Speciale
Goethe Institut Turin. Intervista con Peter Weibel / La telesocietà e i sensi
Prosegue la riflessione attorno al tema delle immagini e della violenza al centro del dibattito svoltosi a Torino il 15/16 marzo. Come dobbiamo e vogliamo rapportarci a tutte queste immagini che pervadono e ossessionano la società occidentale? Che effetto ha il predominio dell’immagine sulla costruzione e tradizione del nostro canone culturale? È possibile formulare un’etica dell’immagine per il XXI secolo? Doppiozero pubblica oggi un'intervista a Peter Weibel, direttore del Centro delle arti e della tecnologia dei media di Karlsruhe.
Ama chi ti è più lontano come te stesso!
Come ben sappiamo, i nuovi media producono veri e propri sovvertimenti nel nostro concetto di realtà, e addirittura nella percezione del nostro stesso corpo. In che misura questi cambiamenti della realtà sono responsabili anche di profondi cambiamenti della nostra psiche e dello spazio pubblico?
Fino ad oggi la realtà veniva costruita dal soggetto mediante due forme della percezione sensoriale: da una parte, mediante i sensi della vicinanza, vale a dire il soggetto poteva toccare, percepire e odorare qualcosa, dall'altra parte attraverso i sensi della distanza, gli occhi e le orecchie. Nella zona dell'accordo tra tutti i sensi, vicini e lontani, si costruiva il reale. Esisteva perciò un equilibrio tra la percezione sensoriale ravvicinata e quella dalla distanza.
Da duecento anni o poco meno esiste, grazie alla tecnologia elettromagnetica, una nuova gerarchia: si è affermata la supremazia dei sensi della distanza. L’uomo ha voluto rafforzare i sensi della distanza preferendoli ai sensi della vicinanza. Vale a dire abbiamo dato vita ad una sorta di 'telesocietà' mediante fax, telefono, tele-visione, internet, e con ciò abbiamo allargato a tal punto il gap tra i sensi della vicinanza e quelli della lontananza che i primi non hanno più alcuna importanza.
Che tipo di rapporto ci può essere tra sfera pubblica e sfera privata se la dicotomia tra interno ed esterno si riduce progressivamente per effetto delle immagini?
Mi permetta di fare un esempio 'terra terra': ciò che la gente chiama amore o erotismo non è altro che il classico palcoscenico, o per meglio dire il campo di battaglia dei sensi della vicinanza, ovvero il toccare la superfice della pelle. Oggi però sono graditi anche i surrogati mediati dai i sensi della lontananza ed è questo ciò che oggi uno spettatore vede mediante la televisione, il sesso telefonico o attraverso youporn. È diventato un osservatore di primo ordine. Abbiamo edificato in questi ultimi duecento anni una telesocietà, e in questo regime dei sensi della lontananza è l'immagine ad avere un ruolo centrale. Lo spettatore vede il mondo con gli occhi di qualcun altro. Lo spettatore dice: guardo la televisione, ossia ‘tele-vedo’. In realtà non vede un bel niente, i suoi occhi sono stati addirittura espropriati di questa funzione, quanto meno, non sono là dove le cose accadono. Là c'è un altro con gli occhi di una telecamera. Lo spettatore vede il mondo alla televisione con gli occhi di qualcun altro. E un altro vede il mondo con gli occhi di una telecamera. Viviamo insomma in un regime 'scopico'.
Se l'identità dell'individuo si costituisce sempre di più grazie alle immagini, se essa si 'comunica' attraverso le immagini, come si modifica di conseguenza il sistema di valori che regola il comportamento dell'individuo nella sfera pubblica?
Noi non disponiamo ancora di una morale che regoli i sensi della lontananza. Nella Bibbia si dice: non desiderare la donna d'altri o le cose d'altri. In realtà da tempo il comandamento dovrebbe suonare: ama chi ti è più lontano – non il tuo prossimo – come te stesso.
L’interpretazione dei dieci comandamenti privilegia i sensi della vicinanza – per migliaia di anni siamo stati fatti per quei sensi. Oggi possiamo guardare al di là della collina e vedere le nuvole. Quindi oggi viviamo in una realtà costruita dai sensi della distanza e crediamo di poter controllare questo mondo seguendo le regole dei sensi della vicinanza.
