3 agosto 2014 - 3 agosto 2019 / Come narrare le atrocità umane senza perpetuare il dolore?
“Sono venuti a Shingal per annientare tutti gli Yazidi. Quando sono arrivati a Shingal noi eravamo in Europa. Noi siamo quelli che non sono stati uccisi. Noi non viviamo. Dico, semplicemente, che non siamo stati uccisi.” (Ronja Othmann)
A Ronya Othmann, una ventisettenne yazida cresciuta in Germania, è stato conferito il “Premio del pubblico” alla 43esima edizione delle Giornate Letterarie di Klagenfurt, per il testo Vierundsiebzig. Ha dato voce a un avvenimento indescrivibile, le cui conseguenze sociali, politiche e psicologiche sono venute alla luce solo con il passare tempo. Nel 2018 le Nazioni Unite e il Consiglio d’Europa gli hanno dato un nome: genocidio.
Il 3 agosto 2014, gli Yazidi – popolazione del Nord dell’Irak che pratica una religione antichissima, con radici preislamiche e precristiane – sono stati assaliti da gruppi armati del cosiddetto Stato Islamico. Gli uomini, e gli adolescenti maschi, non disposti a convertirsi immediatamente alla “religione” fanatica dei fondamentalisti, sono stati fucilati; le donne, e le bambine di età superiore ai nove anni, sono state rapite e poi vendute; anche i bambini maschi più piccoli sono stati rapiti, per essere indottrinati e quindi addestrati a missioni di guerra suicide.
Cinquantacinquemila Yazidi sono fuggiti verso le montagne del Sinjar, senz’acqua nè cibo. Combattenti curdi dello Rojava hanno potuto allestire un corridoio per evacuare una parte di loro. Ma la maggioranza è stata raggiunta dallo Stato Islamico durante la fuga. L’aiuto aereo umanitario da parte degli USA è arrivato solo quattro giorni più tardi.
Il massacro era stato annunciato come tale dai canali di propaganda dello Stato Islamico. Oltre alla volontà di conquista, doveva essere una vendetta. Il 10 giugno, lo Stato Islamico si era impadronito di Mossul e del territorio circostante. Ma, un paio di settimane prima del massacro, di fronte alle truppe curde era stato costretto a ritirarsi di nuovo, cedendo quelle conquiste. L’annuncio anticipato che sarebbero stati massacrati gli uomini e violentate tutte le donne faceva parte della strategia usuale dei fondamentalisti. In questo modo interi centri abitati venivano abbandonati prima del loro arrivo e l’avanzata dello Stato Islamico non trovava ostacoli. Il piano dei fondamentalisti di impadronirsi del Sinjar, per conquistare di seguito le aree del Kurdistan Iracheno, era noto a livello internazionale. L’attacco era stato annunciato precisamente per quelle settimane. Le truppe del Partito Democratico Curdo (PKD) avevano promesso la loro presenza nella zona di Shingal. Ma il 3 agosto 2014 gli Yazidi erano completamente soli nelle loro case e nei loro campi.
I superstiti di quella giornata – in particolare le donne e i bambini sopravvissuti alla prigionia dello Stato Islamico negli anni seguenti – hanno subito traumi inimmaginabili (vedi: articolo “Trauma Inimmaginabile” di Doppiozero 14.5.2018). Di almeno tremila non si hanno più notizie. Fino ad oggi sono state scoperte 60 fosse comuni.
Ronya Othmann fatica a trovare parole per descrivere il momento in cui le sono arrivate le notizie dall’ Irak. Alla televisione era apparsa la deputata Vian Dakhil, che tentava di parlare davanti al parlamento iracheno:
“Stava cercando di descrivere cosa era successo a Shingal, ma in mezzo al discorso ebbe un crollo e fu portata fuori da due parlamentari. Il moderatore e il reporter della televisione curda, anziché riferire di Shingal, sono scoppiati a piangere. Semplicemente elencando i fatti, contando i morti, nominando la data 3.8.2014 […], si introduce qualcosa per cui non ci sono parole. L’indicibilità si scorge anche quando è presente un discorso, è sottostante al linguaggio. L’indicibilità struttura il testo scritto, la grammatica, la forma, le parole”.
