Il Meridiano / Sbarbaro: licheni e trucioli
Camillo Sbarbaro nasce nel 1888 a Santa Margherita Ligure, primogenito di Carlo e di Angiolina Bacigalupo, di quindici anni più giovane del marito. Nel 1893, quando Camillo ha cinque anni, la madre muore di tubercolosi. Il poeta e la sorella Clelia vengono sistemati a Voze, un paesino dell’entroterra (a cui Sbarbaro dedicherà una delle sue più belle poesie) e l’anno dopo a Varazze. A badare a loro è la giovanissima zia Maria Bacigalupo (Benedetta). Qualche anno più tardi, a Genova, Camillo frequenta il ginnasio e comincia a coltivare i due grandi interessi della sua vita: la poesia e la botanica (diventerà uno dei maggiori collezionisti di licheni a livello internazionale). Nel 1904 si iscrive al Regio Liceo “Gabriello Chiabrera” di Savona, dove ottiene la licenza nel 1909. Agli anni della scuola segue un periodo di inerzia e di inquietudine, reso più cupo dall’aggravarsi dell’infermità del padre (morirà nel 1912; a lui sono dedicate alcune poesie tra le più note di Sbarbaro). Nel 1910 trova un posto come impiegato alla Siderurgica di Savona. Nel 1911 i suoi compagni di scuola pubblicano a loro spese, col titolo Resine, le poesie che Camillo andava componendo già ai tempi del liceo. In quello stesso anno il poeta viene assunto all’Ilva di Genova; intanto, entra in contatto con alcune tra le maggiori riviste letterarie del tempo, tra cui “La Voce”, che nel 1914 pubblica il suo libro maggiore, Pianissimo.
All’entrata in guerra dell’Italia nel 1915 Sbarbaro, in quanto impiegato di un’industria di rilevanza bellica, potrebbe evitare di prestare servizio al fronte; sceglie invece di partire volontario come barelliere della Croce Rossa. Nel 1917 verrà spostato in fanteria, e combatterà col grado di tenente.
Come tanti reduci il poeta soffre, al suo rientro a casa dopo la guerra, di un disagio profondo. Il suo lavoro letterario non si ferma: nel 1920 esce da Vallecchi la prima raccolta di prose, Trucioli, ma Sbarbaro, licenziatosi dall’Ilva, si lascia andare, cade nella depressione. Nonostante abbia buoni contatti con l’ambiente letterario (tra gli altri Eugenio Montale, che gli dedicherà due poesie di Ossi di seppia), rifiuta di fare il letterato di mestiere: preferisce accettare di impartire lezioni private di greco e latino; nel 1925 viene assunto da un istituto dei padri Scolopi a Cornigliano, nel 1928 insegna in un liceo dei Gesuiti a Genova, ma è costretto a rinunciare all’insegnamento per essersi rifiutato di prendere la tessera del Fascio. Intanto esce la sua seconda raccolta di prose, Liquidazione. Nel 1931 la rivista “Circoli” pubblica i bellissimi Versi a Dina (ripresi nel 1955 in Rimanenze).
Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, Sbarbaro “sfolla” da Genova a Spotorno con la sorella e la zia Benedetta. A questi anni risalgono le sue numerose traduzioni: l’Antigone di Sofocle, il Ciclope di Euripide, la Germania di Tacito, Salammbô di Flaubert, Controcorrente di Huysmans, La pelle di zigrino di Balzac, e molte altre. Dopo la liberazione torna a Genova. Le sue prose vengono ristampate; ma in questi anni la posizione di Sbarbaro nella letteratura italiana rimane appartata, per non dire marginale. Si stabilisce a Spotorno insieme alla sorella e alla zia, conducendo una vita modesta e lontanissima dai clamori dell’ambiente letterario, che sembra ricambiare l’indifferenza. Solo a partire dal 1954, con l’uscita presso Neri Pozza di una nuova edizione di Pianissimo (che reca una stesura “riveduta” accanto a quella del 1914) lettori e critica tornano a interessarsi del poeta. Alla riscoperta di Pianissimo segue nel 1955 la pubblicazione presso Scheiwiller, col titolo Rimanenze, delle poesie uscite su rivista e mai raccolte in volume. Nel 1961, lo stesso Scheiwiller offre per la prima volta al lettore un saggio esauriente della produzione in versi di Sbarbaro (Poesie) che però per volontà dell’autore esclude il giovanile Resine. Il poeta non può purtroppo godere appieno di questo riconoscimento tardivo: è di nuovo in preda alla depressione. Nel 1962 gli viene assegnato il Premio dell’Accademia dei Lincei. Il 31 ottobre del 1967 muore a Savona.
