L'ultimo album / Bob Dylan: Rough and Rowdy Ways
“Ah, ma allora ero molto più vecchio, sono molto più giovane adesso” cantava Dylan nel 1964, all’età di 23 anni (“Ah, but I was so much older then, I’m younger than that now”). Il dio Crono in persona deve averlo sentito, e ha pensato: “Vuoi sconfiggere me, il signore del tempo, con le tue canzoncine? Bene, allora per te serberò una sorte speciale. Invecchierai come tutti, ma a ritroso. Diventerai così vecchio che ricorderai tutto quello che è accaduto ben prima che tu venissi al mondo. Assisterai alle guerre dei tempi passati, sarai con Giulio Cesare quando ha attraversato il Rubicone e con le donne troiane quando sono state vendute in schiavitù. E dovrai mettere tutto questo nelle tue canzoncine, altri strumenti non ne avrai”.
“Buio non è ancora, ma presto lo sarà” cantava Dylan nel 1997, all’età di 56 anni (“It’s not dark yet, but it’s getting there”), e tutti i critici giù a scrivere che stava meditando sulla sua mortalità. Non era un po’ presto?
Oggi che ne ha 79 e con il suo ultimo album, Rough and Rowdy Ways (Sony), traducibile all’incirca con Modi rozzi e rissosi, è in testa alle classifiche mondiali – per quel che valgono le classifiche – ancora tutti i critici sono lì a scrivere che sta meditando sulla sua mortalità. Mai che gli venga in mente che stia meditando, per dire, anche sulla loro, sulla nostra, quella di tutti, come i poeti hanno sempre fatto. Ma bisogna capirli, i critici: oscuramente avvertono di avere a che fare con qualcuno che ha firmato un contratto esclusivo. Gli scrittori, i pittori, gli attori possono invecchiare gloriosamente, se ne hanno la fortuna, ma uno che scrive canzoni? Uno che è cresciuto quando i suoi compagni d’avventure (Pete Townshend di The Who, ma non solo) proclamavano che preferivano morire piuttosto che diventare vecchi? Come si fa a invecchiare così tanto?
Non sono solo sessant’anni che Dylan è in attività. Sono secoli. C’è mai stato un decennio a memoria di generazioni in cui Dylan non fosse da qualche parte a prender nota? Sempre nei primi anni Sessanta, aveva dichiarato che non lo potevano reclutare in nessuna organizzazione politica perché lui, anche se era d’accordo con i loro scopi, “non era in circolazione” (“I’m not around”). Ma in circolazione lo è stato sempre. Non è che per caso fosse davvero presente al discorso di Gettysburg, o quando Enrico V sconfisse i francesi ad Agincourt, o quando Marc’Antonio diede l’ordine di tagliare la testa a Cicerone? Magari dovremmo credergli quando dice, all’ultimo verso di “False Prophet”, “Non mi ricordo quando sono nato e mi sono dimenticato di quando sono morto” (“Can’t remember when I was born and I forgot when I died”).
A suo tempo avevo scritto che con Time Out of Mind Dylan era entrato nel “terzo stile”, lo stile della vecchiaia, quando non t’importa più nulla di quello che il mondo pensa di te, ed è la tua stessa arte il critico più severo. In origine, la definizione era stata creata per il Beethoven degli ultimi quartetti e delle ultime opere per pianoforte. Beethoven è morto a 57 anni. E Bob Dylan? Esiste forse un “quarto stile” che prende forma in Rough and Rowdy Ways, un album che compare dopo otto anni in cui Dylan ha pubblicato “solo” tre raccolte di canzoni classiche americane, reinterpretate molto a modo suo?
Rough and Rowdy Ways non sembra così diverso, formalmente, dagli altri album del “terzo stile”: Time Out of Mind (1997), “Love and Theft” (2001), Modern Times (2006), Together through Life (2009) e Tempest (2012). Ha nove canzoni e 71 minuti di durata (ma l’ultima, “Murder Most Foul”, dura 17 minuti e si riserva l’onore di un secondo CD tutto per sé). Alterna lente ballate e chiassosi blues elettrici, il tutto concluso, prima che inizi “Murder Most Foul”, da una meditazione ironico-paradisiaca di nove minuti e mezzo, “Key West (Philosopher Pirate)” non diversamente da come “Highlands”, altra meditazione paradisiaca di dieci minuti, concludeva Time Out of Mind.
Ma qualcosa di diverso c’è. Rough and Rowdy Ways è la prima raccolta in cui Dylan si prende assolutamente sul serio, più di quanto abbia mai fatto in passato. È anche la sua prima dopo il Premio Nobel del 2016, e del resto Dylan non ha mai nascosto l’ambizione dantesca di essere “sesto fra cotanto senno” (Inferno IV, 102). Nel caso di Dante, lo precedevano Omero, Orazio, Ovidio, Lucano e Virgilio. Ma solo perché Dante non aveva avuto modo di conoscere gli altri compari citati in Rough and Rowdy Ways. Nell’ordine, Walt Whitman, Edgar Allan Poe, Anna Frank, Indiana Jones (che c’è di strano? Anche Dante mescolava personaggi reali e immaginari), i Rolling Stones, William Blake, Beethoven, Chopin, Al Pacino, Marlon Brando, Giulio Cesare, Leon Russell, Liberace, San Giovanni, San Pietro, Freud, Marx (questi ultimi due posti dantescamente all’inferno), Jimmy Reed, Calliope, i generali Sherman, Montgomery, Scott, Zhukov e Patton, Elvis Presley (per la prima volta in vita e in morte sua chiamato solo “Presley”), Martin Luther King, il Presidente William McKinley (anche lui assassinato), Ginsberg, Corso, Kerouac, Louis (Armstrong), Jimmy (Rodgers; il titolo del disco è tratto da una sua canzone), Buddy (Holly), il Presidente Harry Truman e infine il Presidente Kennedy, al quale fa da seguito un tale corteo di nomi e di titoli di brani musicali da tenere occupati i dylanologi per i prossimi dieci anni.