Nel 2015 un migliaio di donne e di bambini yazidi piccoli – che erano riusciti a fuggire dalla prigionia dello Stato Islamico e vivevano in un campo per rifugiati in Irak – sono stati trasferiti in Germania tramite un ponte aereo, a seguito di trattative tra lo psichiatra curdo Jan Kizilhan ed il governo del Land Baden Württemberg. Tutti avevano perso gran parte dei loro famigliari. Erano traumatizzati dalla violenza e dalle umiliazioni subite. In Germania sono stati ripartiti fra trentuno comuni del Land, in luoghi protetti destinati appositamente a loro. Rifugi che, per prevenire rappresaglie da parte dei fondamentalisti islamici, si cercava di tenere segreti: ma non è facile nascondere completamente mille persone, soprattutto quando si sta cercando di reinserirle in una normale vita civile.
Molti Yazidi avevano già parenti in Germania: da decenni vi vive la più grande diaspora yazida d’Europa, circa 80.000 persone. In genere si sono integrate bene. Il tedesco di quelli che sono arrivati non troppo avanti in età è fluido come quello di Othmann. Per i rifugiati giunti dopo il 2014 i processi di integrazione saranno invece complessi. Gran parte di loro erano contadini e piccoli artigiani: fanno fatica a inserirsi in una società urbana, laica e occidentale. Le donne sono abituate a stare per maggior parte della giornata in casa; quelle più anziane sono spesso analfabete. Ma la novità sta nel fatto che i loro vissuti profondamente traumatici ostacolano qualsiasi tipo di apprendimento. “Come riuscire a imparare tedesco...”, mi dice una donna, dopo che era stata bocciata per la terza volte all’ esame di lingua, a conclusione dei corsi offerti dalla Germania. Mentre parla, mi mostra tre foto sbiadite che stringe tremando: “...marito ucciso, zio ucciso, fratello ucciso, figlio ucciso, figlie non trovate più... come imparare tedesco?”
Sia in Germania, sia in Canada – il secondo paese che ha accolto la maggior parte dei rifugiati – lo stato psicofisico delle donne salvate dalla prigionia dei fondamentalisti ha messo a dura prova tutti gli strumenti terapeutici esistenti per il trattamento dello Stress Post-traumatico. Le donne rifiutavano l’offerta di psicoterapia individuale: sia perché appartengono a una cultura profondamente comunitaria, sia per la intollerabilità dei ricordi che questo comportava. Persino quel poco che riuscivano a raccontare con l’aiuto di un interprete tendeva ad aggravare i loro sintomi. Spesso gli stessi traduttori, sconvolti dai racconti, avevano bisogno a loro volta di un aiuto. Un minimo di stabilizzazione si raggiungeva affrontando, più che aspetti psicologici, quelli materiali: fornendo per esempio ripetute rassicurazioni sulla sicurezza e la protezione fisica del luogo. In effetti le entrate di questi centri di accoglienza per 4 anni sono state sorvegliate dalla polizia. Erano poi utili cure mediche e corporee, come i massaggi. O semplicemente abbracci e attività come la preparazione del pane, il cucire, il curare le piante. Con grandissima cautela potevano poi, gradualmente, essere proposte terapie basate sull’espressività non verbale.
Negli ultimi quattro anni qualcuno ha tentato di narrare questa tragedia. Sono stati scritti libri, sono stati girati documentari. Nei campi dell’Iraq, e nella Regione Autonoma del Kurdistan, dove oggi vivono 250.000 Yazidi, sono state audio-registrate migliaia di interviste, con l’obiettivo di raccogliere testimonianze per procedimenti penali internazionali. In Italia sono usciti due libri: Le regine rubate del Sinjar e Il genocidio degli Yazidi di Simone Zoppellaro. Tutto questo, però, fa nascere una domanda. È possibile chiedere alle vittime di narrare le violenze inimmaginabili che hanno subito senza rischiare di esporle nuovamente a un vissuto di violenza: cioè a una ri-traumatizzazione, tramite il racconto fatto da loro, ma anche da altri? Quali domande e quali atteggiamenti dell’interlocutore servono alle vittime per uscire dall’isolamento, che lo stress post-traumatico comporta, e quali azioni sono invece controproducenti?
