Complice la notte, di Giuseppina Manin / La pianista e Stalin
È la notte tra il 28 febbraio e il primo marzo 1953, "nella dacia di Kuncevo, una manciata di chilometri da Mosca, dentro un bosco di querce e pini, aceri e betulle, tutto è silenzio. La neve cade senza tregua, copre ogni rumore, tranne quell’insistente strofinio sulla gommalacca del 78 giri, Mozart, Concerto per pianoforte e orchestra K 488, edizioni Melodija, e quel rantolo affannoso che strema il respiro, soffoca ogni possibile grido di soccorso”.
L’uomo d’acciaio, lo zar rosso, il Piccolo padre, Iosif Vissarionovič Džugašvili, in arte Stalin, giace riverso sul divano, il braccio proteso verso il pavimento, già oltre l’estremo confine tra la vita e il silenzio.
Complice la notte di Giuseppina Manin (Guanda, 2021) si apre in questa stanza blindata nella quale, alla fine di tutto, sopravvive solo il soffio del grammofono.
La protagonista del romanzo è in quel disco che gira a vuoto, nel fruscio della puntina nel solco muto: Marija Veniaminovna Judina, la “pianista più straordinaria, l’artista ribelle amica di tutti i ribelli, da Bachtin a Pasternak, da Mandel’štam a Evtušenko. Una fuorilegge della musica, incurante di regole e forme”, ribattezzata in gioventù la Monna Lisa di Nevel, sua città natale, infervorata dalla Rivoluzione bolscevica a diciott’anni, studentessa al conservatorio di Pietrogrado con Šostakovič e Sofronickij, stimata professoressa di musica e grandiosa concertista, nata ebrea e convertita al cristianesimo ortodosso, innamorata di Bach e di Cristo, votata a percorrere con la determinazione e la purezza di una pellegrina l’unica strada che conosce per arrivare a Dio, quella dell’arte.
Durante la durissima resistenza di Leningrado ai nazisti Marija si arruolerà nella Brigata degli artisti suonando per i soldati nella città sotto assedio, terrà concerti in Siberia e ne approfitterà per portare viveri ai suoi amici dissidenti esiliati, a Radio Mosca contribuirà a riempire le lunghe notti di guerra e bombardamenti con la sua musica quando, per ordine di Stalin, l’orchestra di Stato ogni notte aveva il compito di lenire gli animi degli ascoltatori vigili nel buio, appesi all’altro capo della filodiffusione e in attesa di notizie dal fronte.
Proprio in una di queste notti bianche accade la vicenda più nota della biografia di Marija Judina, quella che la lega all’uomo più potente della Russia del suo tempo.
È il 1944, nell’auditorium di Radio Mosca Marija Judina suona il Concerto n. 23 K 488 di Mozart per l’enorme platea di insonni in ascolto, la sua musica è un filo teso con infinite diramazioni e uno dei capi porta dritto al Cremlino, nella stanza dello zar rosso che cerca il sonno sul fondo di svariati bicchieri di vino georgiano. Stalin non dorme, per lui la notte è il tempo dell’ascolto. L’Adagio che riecheggia nella stanza spazza via i pensieri meglio del vino, la voce del pianoforte lo riempie, straziante e irresistibile, lascia affiorare inquietudini e fragilità e le consola, le scioglie nelle lacrime rare dell’Uomo d’acciaio.
Poco dopo a Radio Mosca squilla il telefono nel silenzio dell’auditorium ormai vuoto: Stalin vuole la registrazione di quel concerto trasmesso in diretta, una registrazione che non esiste, una richiesta impossibile a cui non si può obiettare. Marija ripeterà il concerto, “quell’Adagio che Stalin tanto brama, lei lo trasformerà in un implacabile, meraviglioso, atto d’accusa. In un requiem in memoria delle tante vittime della sua ferocia, i tanti amici scomparsi, finiti in qualche landa della Siberia, umiliati, vessati, sparati alla schiena quando, esausti, crollano al suolo”.
Il disco con quel bis improvvisato la mattina dopo è sulla scrivania di Stalin, che per premiare l’artista di quella straordinaria esecuzione manda a Marija una lettera e ventimila rubli, i quali finiranno tutti al Pope di San Nicola, la sua chiesa, la chiesa di Tolstoj. A Marija Judina viene da ridere: “il denaro di Stalin che finisce a sostegno dell’oppio dei popoli!”, in una lettera rendiconterà a Stalin la destinazione del suo regalo, aggiungendo che pregherà per i suoi grandi peccati nei confronti del popolo e della Russia.
Il romanzo di Giuseppina Manin dimostra come questo episodio, il più conosciuto, sia solo uno dei lampi di passione, coraggio e libertà che costellano la vita della più grande pianista russa del Secolo Breve e ne lasciano intuire forza e temperamento. Fin dagli anni della giovinezza Marija si sente votata alla verità dell’arte in ogni sua forma, “l’anima esige un eterno, instancabile lavoro di arricchimento – scrive – quanto bisogna studiare e che felicità è pensare», e per gli anni a venire la sua energia intellettuale sarà un catalizzatore di idee, parole e musica, a partire dal legame con Lev Vasil'evic Pumpjanskij e Michail Bachtin (Mich Mich) a Nevel, dove fondano un circolo con l’intento di “soffiare sul fuoco delle idee, accendere i roghi dell’inquietudine, del sovvertimento del pensiero”. “Ripetevamo le parole del poeta Blok: «sento il fruscio delle pagine di storia che si voltano»”, scrive Marija nei diari “ci alzavamo e ci coricavamo con la poesia”.
