. Si tratta, dunque, di mettere in luce come al di là dei predicati esista «un sostrato comune» (p. 69), che «li sostiene o li realizza ma che non corrisponde ad essi» (p. 24). Attraverso questo nuovo approccio teorico, Marchesini giunge a formulare che l’animalità è una “condizione”, una condizione di esistenza condivisa da specie differenti, inclusa ovviamente la specie umana. Il limes entro cui l’essere umano si è rinchiuso, costruendo una barriera volta a demarcare un confine stabile e netto con l’animale, è eroso, divenendo una soglia di apertura relazionale (Alterità. L’identità come relazione, Mucchi Editore, 2016, p. 56).
Focalizzarci sulla dimensione meta-predicativa dell’animalità, consente di passare da una concezione reificata dell’animalità (l’animale come oggetto) all’animalità in termini di soggettività. Come evidenzia Marchesini, sembra un ossimoro associare il termine soggettività ad animalità poiché essere soggetti presuppone uno stato di attività – il soggetto «agisce, possiede, ottiene, pensa» (Etologia filosofica, p. 26) – di cui sarebbe privo l’animale, agito da forze condizionanti esterne, posseduto da una fascia di istintualità, incapace di ottenere alcunché perché ciò che persegue non è animato da un’intenzionalità ma piuttosto dal cieco bisogno. In questo modo l’animale è sia desoggettivato, attraverso la negazione di una soggettività, sia assoggettato perché l’essere umano si pone in un rapporto di dominio e sopraffazione nei suoi confronti.
Per innestare l’emergenza della soggettività animale, Marchesini invita a ripensare alla concezione di corporeità. Si tratta di una dimensione alla quale ci si rivolge (attraverso il radicamento del paradigma cartesiano) nei termini di un rapporto di possedimento, come se fosse necessario intrappolarla, per soffocare un’energia ribelle che la abita. È in questo modo che agisce la “macchina antropologica”: solo la specie umana avrebbe la facoltà di esercitare il controllo sulla corporeità, al contrario delle altre specie che ne sarebbero preda. Contro la scissione tra l’incorporeo e la corporeità, è necessario collocare il corpo dalla dimensione dell’“avere” alla dimensione dell’“essere”. Adottando questa nuova prospettiva, la soggettività animale è da ricercare nella «corporeità attiva dell’animale, vale a dire l’essere un corpo chiamato a gestire la singolarità del reale» (p. 17).
È attraverso la superficie corporea che si snoda la tensione dell’animale verso il mondo, una tensione presente in potenza e che si attua manifestandosi nella realtà esterna: il desiderio. Il desiderio si manifesta attraverso un duplice binario: da un lato è «una struttura intenzionale» (p. 18), ovvero gli orientamenti di cui l’individuo è portavoce in quanto membro di una particolare specie, dall’altro lato è il modo con cui l’individuo traduce i caratteri ereditari in modo singolare e innovativo, sollecitato da un particolare evenienza che sorge dal contesto, in un rapporto privo di causalità e determinazione. Il desiderio è, dunque, il modo con cui l’animale crea «intersezioni con la realtà e raccoglie intorno a sé, come un magnete, articolazioni specifiche» (p. 18).
L’indagine sull’animalità come soggettività desiderante è un punto nevralgico nell’architrave filosofico costruito da Marchesini. Si tratta di un tema su cui ritornerà in Emancipazione dell’animalità (Mimesis, in pubblicazione), testo in cui l’autore invita ad approcciarci al tema dell’animalità attraverso l’applicazione di una epoché fenomenologica. La sospensione del giudizio, delle certezze che hanno guidato fino a ora la comprensione dell’animalità, è lo strumento attraverso cui «mettere sotto critica il dettato descrittivo che abitualmente utilizziamo nella sua definizione» (p. 3).
Nella storia del pensiero occidentale, l’animalità è stata, infatti, sottoposta a un processo di “mancipazione”, termine derivante da mancipium (composto di manus “mano” e di capĕre “prendere”) che nel diritto romano indicava una condizione di schiavitù, quindi di privazione della libertà. L’umano ha, dunque, schiavizzato l’animalità trasformandola in «bene negoziabile, alienabile, possedibile e soprattutto nelle nostre mani» (p. 3).
Com’è avvenuta la “mancipazione” dell’animalità? Perché una tra le tante specie animali ha imposto un rapporto di sovranità sulle altre?
