Celestini e il teatro di parola / Museo Pasolini
L’attore del Teatro di Parola dovrà “semplicemente essere un uomo di cultura”, “fondare la sua abilità sulla capacità di comprendere veramente il testo” e divenire così un “veicolo vivente del testo”. È questo il profilo di attore tracciato da Pasolini nel suo Manifesto per un nuovo teatro uscito in pieno 1968 sulla rivista “Nuovi Argomenti”; ma potrebbe essere anche un’ottima descrizione per Ascanio Celestini, l’attore-autore che ha saputo ‘pasolinianamente’ attraversare con le sue parole piccolo e grande schermo, palco e pagina stampata, senza perdere una rigorosa e riconoscibile identità.
Non stupisce, dunque, che Celestini abbia preso per le corna il toro del centesimo anniversario dalla nascita di Pasolini celebrandolo a modo suo: cioè irridendo le celebrazioni e dunque riscoprendone il senso. Museo Pasolini è infatti uno spettacolo-mausoleo dedicato alla memoria del Poeta: al centro della scena, davanti a una soglia che non si aprirà mai, un metafisico custode di un museo poco frequentato ci accompagna svogliatamente attraverso la vita e le opere di PPP, come stesse ripetendo per la centesima volta la medesima storia.
Si diverte, Celestini, a giocare con gli stilemi del biografismo spiccio o delle sciatte pagine da antologia scolastica, facendosi beffe di quel nozionismo che mai serve a raccogliere davvero l’eredità di un artista. La drammaturgia procede per episodi e deviazioni in modo apparentemente disordinato, ma torna poi lucida a insistere su alcuni tasti: l’adesione e poi l’esclusione di Pasolini dal Partito Comunista, cioè l’incapacità dell’istituzione politica di comprendere e includere le istanze del nuovo; lo sguardo poetico verso gli ultimi, i reietti, gli scarti di un capitalismo che calpesta e dimentica (tema assai caro anche al Celestini scrittore). Dalla biografia e dalle opere, la drammaturgia allarga e tenta di abbracciare l’intero Novecento con un’inquadratura in campo lungo. Si tirano fili, si ammicca all’oggi (il Piano Marshall? Una sorta di Recovery Fund), si torna a parlare di fascismi e di stragi di Stato per arrivare a guardare al corpo morto di Pasolini come a un corpo storico e collettivo. Comprendere Pasolini significa comprendere il Novecento; comprendere il Novecento significa tentare di comprendere l’oggi.
Il tributo al Poeta, però, non resta solo sul piano del contenuto. Il monologo – un torrente di parole che scorrono a pieno ritmo per oltre due ore – paiono rielaborare anche alcune istanze formali del già citato Manifesto pasoliniano. Celestini sembra condividere la diffidenza del suo nume verso i triti meccanismi del sistema spettacolo, verso le sperimentazioni della scena “d’avanguardia”, verso le mode del “teatro della chiacchiera”: e così come Pasolini rivendicava nel suo Manifesto “la scomparsa quasi totale della messinscena, tutto ridotto all’essenziale”, Celestini si affida a una sedia, pochi oggetti, e a una voce narrante che persegue solo la necessità della parola politica, nessun altro abbaglio. E così, accanto agli oggetti-simbolo della biografia pasoliniana, Celestini espone orgogliosamente anche un altro cimelio, cioè il vecchio caro Teatro di Narrazione.
Il narratore – così annotava Ponte di Pino su ateatro nel 2010 per raccontare le forme di teatro civile fiorite negli anni Novanta – “è un cittadino comune che si è appassionato a un problema o a un episodio storico, che si è informato e che vuole condividere con il pubblico il proprio sapere, accumulato con pazienza e trasformato in storia”. Oggi Celestini sembra perseguire un simile intento: informare, documentare, ripensare la storia, far sentire all’oggi l’eco delle domande di ieri. L’intento è nobile, la realizzazione rigorosa, i ragionamenti proposti di spessore.
Resta però vivo l’interrogativo che attanaglia da tempo le forme più ortodosse di teatro politico: se non si finisca poi per rivolgersi a un pubblico che già si sente vicino agli argomenti trattati, ed è già disposto a una preventiva adesione ideologica. I due nomi in locandina, l’autore morto e quello vivo, non sono forse talmente connotati da agire come filtro per il consenso? Già Pasolini notava con nervosismo come nelle platee del teatro si finisse per trovare solo “progressisti di sinistra”, e auspicava di potersi rivolgere “ai più avanzati gruppi della borghesia” per provare a contaminarli con idee rivoluzionarie. Alcune tappe della lunga tournée dello spettacolo (in primis il Teatro Carcano di Milano, dove è andato in scena ai primi di febbraio) sembrano ideali per raggiungere questo target. Ma è davvero a loro che si rivolge Celestini?
E Pasolini? Avrebbe voglia oggi di dialogare con quei signori che sorseggiano brandy mentre il Titanic sta affondando?
Fotografie: ©Musacchio, Ianniello & Pasqualini