A non pochi autori piace dichiarare di aver scritto “un solo libro”. Camillo Sbarbaro – cui è dedicato un Meridiano Mondadori a cura di Giampiero Costa, con un saggio di Enrico Testa – non fa eccezione.
Un solo libro? Chi legge – o rilegge – queste sue opera omnia ha l’impressione opposta. Non è solo per la presenza nel volume di Resine (1911), l’opera giovanile esclusa dall’autore dai suoi libri riassuntivi, o quella delle poesie e prose disperse, o dei racconti: il fatto è che Sbarbaro – a dispetto della riconoscibilità della sua voce – risulta un autore multiplo, polimorfo, autore di libri diversi e spesso discordanti. La sua qualifica prevalente – come è giusto – è quella di poeta, ma a ben vedere la scrittura in versi è solo una piccola parte della sua produzione letteraria, e si riduce in sostanza a due raccolte principali, oltretutto piuttosto smilze (per quanto intensissime): Pianissimo (1914) e Rimanenze (1955).
La maggior parte del lavoro di Sbarbaro è in prosa; una prosa ricercata, “poetica” quanto si vuole, ma pur sempre prosa (Trucioli, 1920, Liquidazione, 1928, molte altre raccolte minori e testi dispersi). Il poeta stesso dichiara questa preminenza in una lettera all’amico Angelo Barile nel 1912: “Non so perché ho sempre sperato poco dalla poesia, l’ho sempre considerata per me un intermezzo, un episodio. Sento che mi abbandonerà, ma non solo: mi lascerà nelle braccia della prosa, nella quale spero molto di più…”.
Quando parla di prosa, naturalmente, Sbarbaro non si riferisce alla narrativa: i suoi racconti si riducono a una dozzina, e a scrivere un romanzo non ha mai neppure pensato; di saggi critici, poi, non c’è traccia. La prosa di cui parla è quella prosa “d’arte” che nei suoi anni di formazione e nel suo ambiente era molto in voga. Petits poèmes en prose, sul modello dello Spleen de Paris di Baudelaire (uno dei suoi autori di riferimento, insieme a Leopardi). Il contrasto tra le sue prose e il lavoro in versi salta agli occhi. Leggiamo ad esempio alcune righe dal brano Gente in tranvai, opportunamente riportato da Testa:
Nell’illuminazione, ve’ come spicca sui carbonchi degli occhi l’arco delle sopracciglia esigue! –Splendore che, ecco, si appanna. La dama piega in ascolto. Si corruccia la bella fronte; frequente, la frangia dei cigli cala sull’occhio preoccupato. –Ah, non era che un’ombra di nuvola! Radiosa ella n’esce. “Là, là!” A schermirsi dalla cosa udita, avanza – e pare lo porga – il fiore scintillante della mano. Ah, questa poi non può crederla! E l’ilarità la guadagna, spumante l’orlo della coppa. […]
A chi tende a identificare Sbarbaro col linguaggio dimesso e scarno del suo libro maggiore, Pianissimo, questa scrittura farà un effetto straniante. Enrico Testa osserva giustamente che nelle prose l’autore sembra teso a “redimere” le “condizioni del quotidiano” “con uno sforzo stilistico che l’avvicina alle prove della narrativa solariana. Con la differenza però che se questa muoveva dalla sponda dell’impossibilità del romanzo tradizionale, l’intrapresa di Sbarbaro muove da quella della dolorosa coscienza della sua personale impossibilità d’accesso alla poesia. Qui surrogata con il preziosismo del lessico e con le circonvoluzioni sintattiche”.
Il rapporto di questo autore con la poesia è sempre stato difficile: a ciò, forse, va attribuita l’esiguità della sua (pur notevolissima) produzione in versi.