Per inciso: mi sono già occupato delle tre canzoni che Dylan ha fatto uscire in anteprima, fornendo anche le traduzioni: “Murder Most Foul”, “I Contain Multitudes” e “False Prophet”, come ho anche trattato dell’arco narrativo di Rough and Rowdy Ways in questo articolo. Qui voglio accennare alla posizione che Rough and Rowdy Ways viene ad occupare nell’opera complessiva di Dylan.
Si dirà: dov’è la novità? Dylan si prende sul serio, molto sul serio, da quando ha esordito. Certo, ma adesso ha completato il quadro, ha realizzato il destino che gli si è delineato in mente dal momento in cui ha imbracciato una chitarra: se il mio destino è scrivere canzoni, deve essersi detto, ebbene, queste canzoni saranno l’arca di Noè, la valle di Giosaffatte in cui chiunque troverà posto accanto a chiunque altro, senza gerarchie di valori né distanze sociali. Quando avevo vent’anni mi avete detto che ero Omero in jeans, lo Shakespeare dei vicoli, il Rimbaud del juke-box? Bene, ora che ho quasi ottant’anni lo sono! Adesso posso invocare Mnemosyne in “Mother of Muses” e dirle che vorrei sposare sua figlia Calliope, la musa della poesia epica, visto che altri pretendenti al momento non ne ha. Adesso posso tirare un colpo di dadi sperando che esca “un numero tra l’uno e il due” come in “My Own Version of You”, e nel frattempo chiedermi: “Che cosa farebbe Giulio Cesare al mio posto?” (“And ask myself what would Julius Caesar do?”). Adesso posso dire come Walt Whitman “io contengo moltitudini”, posso affermare che non sono un falso profeta (magari rispondendo all’allora cardinale Joseph Ratzinger, il quale all’epoca del famoso concerto al Congresso Eucaristico di Bologna del 1997 alla presenza di Papa Giovanni Paolo II aveva sollevato dubbi sull’opportunità di invitare certi pretesi “profeti”).
Da qui nasce lo sconcertante mix di umiltà e arroganza che pervade Rough and Rowdy Ways, più che in album ancora più arroganti, come Slow Train Coming (1979), o più umili (Oh, Mercy, 1989). L’umiltà è tutta nella voce, in melodie difficili per lui da intonare (c’è ahimè una stonatura all’inizio di “Mother of Muses”) ma piene di grazia (“I Made Up My Mind to Give Myself to You” ricorda la Barcarola di Offenbach), e i blues-sipario tra una ballata e l’altra, pur costruiti con formule collaudate, non sono affatto banali. La tessitura musicale è scarna e insieme finissima, ben superiore agli arruffati standard ai quali Dylan ci ha abituato (ascoltate i sognanti accordi iniziali di “Key West” – e aver lavorato per anni sul repertorio di Sinatra sarà pur servito a qualcosa), ma ci sono anche momenti in cui Dylan non sa resistere alla citazione facile o alla battuta da studente che vuol darsi delle arie (è uno dei guai dell’essere autodidatta; una parte di te rimane sempre lo-studente-che-non-è-stato).
Vuoi citare Shakespeare? Benissimo. “Murder most foul” dall’Amleto è perfetto per l’assassinio di Kennedy. Ma perché proprio “l’inverno del nostro scontento” (qui “the winter of my discontent”, in “My Own Version of You”), il primo verso del Riccardo III e il più scontato, l’unico che tutti ricordano (anche Steinbeck nel suo ultimo romanzo)? E davvero vuoi rivolgerti ad Amleto con la domanda da studentello impertinente, “Mi sai dire cosa significa essere o non essere? E non cercare di imbrogliarmi” (“Can you tell me what it means: to be or not to be? You won’t get away with foolin’ me”, sempre da “My Own Version of You”)? Bob, perché non sei un po’ più snob? Ormai te lo puoi permettere. Non è solo che tutti sono ai tuoi piedi; è che ormai la cultura sei tu. Scusa la responsabilità.
Ma sono cadute di tono momentanee. Dylan rimane un maestro di quella che Keats chiamava la “capacità negativa” di alludere senza dire. Un solo esempio, da “Murder Most Foul”: quando Dylan chiede al disc-jokey Wolfman Jack di suonare il blues “Key to the Highway” “for the king on harp” intende “harp” come armonica, e il re all’armonica potrebbe essere Little Walter o Sonny Terry, oppure come arpa, e allora il re all’arpa potrebbe essere Davide o Salomone? Ma noi sappiamo che per Dylan è esattamente la stessa cosa. È riuscito a farcelo capire, che l’armonica di Little Walter e l’arpa di Davide sono la stessa cosa. La luce che ha acceso è questa, ed è così forte che gli occhi non si sono ancora abituati.