Nadia Murad, che era riuscita a fuggire dalla prigionia dello Stato Islamico, è stata una delle prime donne ad esser intervistata da televisioni internazionali. È poi diventata portavoce dei Yazidi, denunciando i crimini dello Stato Islamico sui canali mediatici di tutto il mondo. Nel 2018 ha ricevuto il premio Nobel per la Pace. Ancora Ronya Othmann:
“Mi viene in mente l’intervista che una moderatrice canadese fece a Nadia Murad. Mi viene in mente quando le ha chiesto come ci si sente ad essere trattati come un oggetto: “Come si è sentita quando l’hanno usata così? Come vi hanno suddivisi? Cosa le hanno fatto? L’hanno picchiata? E poi l’hanno violentata, giusto? La continuavano a toccare… Come ha sopportato tutto ciò?”
Questo vogliono sentire, dico a mia madre. Così non hanno più bisogno di andare al cinema, le dico. Mio padre dice: quando il bue crolla, ci sono molti coltelli.”
Nadia Murad e altre donne yazide intervistate sono scoppiate ripetutamente in pianto davanti alle telecamere. Durante un sopralluogo in Irak è stata filmata una scena particolarmente estrema. Accompagnata dalla videocamera, Murad si avvicina alle fosse comuni scoperte dalle forze speciali britanniche, dove erano accatastati i resti di decine di migliaia di uomini yazidi fucilati. A Murad si spezza la voce, il suo corpo sottile trema. Poi il suo pianto si fa singhiozzo e l’inquadratura si allontana ripettosamente. Rispettosamente? Non era stato tutto costruito apposta? Non era prevedibile la crisi? Il regista ha seguito un criterio oggi scontato per le produzioni documentaristiche: mostrare quello che succede ora e non quello che è successo in passato.
Una scena molto simile è contenuta in un documentario tedesco. Riguarda una donna yazida che – si apprende dal film – all’interno di una struttura ospedaliera ha concluso un percorso di psicoterapia comportamentista durato alcuni mesi. Si è così sentita pronta a tornare in Irak e a cercare la sua casa di origine. La videocamera la accompagna in aereo, la ragazza guarda fuori dal finestrino con il suo rossetto leggermente sbavato; ostenta una esagerata volontà di essere forte, ma sembra un po’ nervosa. Allo spettatore del film sale l’ansia. Si può immaginare che le sia stato detto: “Bisogna affrontare questi problemi”, “il mondo deve conoscere un simile orrore… puoi farcela a raccontarlo tu”. Però allo spettatore nasce un dubbio: sia dal punto di vista terapeutico che giornalistico, sarà davvero questa la modalità migliore per raccontare un’atrocità? E teme quello che arriva in seguito. La videocamera accompagna l’atterraggio, poi il viaggio della donna in macchina su una strada sterrata, infine l’incontro con uno zio che non vedeva da 4 anni: c’è un abbraccio e ovviamente l’ emozione in tempo reale, come prevede la regia. Fino ad arrivare, dopo un altro percorso in macchina, alla casa nativa della donna. Uno zoom potente. I resti di una casa, che non è solo completamente distrutta, come fosse passato un terremoto. È un’abitazione violentata: anche tutto quello che stava all’interno è stato minuziosamente fatto a pezzi, ogni singolo oggetto è stato demolito, calpestato, annientato. La ragazza scivola per terra come un sacco vuoto. Il regista è riuscito a mostrare il “qui e ora”. Ha narrato qualcosa? Ha messo in scena qualcosa? Ovviamente era una “realtà” vera e non aveva niente di “posticcio”, come direbbe un gergo giornalistico. Dalle scienze di laboratorio, sappiamo però che l’osservazione di un esperimento influenza l’esperimento stesso. A maggior ragione, questo non può avvenire per lo stato psichico di una persona? Dal documentario si apprende poi che la ragazza è tornata in Germania; ha dovuto trascorrere altri tre mesi nella struttura ospedaliera per seguire una nuova terapia psicologica.
