Una mostra e un libro / Tullio Pericoli: un frammento di infinito
Il 13 ottobre si è inaugurata una mostra antologica di Tullio Pericoli che corona la sua lunga attività artistica con un meritato riconoscimento istituzionale nella prestigiosa sede del Palazzo Reale di Milano, la città che lo ha adottato e nella quale ha avviato la sua carriera. La mostra ha un titolo molto eloquente: “Frammenti”, che andrebbe letto non come l’indicazione di un tema, ma piuttosto come la dichiarazione, o meglio l’immagine euristica che incarna più di ogni altra il senso più vero e compiuto della personalissima poetica del pittore marchigiano. Proviamo a spiegare perché. La gran parte delle opere esposte sono dei paesaggi e in numero minore dei ritratti, ovvero attiene ai due “temi” sui quali Pericoli ha sviluppato prevalentemente la sua ricerca pittorica.
Tutti i paesaggi dipinti in ogni epoca e di qualsiasi pittore non sfuggono alla condizione di costituire dei singoli ritagli di un mondo visto o immaginato. Nondimeno ognuno di essi tende a mostrare una totalità che li trascende, ambisce a raffigurare la composizione di una molteplicità di forme e di fenomeni che tende a restituire l’immagine unitaria della natura. Il pittore di paesaggi è consapevole delle limitazioni che questa attività gli pone davanti: esperisce ad ogni occhiata i limiti del suo campo visivo, mentre la sua mano misura i bordi che delimitano l’estensione della sua tela. Queste insormontabili restrizioni non gli consentono di vedere l’illimitata vastità della superficie terrestre e ancor meno di dipingerla in un solo sconfinato panorama. Nemmeno le proiezioni cartografiche di Gerardo Mercatore del XVI secolo, né gli enormi teleri cilindri disegnati da Robert Barker nel XVIII sec. riuscirono a superare questi limiti.
I dipinti di Pericoli esposti nella mostra sono dichiaratamente dei frammenti, dei ritagli, quasi sempre quadrangolari, di un paesaggio illimitato che si estende ben al di là di ciascuno dei quattro lati della tela, in tutte e quattro le direzioni in alto, in basso, a destra e a sinistra, dilatando il campo visivo idealmente fino all’infinito.
Queste opere si pongono quindi come sineddoche di un paesaggio totale e assoluto, frammenti di un paesaggio ideale e infinito che nessuna cornice riuscirebbe a delimitare. Sono frammenti di un tutto senza parti la cui unità è inscindibile, in linea di principio come nella pratica, e rispondente alla visione olistica di una poetica che ha come referente il principio cosmologico dell’unitarietà del tutto. Il paesaggio raffigurato è comprensibile soltanto all’interno di un processo creativo della natura che lo trascende tanto quanto l’immagine dipinta che lo raffigura trascende e travalica i limiti del supporto che la contiene.
È di immediata comprensione la ragione del perché queste opere non richiedano cornici, giacché queste apporrebbero un limite materiale e fisico a ciò che tende a estendersi oltre i limiti del visibile incorniciato dallo sguardo. Introdurrebbero oltremodo una discontinuità là dove la natura rivendica la continuità di un tutto senza parti in perfetta sintonia con la stessa natura dell’arte.
Del tutto non possiamo fare esperienza, né possiamo provarne l’esistenza, tuttavia la sua necessità è essenziale alla vita di ciascuna componente. Una parte senza un tutto non ha alcuna ragione di esistere; di converso, però, un tutto senza parti non è un ossimoro, bensì risponde a una concezione cosmologica e a una concezione poetica di cui l’arte per prima e la scienza dopo invocano la necessità ontologica ed ecologica nei termini di una trascendenza senza trascendente.
Le opere che Pericoli ha esposto nelle sale del Palazzo Reale invitano lo sguardo dell’osservatore a focalizzarsi nell’orizzonte non ancora visibile che delimita il paesaggio che si viene a formare accostandole una accanto all’altra, senza lasciare alcun vuoto tra di loro, affinché abbia luogo l’apparizione di un panorama illimitato, nel quale figurino non solo tutti i paesaggi che ha dipinto, ma anche quelli che dipingerà e quelli che sogna e immagina possibili. Ho ragione di credere che sia stato proprio questo desiderio inconscio a spingere il pittore ad allestire una sala con due grandi pannelli, posti uno di fronte all’altro, su ciascuno dei quali ha disposto venticinque frammenti di paesaggi accostati gli uni agli altri e separati da una minima distanza, un vuoto amodale che l’occhio dell’osservatore colma agevolmente quando il loro insieme riempie il campo visivo.