Marchesini rintraccia, nelle torsioni e slittamenti di significato con cui si è definita l’animalità, due approcci principali che hanno posto gli eterospecifici in una posizione di subalternità: il distanziamento e l’assimilazione. Si tratterà, dunque, di percorrere queste due coordinate, indagando quali modelli teorici hanno generato, per “emancipare” l’animalità, «vale a dire liberare l’animalità dalle mille coazioni che si sono andate sedimentando lungo il processo di estrazione o costruzione dell’umano» (p. 27).
La prima roccaforte teorica che ha mancipato l’animalità la ritroviamo in un processo definito di distanziamento. Per comprendere come si è giunti a collocare l’animalità in un “altrove”, distinto e al di fuori del regno dell’umano, Marchesini riprende la distinzione, affrontata in Etologia filosofica, tra l’“avere un corpo” ed “essere un corpo”. Il distanziamento agisce collocando la corporeità dell’animalità nel regno dell’“essere”, dimensione in cui si è posseduti dalla corporeità e, dunque, si è schiavi dei bisogni fisiologi. Solo l’umano “ha” un corpo, un corpo che possiede perché in grado di porsi in un piano sopraelevato rispetto alla ricerca di un soddisfacimento momentaneo che sorge dalla corporeità. La dicotomia tra “possedimento” ed “essere posseduti” dalla corporeità si riflette sul piano della temporalità con il seguente tipo di ragionamento: se l’animale è un semplice fruitore della realtà esterna, a differenza dell’umano che è in grado di porsi su un piano di distacco rispetto al contesto in cui agisce, allora l’animale è completamente immerso nel vissuto. Egli sarebbe, dunque, schiavo della datità del qui e ora, incapace di costruire orizzonti di senso che gli consentirebbero di trascendere ciò che vive nel presente e di avere una consapevolezza biografica, del passato che l’ha preceduto, delle concatenazioni storiche che l’hanno condotto a ciò che sta vivendo in quel particolare momento. Il distanziamento funziona, dunque, attraverso l’immersione dell’animalità in «una presenza sincronica, astraendola da qualunque proiezione storica» (p. 7).
Il secondo processo di mancipazione dell’animalità consiste nell’assimilazione, che è direttamente correlata al distanziamento. Per raggiungere l’obiettivo di creare una distanza incolmabile tra l’umano e l’animale, è necessario ammettere un’iniziale prossimità, una condivisione dell’animalità: da questo magma comune l’uomo sarebbe emerso, differenziandosi dall’animalità. L’umano«non può emergere se non da una condivisione basale con l’animalità, così come non può darsi un compito elevativo senza un tappeto elastico da cui spiccare il volo prometeico» (p. 8).
L’animalità è, dunque, una condizione da cui non ci si può sottrarre interamente, presente nell’umano in termini di retaggio, ma dalla quale è necessario emanciparsi per raggiungere un’esistenza pienamente umana. Ridotta allo stato di “scomodo inquilino” che vive nell’umano, l’animalità è una presenza da contenere, costruendo argini che impediscano lo sgorgare di un fiume che potrebbe inondare e, dunque, sommergere l’umano.
Queste due coordinate teoriche stabiliscono che la disgiunzione tra umano e non umano si gioca sul piano della “presenza” e dell’“assenza”: l’animalità è ricondotta alla mancanza, all’incapacità di distaccarsi dal contesto in cui si posiziona, a differenza dell’umano che è presente a se stesso e a ciò che sta vivendo perché in grado di distaccarsi dal vissuto. Questa sorta di Doppelgänger con cui l’umano si ritrova, suo malgrado, a convivere, è un’entità da soffocare per non cadere nel dominio della brutalità, che sorge laddove non si ha consapevolezza di se stessi, e dunque nel regno della non-presenza.