Era necessario? Era utile? Per chi?
Domande di reporter, moderatori e psicologi: queste messe in scena non puntano al crollo emotivo? Tutto ciò ha spesso un effetto ritraumatizzante. L’interezza psicofisica di queste persone viene nuovamente esposta alla violenza, accompagnata da un definitivo senso di impotenza. Il pianto straziante non ha necessariamente un effetto catartico, al contrario. Se per lungo tempo non è presente un'altra anima che, grazie alla propria integrità, è in grado di far fronte a questo risucchio di vuoto, tende a instaurarsi un circolo vizioso. La soglia oltre la quale si percepisce come minaccioso uno stimolo si abbassa, mentre aumenta la tendenza a richiamare in vita l’evento traumatico. Questo porta a due reazioni, apparentemente contrapposte. Riconducibili, però, a un’unica circostanza: l’impossibilità di elaborare l’evento traumatico. In un caso dall’esterno si osservano apatia e isolamento, mentre la condizione psicosomatica della persona è in continuo stato di allarme. Nell’altro, tende all’iperattività e a raccontare l’evento traumatico compulsivamente a chiunque. In entrambi i casi ci si identifica man mano con il ruolo di vittima.
Come terapeuti ci domandiamo in quali condizioni un’eruzione emotiva possa essere effettivamente risanatrice e portare a un’elaborazione. Il primo passo di qualunque terapia consiste nel creare, assieme al paziente, uno spazio esternamente e internamente protetto. Condizione indispensabile per l’instaurarsi di questo spazio – e dunque per l’elaborazione – è l’integrità del terapeuta e la sua capacità di provare empatia. Essa prescinde dal suo ruolo di medico e dal suo metodo, qualunque esso sia.
All’Università di Tubinga attualmente vengono testati vari metodi di terapia del trauma con i migranti. In genere queste ricerche forniscono risultati contrastanti, poiché è difficile quantificare la componente determinante, quella appunto umana.
La possibilità di ri-traumatizzazioni si fa ancora più complessa quando si tratta di porre alle vittime domande necessarie per un percorso giuridico.
A Berlino sono iniziate le udienze del primo processo riguardante questo genocidio. Una cittadina tedesca, Jennifer W., militante dello Stato Islamico, è stata arrestata dopo il suo ritorno in Germania. È accusata di omissione grave di soccorso, per aver lasciato morire di caldo e di sete una bambina yazida di 5 anni. La bambina era stata incatenata per l’intera giornata in un cortile. La madre della bambina – una donna di quarant’anni, che oggi ne dimostra infinitamente di più, e che ha visto sua figlia morire – è la testimone più importante. Nella seconda udienza il giudice le ha posto una domanda, che evidentemente a lui sembrava semplice: “Quando e dove ha visto la sua bambina per l’ultima volta? ” Questa domanda è preoccupante anche per terapeuti con esperienza di disturbi post-traumatici molto meno gravi: può facilmente causare uno stato dissociativo. In questo caso, la madre ha detto con un filo di voce: “In Irak”. Ovviamente il giudice si aspettava una risposta più precisa. Ma questa generalizzazione era forse l’unico modo di cui disponeva la madre per evitare un ricordo che poteva farla scivolare in una confusione mentale. (Da Spiegelonline 05/07/2019 e 18/07/2019).
Il rischio di ri-traumatizazzione è alto anche per le migliaia di interviste fatte nei campi dell’Irak alle donne yazide, allo scopo di individuare dei colpevoli e portarli davanti a tribunali nazionali o internazionali.
Il genocidio degli Yazidi ha portato a nuovi studi sulle conseguenze dei traumi psicologici estremi. Questi sono destinati a influenzare discipline diverse, come la pedagogia, la medicina, la psichiatria, il diritto. Anche i semplici insegnanti di scuola dovranno sapere perché un bambino con vissuti traumatici non riesce a concentrarsi. Chi gestisce i corsi di lingua straniera per adulti, dovrà capire perché certe persone falliscono ripetutamente negli esami. E per il direttore di un centro rifugiati sarà necessario accettare novità come la vicenda della madre la quale ha perso tutti i figli tranne uno, e che diviene completamente apatica: anzi, non si alza dal letto neppure quando l’unico figlio sopravvissuto le mostra con orgoglio la medaglia che ha vinto in atletica. Per gli accoglitori in Germania, sarà necessario capire anche perché un bambino yazida viene sgridato dai sui genitori, se a scuola ha fatto amicizia con un bambino musulmano. E non capirà più cosa è la realtà: la maestra che dice “tutti i bambini devono esser considerati uguali” o le emozioni che erompono a casa?