L’intrinseca natura del frammento esige che si manifesti come una forma aperta, la cui incompiutezza e/o incompletezza fisica e fenomenica non coincide con la compiutezza del senso che evoca e verso cui si protende. Potremmo dire che la tendenza all’apertura in tutti i suoi sensi sia un tratto costitutivo e distintivo di ogni autentica opera d’arte: essa sollecita l’occhio a non limitarsi a guardare soltanto quel che effettivamente è dipinto sul supporto, ma lo spinge a vedere anche quel che gli sta intorno, ad allungare lo sguardo oltre i limiti della tela, là dove il paesaggio dipinto continua a estendersi e che pur non essendo otticamente visibile ne prolunga la naturale estensione. La forza del frammento, allo stesso modo dell’incompiuto o della rovina, è proprio quella di essere in attesa di uno sguardo capace di accogliere la promessa di una visibilità sempre ulteriore.
I paesaggi esposti sono delle preziose occasioni per ammirare come una minima variazione della pressione del pennello, della lunghezza di un tratto, dell’apertura di un solco, di uno spellamento della superficie, della raschiatura di pigmento … siano decisivi nel conferire la morfologia voluta a un arbusto, un solco, un crinale, una nuvola, un alberello, ma anche una ruga, una piega del volto, la somiglianza del soggetto dipinto, la direzione dello sguardo. Ogni paesaggio di Pericoli è un angolo del suo mondo, un luogo senza un dove che si distende sempre più in là di dove si sta guardando, prosegue davanti e si allunga dietro, scorre sotto ed emerge sopra, si protende verso destra e verso sinistra della linea dello sguardo del pittore, prima, e dell’osservatore poi.
Il visitatore della mostra ha la possibilità di trovare esplicitati questi concetti nel libro di Tullio Pericoli Arte a parte Adelphi, Milano 2021, nel quale il pittore attraverso la trattazione della linea, dello sguardo, della mano, della pennellata, dei colori, del supporto ci introduce le tematiche che esplicitano il loro interagire e che attengono all’enigmatica ancestralità del gesto, alla trascendenza dell’immagine, alla gnoseologia della visione, al magnetismo dell’ispirazione oltre che all’apparizione e al rivelamento dei segni della natura.
Al di là dell’immediata evocazione di un detto molto antico, tramandato nei secoli dalla saggezza popolare, che recita “impara l’arte e mettila da parte”, il titolo del libro sembra suggerire che il suo contenuto non riguardi le tematiche e le teorie inerenti l’arte, la sua definizione, la sua natura e la sua funzione. Il titolo sembra dichiarare fin da subito che il testo compie un’intenzionale epochè di questi argomenti, mettendoli in disparte, al lato, appunto, quasi volesse evitare di inoltrarsi nel pernicioso e ineffabile argomento dell’ontologia dell’arte, in quel buco nero sul cui orizzonte si inabissano i discorsi di tante teorie fisiche e metafisiche. Di cosa tratta, allora, il testo? L’autore ha scelto di affrontare alcune tematiche che gravitano intorno all’arte e invita il lettore a riflettere su un esiguo repertorio di elementi, in parte materiali e in parte ideali che l’indice elenca in dodici lemmi: vivente, Adornos, fossi, tatto, vista, ritratto, grammatica, attrezzi, linea, pittura, ispirazione e paesaggio.
Ognuno di essi, dichiara nella premessa lo stesso Pericoli, rinvia ad argomenti, concetti che liberamente affiorano con una certa insistenza nella sua mente quando si mette a lavorare. Tra una pennellata e l’altra, quasi cadenzando l’atto del dipingere, queste parole, senza indurre alla distrazione, invocano attenzione al punto che il pittore è indotto ad appuntarle oltre che nella sua mente anche sulle pareti del suo studio affinché esercitino “una loro forza magnetica capace di attirare riflessioni, ricordi, dubbi e stupori.” Le riflessioni, i dubbi e gli stupori che da esse sgorgano attengono ai pensieri che la mano, i pennelli, gli occhi, la tela e la carta continuano a instillare nella mente del pittore che con il suo lavoro li interpella costantemente.