Diplomata al conservatorio Judina è chiamata in cattedra, professoressa amatissima dai suoi studenti, che grazie a lei scoprono i “suoni eretici” di Bartók, Hindemith, Stravinskij, Berg, Messiaen, così lontani dal canone sovietico della tradizione russa popolare. Marija finisce sotto la lente dei censori sovietici, fino alla gogna della Gazzetta Rossa, che le dedica un denigrante articolo dal titolo “Una strega in cattedra”. Secondo le malelingue dell’organo di stampa ufficiale del Partito Comunista Marija Judina è una personalità ambigua e sospetta, veste sempre di nero, porta al collo una croce di legno e il cilicio sotto la tonaca ed è solita dormire non in un letto ma nella vasca da bagno! Di lì a breve verrà licenziata dal conservatorio in quanto “pericolosa esponente della mistica religiosa, un’esperta di ipocrisie e di trucchi clericali” e “araldo della controrivoluzione” e sconterà un periodo d’esilio a Tbilisi.
Incurante dei pregiudizi nei suoi confronti, una testa calda dalle pessime frequentazioni, Marija continua a coltivare amicizie pericolose; “nelle terse notti di Pietroburgo le finestre di casa Judina brillano fino a tardi, punti luminosi nell’oscurità, a indicare un approdo sicuro”, e a casa sua si incontrano alcuni tra i maggiori artisti, poeti e letterati del tempo, come Achmatova, Cvetaeva, Mandel'štam, Bachtin. Amici come Boris Pasternak, altro nome sulla lista nera del Soviet, che a casa di Marija tiene la prima lettura pubblica del suo testamento letterario, Il Dottor Zivago, e Judina al pianoforte suona i Preludi di Chopin per placare le sue emozioni e fargli coraggio.
Troppo spesso i suoi amici coincidono con quelli che il regime considera “nemici del popolo” e via via li perde, arrestati, spediti nei gulag, relegati nelle campagne del Kazakistan, “il confino dei sopravvissuti, un purgatorio senza speranza di paradiso”, o addirittura fucilati, senza misericordia.
“Vedi quante poltrone vuote qui intorno? Ciascuna di esse potrebbe raccontare la storia di una scomparsa, di un’assenza lancinante” le dice durante una serata a casa di Anna Achmatova Nikolaj Punin storico d’arte e commissario all’Ermitage, già scampato all’arresto proprio per intercessione di Achmatova.
Anche Marija si spenderà fino alla fine per strappare gli amici alle condanne a morte o all’esilio, per mitigarne le pene, usando la sua fama e tutti i contatti che ha maturato nel tempo, anche a costo di umiliarsi, come quando va a Mosca, a casa di Gor'kij e suona per lui tutto quello che le chiede per salvare Bachtin dal gelo delle Solovki.
Nonostante le accuse che piovono anche sul suo conto e i noti rapporti con artisti dissidenti, Marjia sembra uscirne indenne, come l’amica Achmatova, l’enorme fama la salva dalla morte, ma, come dice Punin, “ci sono tanti modi di uccidere”.
A Marija vengono via via tolti gli appigli; licenziata più volte, perde lavoro e fonti di sostentamento, le vengono strappate amicizie e possibilità, le viene impedito di lasciare la Russia e tenere concerti all’estero, dove la reclamano per l’incredibile talento e quella maniera unica di suonare il pianoforte.
Ma lei non demorde, ogni volta che insegna o suona lo fa tenendo fede alla sua passione, alla sua vocazione: “Io passerei la vita ad ascoltare e suonare Bach – scrive – ma devo, dobbiamo, suonare questa musica contemporanea, perché è un grido di disperazione. E la disperazione è il primo passo sulla soglia del pentimento”. Continuerà a suonare la musica proibita, “nonostante i divieti sempre più incalzanti, con un ardimento militante, da moschettiera intrepida, indipendente da ogni potere, al servizio della bellezza, della verità, della musica e le sue avanguardie”.
Grazie a testimonianze, lettere, diari e ricerche storiche Giuseppina Manin mette a punto una biografia letteraria che ricostruisce le vicende della protagonista soprattutto a partire dalle relazioni, dai legami, dalle amicizie e dalle passioni, ma anche dalle perdite, dalle scelte coraggiose, dalle sconfitte. Sono gli incontri a far luce sulla sua vita, incroci e scambi sempre all’insegna dell’arte, della poesia, della musica, che illuminano quel pezzo della sua storia personale che attraversa la Storia con la S maiuscola e ne rivela ombre e contraddizioni.
La personalità che affiora dal romanzo di Manin è imponente, umorale e magnetica, una donna trasandata ma estremamente affascinante, generosa e incorruttibile, che non sa rinnegare né la sua fede né la musica, una “monaca in scarpe da tennis” che regala tutto quello che ha ad amici bisognosi e finisce per vivere di stenti, che indossa solo vestiti neri e lisi ma si trasfigura sul palcoscenico, semplice e ascetica come una sovrana.
Marija è la versione femminile dello Jurodivyj, l’asceta russo, lo stolto di Cristo, che “incarna la libertà interiore, la coscienza del popolo, la sua voce spezzata. È l’idiota sapiente e temerario che denuncia le malefatte del potere e del tiranno. È l’artista che vede quel che gli altri non vedono, che grida quel che gli altri tacciono”, è lei che, a differenza di tanti artisti suoi contemporanei, non si piega neppure davanti allo zar rosso, e ne esce indenne, forse proprio per la sua purezza abbagliante, impossibile da ignorare, che travolgeva chiunque la ascoltasse suonare. La pianista di Stalin, amata e detestata dal Piccolo padre “esasperato dalla sua temerarietà, soggiogato dal suo carisma”, che aveva ritrovato nella sua musica qualcosa di sé che non sapeva dire, forse qualcosa che avevano in comune, “la parte più folle e misteriosa dell’anima russa”.