Torniamo alla nostra domanda: come narrare atrocità senza perpetuare il dolore?
Milioni di persone sono state aiutate ad elaborare i traumi della prima e della seconda guerra mondiale tramite racconti scritti e mezzi visivi. Ma è stato necessario molto, molto tempo. Un capolavoro come il lungo filmato Shoa, che si basa su interviste e racconti di terzi, può indubbiamente rappresentare una cura collettiva. Ma c’era bisogno che passasse tanto tempo tra l’evento e la sua narrazione. Voler raccontare in fretta, come richiedono i mercati, è rischioso.
In diversi documentari sugli eventi del 2014 yazida, ci accorgiamo invece che sono stati inseriti spezzoni di videofilmati propagandistici dello Stato Islamico: bandiere nere issate su colonne di jeep, esibizioni di coltelli affilati, urla eccitate: “Dove è la mia ragazza yazida?” Per raccontare l’atrocità i registi si sono appropriati dei mezzi di comunicazione dell’aguzzino. Hanno utilizzato un suo strumento, una sua arma. Questa operazione è rischiosa. Una persona della comunità yazida sopravvissuta al massacro difficilmente sarebbe in grado di vedere riprese simili, senza tornare indietro nel processo di superamento del trauma.
Possiamo tracciare qualche analogia con il dibattito riguardante i film di propaganda nazisti, ancora custoditi in quantità negli archivi tedeschi. Si tratta sia di storie fittizie ispirate a un razzismo abominevole, come la pellicola Der Jude Süss, sia di indottrinamento propagandistico, come il materiale riguardante la Hitlerjugend (Gioventù hitleriana). Questi filmati possono essere proiettati solamente all’interno di contesti didattici e di ricerca storica, mentre non sono disponibili al pubblico. Lungo è stato il dibattito su come rispettare due principii contrastanti: da una parte la libertà di informazione, dall’altra la volontà civile di non esporre il pubblico a immagini moralmente ma anche psichicamente nocive.
Quando non sa come procedere, la psicologia si rivolge spesso alla creazione artistica. Come sono state narrate nei grandi testi letterari le atrocità che un essere umano affligge all’altro? Nella tragedia greca, che abbonda di orrendi crimini, non viene mai rappresentato un atto di violenza in palcoscenico, non viene versata nessuna goccia di sangue: le uccisioni si svolgono “fuori”. È un messagero che lo racconta e lo spettatore apprende da lui. Goethe ha rispettato questo principio nel Faust, quando narra la distruttività totale di Mefistofele che incendia la capanna della anziana coppia Filemone e Bauci: tutto viene descritto da un guardiano appostato in cima alla torre.
Noi – terapeuti o giornalisti – cosa possimo imparare da questo?
Per non essere traumatizzante, un racconto tragico deve essere mediato da una o più presenze umane. Ronya Othmann sembra intuirlo. Spesso narra qualcosa che ha sentito narrare da qualcuno, il quale a sua volta l’ha sentito raccontare da altri. Include – non importa se consapevolmente o meno – addirittura due o tre passaggi, due o tre persone che testimoniano, filtrando in questo modo le atrocità moderne tramite l’antica figura letteraria del racconto nel racconto.
“Guarda questa donna, dice mia zia indicando una signora con un vestito, capelli e foulard bianchi, che è seduta in un angolo della tenda. Spalle e testa affossati. Riesco malamente a scorgerne il volto. Da quando lo Stato Islamico è entrato nel suo paese, quest’anziana signora non ha più aperto bocca. E non solo non profferisce parole, non le accoglie neanche più. L’indicibilità si è iscritta nel suo corpo. Non alza lo sguardo nemmeno una volta: né quando entriamo nella tenda, né mentre stiamo seduti, né quando ce ne andiamo. Nella mano sinistra tiene – me ne accorgo solo uscendo – un ciottolo.”