Il primo libro di poesia di Sbarbaro, Resine (1911), fu pubblicato per iniziativa dei compagni di scuola, e in seguito, come abbiamo ricordato, ripetutamente rifiutato dall’autore, che non volle mai accoglierlo nei volumi delle sue Poesie. In quelle pagine, in effetti, il giovane poeta è ancora legato a forme tradizionali (frequenti i sonetti), i risultati sono acerbi, spesso bozzettistici. Di lì a poco arriverà la svolta di Pianissimo, uscito nel 1914 per le Edizioni della Voce. Nelle ventinove poesie del libro, l’originalità di Sbarbaro emerge potentemente, anche sul piano formale: il verso sembra rimuovere programmaticamente quella “musicalità” che costituisce invece un valore imprescindibile per molta poesia del tempo (penso a D’Annunzio, Pascoli, Campana) per cercare un ritmo austero, spoglio, privo di attrattive, di suggestioni, dove l’enfasi viene castigata anche sul piano fonico. Che questo sia il risultato di un intenzionale “congedo dall’estetica” (almeno in poesia) emerge particolarmente chiaro – mi pare – in un testo del 1910, pubblicato su “La Riviera Ligure” nel 1915 col titolo Organetto, ripreso in Primizie (1958) e posto da Sbarbaro in apertura del volume delle Poesie (1961).
Il testo, ancora legato in parte alla maniera di Resine, e ricco di giochi di metro e di rima a volte quasi dannunziani, ha al centro l’esperienza del poeta che, mentre cammina di notte per la città, è investito dal suono di un organetto a manovella che diffonde un volgare motivetto. La musica dapprima lo rianima, addirittura lo esalta; poi però, “quando il valzer precipita” e con un colpo secco l’organetto si richiude, la magia dionisiaca si rivela illusoria, ridicola. È qui, mi pare, che Sbarbaro prende le distanze dalla “musicalità” e dai suoi facili effetti, per puntare a un discorso poetico asciutto, scabro, ai limiti della prosasticità.
Non pochi hanno giudicato sordi, malfermi, approssimativi, persino sciatti, i versi di Sbarbaro. “Endecasillabi dinoccolati”, li ha definiti Giorgio Caproni, aggiungendo però: “Li direste in ciabatte, ma provate a imitarli!”. Leggiamo un testo di Pianissimo:
Talor mentre cammino solo al sole
e guardo coi miei occhi chiari il mondo
ove tutto m’appar come fraterno,
l’aria la luce il fil d’erba l’insetto,
un improvviso gelo al cor mi coglie.
Un cieco mi par d’essere, seduto
sopra la sponda d’un immenso fiume.
Scorrono sotto l’acque vorticose,
ma non le vede lui: il poco sole
ei si prende beato. E se gli giunge
talora mormorio d’acque, lo crede
ronzio d’orecchi illusi,
Perché a me par, vivendo questa mia
povera vita, un’altra rasentarne
come nel sonno, e che quel sonno sia
la mia vita presente.
Come uno smarrimento allor mi coglie,
uno sgomento pueril.
Mi seggo
tutto solo sul ciglio della strada,
guardo il misero mio angusto mondo
e carezzo con man che trema l’erba.
Gli anni in cui Pianissimo viene composto sono quelli che vedono da un lato l’emergere dei futuristi, dall’altro quello – meno clamoroso ma non meno rilevante – dei crepuscolari. Sbarbaro è decisamente estraneo ai primi; dai secondi lo separa la sua inclinazione a esporsi direttamente e per intero nella scrittura, rifiutando ogni strategia ironica. Pianissimo – ha scritto Pier Vincenzo Mengaldo – “risultò […] il primo vero esempio in Italia di poesia che torcesse radicalmente il collo all’eloquenza tradizionale, senza l’aria di volerlo fare”.