Il lungo impiego di questi strumenti, la loro vicinanza e contatto fisico quotidiano da un lato determina la condizione per acquisire la competenza e l’abilità tecnica necessarie alla realizzazione delle sue opere, dall’altro porta a una particolare forma di confidenza: nel tempo, giorno dopo giorno, la sempre più ricercata complicità trasforma la contiguità mano-strumento in una continuità protesica, mallevadrice della spontaneità del gesto pittorico vissuto come un impulso naturale, generato da un’energia propria e latrice di un puro piacere. Per Pericoli questo piacere è un vero e proprio generatore di energia vitale che si attiva lavorando e che gli permette di sentirsi “vivente”, una condizione comune ma che è anche un controverso privilegio, perché l’arte, ancorché alimenti la vita degli artisti, infonde anche la consapevolezza esistenziale, denunciata dal poeta Fernando Pessoa, che la vita non basta.
Si tratta di un’energia naturale, nel senso che è irradiata dalla natura stessa e che il pittore percepiva come “vivente” sotto i suoi piedi affondati nella terra umida dei fossi, dove fin da ragazzo la sentiva risalire in tutto il suo corpo. I pendii collinari appena arati nella sua immaginazione apparivano come enormi tavole, muri, sui quali avrebbe voluto poter disegnare e scriverci sopra con una mano da gigante, facendovi affiorare le vicende delle vite sotterranee. Quell’esperienza tattile, quell’antico e sapienziale bisogno della mano dell’uomo di mantenere un contatto continuo con la superficie della terra è avvertito come una necessità intrinseca nella pratica pittorica anche dalla mano di Pericoli: essa assicura il pittore che i colori che stende sulla tela sono fatti della stessa materia di quei luoghi, di quella stessa terra umida, di quei prati, di quei boschi.
Soltanto alla fine della lettura ci si accorge che gli argomenti trattati da Pericoli non sono delle mere digressioni intorno alla pittura, ma che invece essi rivelano le tematiche imprescindibili dell’arte del dipingere. Il testo è concepito come un tentativo di aggiramento del focus centrale, dal quale quegli argomentisembrano tenersi a distanza, in realtà tracciano un convincente percorso di avvicinamento, una congeniale strategia tendente a perimetrare per prendere le misure ed individuare i pilastri essenziali su cui poggia l’ineffabilità che ammanta la natura dell’arte. Qualsiasi cosa si intenda per arte essa non potrebbe in nessun caso essere prescindendo dall’esistenza degli elementi materiali ed ideali che Pericoli tratta nel suo testo. Tutti i pittori, che ne siano o no consapevoli, sono obbligati a interessarsi, a maneggiare questi materiali e concetti; sono spinti dalla stessa pratica pittorica a esplorare la loro natura e potenzialità espressiva e teorica, anche se non trascrivono i loro pensieri.
Le riflessioni che Pericoli espone nel suo testo ineriscono, malgrado le allusioni del titolo, i fondamenti essenziali e costitutivi della creazione artistica, dei quali l’atto stesso del dipingere non può prescindere e in virtù dei quali questa attività umana continua a esercitare a livello universale le sue valenze simboliche ed espressive. Tuttavia leggendo queste riflessioni incombe una domanda: cos’è che spinge un pittore a scrivere? Tra le possibili risposte che si potrebbero dare escludiamo subito il desiderio di descrivere o spiegare in parole le proprie opere: questa è una competenza che pertiene alla figura del critico d’arte. Una delle possibili ragioni potrebbe essere quella di fornire una chiave di accesso alle recondite pulsioni e passioni dell’animo da cui germogliano l’emozione e il piacere di un pensiero che è stato possibile pensare proprio perché già incarnato nella forma che il dipinto ha reso visibile. La pittura è ciò che fanno i pittori, pertanto la sua migliore definizione è già tutta inscritta nell’atto del dipingere, nel modo in cui ciascun pittore lo esegue e nel quale è già consaputo anche il suo pensiero sull’arte. Il pittore ragiona e pensa con i pennelli in mano, diceva Annibale Carracci, i suoi pensieri coincidono con quel che i pennelli, i colori, la superficie della tela concorrono a rendere visibile.
Contrariamente a quel che il titolo vorrebbe far credere, Pericoli non ha mai messo l’arte da parte e con questo libro, che possiamo considerare come una vera confessione creatrice, ne esplicita le ragioni e ci confida perfino i suoi sogni: dipingere come nessun pittore è mai riuscito a fare, ovvero eseguire con un’unica e decisiva pennellata tutto il panorama che si dispiega davanti agli occhi, realizzando quel quadro dei quadri, analogo di Le Chef-d'œuvre inconnu a cui anela il maestro Frenhofer nel romanzo di Honoré de Balzac e che avrebbe portato al suo limite estremo l’atto stesso del dipingere.