Lo stato di assenza che contraddistingue l’animalità si ritrova, a sua volta, alla base di due principi teoretici. Il primo si fonda sull’idea di carenza, utilizzato per privare l’animale della dimensione del desiderio: l’animale, totalmente immerso «in una bolla in cui non è dato uscire» (p. 25) e assente a se stesso, è incapace di provare il desiderio perché desiderare presuppone la volontà di oltrepassare il presente, slanciandosi verso la creazione di altri piani di realtà. Marchesini ripercorre l’argomentazione sostenuta in Etologia filosofica, concatenando il desiderio alla corporeità, ma attraverso un nuovo punto di vista che tratteggia il desiderio in termini di «forza espansiva» (p. 26). Il desiderio è, infatti, una forza motrice che consente di decentrarsi da se stessi, da ciò che siamo e che stiamo vivendo in un particolare momento, per «sconfinare nel mondo» (p. 26). Negare all’animale la possibilità di avvertire il desiderio di espansione, scoperta, perseguimento di un obiettivo, significa negarlo anche a noi stessi perché incapaci di riconoscere, citando Deleuze, “cosa può un corpo” (Cosa può un corpo? Lezioni su Spinoza, Ombre corte, 2010).
Il secondo lo ritroviamo nella concezione dell’animale come bruto: l’animale è interpretato come una sorta di fondale oscuro dell’umano, che affiora in superficie nel momento in cui l’umano perde il controllo su se stesso divenendo aggressivo, irrazionale, amorale. Il bruto è colui «che non è regolato dalla ragione, che non è capace di controllare i propri impulsi, che non ha la facoltà di alzare la testa verso il cielo» (Emancipazione, p. 58). Con questo tipo di lettura, l’animale diviene lo strumento per stigmatizzare non soltanto gli eterospecifici ma anche l’umano perché perdere l’umanità significa degradarsi dallo stato di uomo allo stato di animale.
Come provocare, dunque, il processo di “emancipazione” dell’animalità?
Marchesini si focalizza nuovamente sul concetto di animalità come “condizione”, ricercando le caratteristiche principali che la compongono quali l’eterotrofia, la costituzione organismica, la mobilità, l’orientamento e la senzienza. Tra queste emerge, a causa dell’importanza che riveste nella vita di tutte le specie, l’eterotrofia, vale a dire l’assunzione di sostanze organiche precostituite. Si tratta di una peculiarità che si manifesta attraverso un duplice movimento: da un lato è un movimento interno, un’inquietudine che richiede di essere estrinsecata, dall’altro lato è un movimento verso l’esterno, la ricerca di un appagamento. Questo doppio movimento, afferma Marchesini, scaturisce dal bisogno ma non corrisponde a esso perché il modo in cui si attua è dialogico: «l’animale chiacchiera con il mondo» (p. 115), modificando se stesso e la prospettiva che adotta nei confronti del reale. È, dunque, possibile definire la condizione animale come “peripatetica”, vale a dire«in grado letteralmente di “passeggiare chiacchierando nel/col mondo”».
Delineare l’animalità nei termini di condizione peripatetica, ci conduce a uno dei principali strumenti teorici per rovesciare il processo di “mancipazione”: la dialettica tra immanenza e trascendenza. Contro la concezione dell’animale come “assente”, perché incapace di situarsi in un “altrove” rispetto sia al presente in cui sta operando sia rispetto al contesto in cui si posiziona, l’animale è, al contrario, “trascendente”, ovvero in grado di distaccarsi dal vissuto proiettandosi «in una condizione altra» (p. 125). Non si tratta mai di una condizione a sé stante, sganciata dal flusso esperienziale in quanto «sempre l’essere animale è immanente» (p. 125), immanente perché la corporeità è, al contempo, lo strumento attraverso cui “trascende” il qui e ora e la finalità a cui si indirizza lo slancio proiettivo. Il corpo è, dunque, l’anello di congiunzione tra la dialettica immanenza-trascendenza, la superficie con e attraverso la quale si scivola dall’una all’altra, in una sintesi impossibile da raggiungere perché il desiderio genera, in modo incessante, nuove carenze.
La ricerca della soggettività animale che ci aveva condotto in Etologia filosofica alla formulazione dell’animalità come soggettività desiderante culmina, dunque, nel tratteggiare l’animalità come una soggettività che si potrebbe definire “estatica”. Seguendo la definizione etimologica del termine, l’estasi, da ex-stasis (essere fuori), è uno stato attraverso cui si valicano i confini del proprio sé, in un’ottica di espansione e allargamento. Quella dell’animalità è un’estasi mai sganciata dalla corporeità: dal corpo sorge la volontà di trascendenza, che si attua in un movimento continuo perché «animalità è perenne, ricerca fuori di sé, il non bastarsi» (p. 22).