“Senza l’aria di volerlo fare”: questa mi sembra la caratteristica più rilevante della poesia di Sbarbaro. In primo piano, nel suo lavoro in versi, non c’è la volontà di distinguersi, di proporre nuove formule: gli aspetti stilistici e formali sono come rimossi, in nome di una disarmante immediatezza, di un’ineludibile urgenza delle cose da dire. Al centro del libro c’è la riflessione amara di un soggetto estraniato, svuotato, ridotto a “specchio”, a “macchina […] che obbedisce”, che osserva “con occhi asciutti” (lo sguardo è uno dei temi portanti) il mondo diventato “un deserto”, quasi incapace di ritrovare un legame con i suoi simili. Anche il rapporto col padre infermo – cui sono dedicate alcune poesie tra le più note del libro – è turbato da sentimenti contraddittori. La città non ha più niente di familiare, è il luogo dove vivono le “miriadi degli esseri” che il poeta rasenta di notte, nella vertiginosa scoperta che “gli uomini son tanti”. Solo la lussuria e il dolore scuotono l’indifferenza del soggetto “pietrificato”, ma anch’essi non durano. A contrastare questo scenario desolante c’è solo il rapporto profondo con la natura, la Terra cui è dedicata una delle poesie più commoventi della raccolta:
Il mio cuore si gonfia per te, Terra,
come la zolla a primavera.
Io torno.
I miei occhi son nuovi. Tutto quello
che vedo è come non veduto mai;
e le cose più vili e consuete,
tutto m’intenerisce e mi dà gioia.
In te mi lavo come dentro un’acqua
dove si scordi tutto di se stesso.
La mia miseria lascio dietro a me
come la biscia la sua vecchia pelle.
Io non sono più io, io sono un altro.
Io sono liberato di me stesso.
Terra, tu sei per me piena di grazia.
Finché vicino a te mi sentirò
così bambino, finché la mia pena
in te si scioglierà come la nuvola
nel sole,
io non maledirò d’essere nato.
Io mi sono seduto qui per terra
con le due mani aperte sopra l’erba,
guardandomi amorosamente attorno.
E mentre così guardo, mi si bagna
di calde dolci lacrime la faccia.
Nel mondo disincantato e amaro di Sbarbaro si affacciano a volte momenti di commozione come quello appena riportato. Il tema dell’amore, invece, sembra del tutto estraneo al poeta di Pianissimo, cantore piuttosto dell’aridità e dell’angoscia, o del torbido desiderio sessuale. L’unica – e preziosa – eccezione sono le cinque poesie intitolate Versi a Dina, uscite nel 1931 sulla rivista “Circoli” e inserite nel volume Rimanenze nel 1955. Qui l’autore ci sorprende, affrontando senza riserve e senza schermi il suo sentimento, che si presenta come una liberazione da ciò che lo opprimeva. Vediamolo nel quarto testo della serie:
E la vita sapessi a me che fu,
Amore, prima che ti conoscessi…
Un deserto la terra; a volte, il mondo
una sfocata immagine che trema.
I volti consueti dai fantasmi
visti in sogno, il mio giorno dalla notte
poco diverso; sì da dubitare
se veglia o sonno fosse la mia vita.
Uomo che s’atterrisce della piazza,
arretra innanzi a quella vacuità,
quante volte dal sonno ripugnai
al giorno che le palpebre forzava!
Un dì nella città tumultuosa
dove fughe di strade a vista d’occhio
aprono prospettive d’infinito,
disagio da stupore in me nasceva.
M’affaticava la città col suo
ànsito
quale andare di fiume che non trovi
foce; m’impauriva con la mole
quasi colosso che non abbia luce
di sguardo…
Quando, improvvisamente come oscuro
disegno che coi dadi bimbo tenta
s’illumina del dado che mancava,
si compose il tumulto, si placò
l’ànsito, fiume che si placa in mare,
in due che s’abbracciavano nell’ombra.
Qui Sbarbaro evoca tutte le immagini della propria angoscia, chiamandole a raccolta in un crescendo in cui lo sgomento prende forma di paesaggio urbano, fino a fare sfociare le tensioni di quell’architettura inquietante nell’abbraccio di due innamorati, come se proprio a questo tutta la sinistra energia della scena tendesse. Si noti come l’elemento patetico di questo scioglimento sia temperato dal poeta attraverso il ricorso alla terza persona (“due che s’abbracciavano”, non “noi che ci abbracciavamo”) che, oggettivando quell’abbraccio, lo carica di una suggestione più profonda.