Più avanti l’autrice torna su questa scena, come se non le avesse dato pace, come se richiedesse un’altra descrizione, un’altra cornice, ancora contenimento. Questa volta Othmann fa un tentativo, aiutandosi con un grandangolo che le permette di avvicinarsi gradualmente. Apre con le parole “io scrivo”. Come un’invocazione per riuscire a tenersi assieme, mentre mantiene lo sguardo su ciò che ha visto.
“Io scrivo: sono stata in un paesaggio. In quel paesaggio c’era un accampamento. Nell’accampamento una tenda e nella tenda un’anziana signora. E nella mano dell’anziana signora c’era un ciottolo.
Io scrivo: ho visto. L’Io è un testimone. Parla eppure non ha lingua.”
L’inquadratura da paesaggio e accampamento si focalizza sempre più, fino a far sparire anche la signora, fino a mostrare solo il ciottolo contenuto in una mano. Come fosse l’unico elemento sopravvissuto. Questo è un racconto.
Le atrocità semplicemente registrate tramite audio o video, il “footage reale”, non sono invece racconto: c’è al contrario il rischio di rendersi responsabili del perpetuare un male. Da una prospettiva psicologica, il male non può essere quasi mai affrontato frontalmente, solo di sbieco: solo con uno scudo, che ne mostri l’immagine riflessa, come fece Teseo per difendersi dallo sguardo diretto di Medusa. Rappresentare il male direttamente pietrifica, traumatizza. Niente di più falso, per la nostra psiche, che dover ascoltare urla “dal vero”: è più nocivo di una messa in scena, è solo una rappresentazione o-scena. L’unica maniera di avvicinarsi a una narrazione inimmaginabile è farla entrare lentamente nel proprio corpo, nel cuore, nella mente. Si deve essere capaci di tacere e, allo stesso tempo, rimanere esposti a quello che è successo.
Oltre al problema della ritraumatizzazine, c’è un altro motivo per evitare i racconti frettolosi: essi sono semplificatori, tendono a squartare una situazione separando bianco e nero, bene e male. Qualsiasi realtà, nella quale ci siano vittime e aggressori, è complessa e include zone grigie. Nel caso degli Yazidi, i racconti più dolorosi non riguardavono l’assalto di uomini incappucciati che urlavano i comandi in arabo, o comunque con un accento straniero. I racconti più dolorosi riguardavano la rivelazione di parole urlate da sotto il cappuccio nella loro stessa lingua: parole in dialetto curdo, simile al loro, mani che puntavano il fucile rivelatesi mani di un vicino, di persone i cui genitori e i cui nonni per generazioni avevano convissuto con i loro genitori e i loro nonni. Forse per questi vicini era venuta l’ora propizia per impadronirsi di una casa, di un campo, di un pozzo, di un’officina, di un gregge di pecore. Forse questi vicini, che non erano mai stati religiosi fanatici, potevano, nel momento dell’assalto, essere anche relativamente ignari del piano dello Stato Islamico. Forse sarebbe bastato loro un rapido bottino di guerra e non avrebbero necessariamente decapitato i padri di fronte ai figli, fucilato migliaia di persone in un solo pomeriggio. Ma era già troppo tardi, il sole nel cielo di quel tre agosto era già collassato e non c’era più salvezza né per le vittime né per gli aguzzini.
Per illustrare quanto tempo sia necessario per arrivare a narrazioni costruttive vorrei accennare a un capolavoro del regista tedesco Michael Verhoefen, il quale ha indagato pazientemente in una zona grigia, dove si riflette l’eco privata dell’odio collettivo. Molti suoi documenti dimostrano che l’operazione razziale nazista non sarebbe stata possibile senza l’implicita e fluida collaborazione di una gran parte della popolazione, di una rete capillare di “vicini di casa”, i quali senza fare troppo rumore erano disposti a “prendere in carico” (übernehmen era la parola ufficiale, artificialmente depurata dal senso violento dell’atto) una villa di quattro piani con i mobili antichi, a “mandare avanti” (sich kümmern, era il termine depurato) una fabbrica di birra: che i proprietari, ebrei, avevano dovuto “lasciare indietro” (zurücklassen, era la parola); e naturalmente ad occupare le cattedre accademiche, rimaste scoperte (vacant geblieben, recitava la formula) perché i docenti “non ariani” erano stati cacciati (e più tardi deportati). La ricerca si basa sulle cartelle del fisco tedesco degli anni trenta, conservate negli archivi cittadini. In questa grigia documentazione erano elencate accuratamente tutte le proprietà di persone a cui, per le leggi razziali, al nome era stato aggiunto Israel, per i maschi, o Sara, per le femmine, in modo da renderli immediatamente identificabili. Di seguito erano riportati i passaggi di proprietà, diventati obbligatori a causa della “arianizzazione”. Le aziende, i terreni, le azioni, l’inventario di ogni appartamento: dalle posate d’argento fino al ferro da stiro. Nella maggior parte dei casi, nei decenni seguenti non ci sono stati dei tentativi di restituzione ai discendenti sopravvissuti, che oggi vivono soprattutto negli USA. Sono stati necessari decenni, sia di ricerche storiche sia di silenzi, per narrare questa “banalità del male” senza precedenti.
Per narrare sono necessarie, oltre al tempo, tante voci differenziate e tante angolazioni diverse.
Per narrare il male senza il rischio di ri-traumatizzazione, un altro elemento necessario è la forma dialogica all’interno del racconto. Oltre alla voce narrante, oltre al protagonista c’è bisogno di una presenza ausiliaria, una figura “a lato”: un testimone, anche se non esplicitamente tale. Questa figura spesso viene spesso evocata da un dialogo interiore del protagonista e ha la funzione psicologica di mettere un piccolo cardine fra le forze archetipiche che ciecamente distruggono, creano e ricreano. Una presenza di questo tipo, che potrebbe passare inosservata, sta nel testo di Othmann citato. È rappresentata dalla zia. Othmann non dice: “Dentro la tenda c’era una signora anziana...”. Inizia invece con una frase della zia, che le dice: “Guarda questa donna....” Con queste poche parole si apre uno spazio temporale verso il passato, perché la zia ha già visto tante volte la signora anziana, l’ha vista probabilmente per mesi, per anni. Othmann, che la vede oggi, non si trova da sola a vederla. C’è la zia che gliel’ha indicata: e ha interposto la sua presenza tra sua nipote e il dolore.
Vorrei chiudere con alcune righe di Othmann, nelle quali c’è di nuovo un personaggio “ausiliare” con funzione simile. Sono righe tramite le quali la scrittrice, con l’audacia dei suoi ventisette anni, sta misurando a passi l’orlo di un abisso. Il personaggio che le risponde non ha nessun ruolo, viene solo nominato frettolosamente. Farà un commento finale semplice: tra l’altro completamente inefficace, che però risponde alle parole di Ronya Othmann, le quali con sovrumano sforzo sono riuscite a diventare scrittura.
“Nel marzo 2019, dopo la sconfitta dello Stato Islamico, negli accampamenti aumentano i tentati suicidi.
Dico a mia madre al telefono: siamo morti. Ci hanno sterminati.
Sono nella mensa. Prendo un piatto veloce. Mi siedo. Mangio e sono sola. Voglio andare in biblioteca dopo mangiato. Leggo le notizie sul cellulare. Un’unità speciale dell’armata britannica ha trovato le teste di 50 yazide. Dentro i bidoni dell’immondizia.
Mi alzo, restituisco il mio vassoio. Andando in biblioteca telefono a mia madre. Non ha senso, dico. Perché, dico, sono stati sconfitti e l’ultima cosa che fanno, quando ormai è chiaro che non potranno più vincere, quando ormai sono sconfitti, è decapitare donne yazide. Fino alla fine non hanno smesso di sterminarci.
Gli yazidi sono stati sterminati, le dico.
Mia madre risponde: non puoi dire così. Una cosa così non la puoi dire. Non puoi dirlo in questo modo.”