Che tipo di relazione potrebbe affermarsi in un contesto di questa natura tra produzione di immagini, etica e diritto?
Anche i sistemi giuridici si sono formati a partire dai sensi della vicinanza.
Quando vengono fotografate delle opere d’arte non si cita il fotografo. Se però, sono così abile da ridurre in cenere due interi grattacieli, teoricamente avrei il diritto di essere citato come autore, invece in questo caso si fa il nome del fotografo. Sono due posizioni che si contraddicono. Non abbiamo ancora imparato a distinguere tra artefice e autore. Anche nelle fotografie a carattere etnografico dovrebbero essere citati per nome i danzatori. Il diritto civile questo non l’ha ancora capito. Nella nostra società avida di immagini domina l’autore e l’artefice viene ignorato. Questo è il primo dei problemi. Se sto scattando una foto in cui una persona è sotto la minaccia delle armi, sono di fronte a una scelta – intervengo o fotografo?
La dipendenza dalle immagini ci porta a risolvere un conflitto etico in modo non umano.
L’immagine risparmia all'uomo la fatica dell'azione. Già nella Bibbia c’è scritto, li riconoscerai dalle loro azioni. La credulità iconica è l’ultimo atto sacrale, l’ultimo residuo di religione – come prima della Riforma luterana.
Ciò detto, la maggior parte delle immagini è comunque una messa in scena.
Ma si tratta di elementi di prova giuridicamente validi? No, i tribunali non riconoscono alla fotografia un carattere documentale.
Lei ha sempre postulato una stretta relazione tra arte e scienza e ha inteso l’arte come una forma di conoscenza, cioè le ha attribuito una valenza epistemologica. In che modo le nuove tecnologie modificano questa forma di conoscenza?
Ad esempio è assurdo che Andreas Gursky, che crea le sue immagini al computer, venga considerato come appartenente alla tradizione della “scuola del documentario” di Düsseldorf. Non si sono ancora esaminate a fondo le premesse epistemologiche dell’immagine.
L’arte, purtroppo, si è affidata al regno dei sensi della vicinanza. A iniziare l’osservazione anatomica fu per altro già Leonardo da Vinci, il cui Trattato della pittura segna la fondazione del carattere scientifico della pittura. Il pittore avrebbe a disposizione i mezzi della raffigurazione – punto, linea, superficie – grazie ai quali rappresenta la forma visibile degli oggetti
Leonardo sapeva però guardare sotto la superficie. Ora disponiamo di 'scalpelli morbidi', microscopi, ultrasuoni il che significa che la scienza ha ridefinito l’espressione “visibile”. Utilizziamo apparecchi per vedere più lontano di quanto ci consenta l'occhio umano. La scienza ha soddisfatto le aspirazioni di Leonardo da Vinci. I pittori invece si sono fermati all’occhio nudo. La scienza ha allargato il campo del visibile – ad esempio grazie alla tomografia computerizzata – ha reso visibile l’invisibile.
L’arte ha abdicato al suo ruolo, non è più un sistema in grado di spiegare il mondo.
Grazie a Dio ci sono oggi delle controtendenze.
Gli artisti hanno oggi a disposizione strumenti simili a quelli dei medici, e in questo modo l’arte e la scienza si stanno riavvicinando.
Ciò significa che sta iniziando un nuovo Rinascimento, che, come è tipico, viene osteggiato dai pittori e dal mercato.
Allo stesso modo si diceva un tempo che la fotografia non era arte.
Basti pensare che nel 1936-38 Man Ray pubblicava uno scritto per accompagnare le sue fotografie dal titolo Man Ray: La Photographie n'est Pas l'Art, perché ne aveva le tasche piene. Negli anni ’60 tutti dicevano che la combinazione dell’arte con i media non era arte. Per questo motivo si è cominciato a parlare di opere e non di opere d’arte.
Quando nel 1989 fondai l’’Istituto per i nuovi media’ presso la Städelschule di Francoforte sul Meno, ci furono pittori che mi dissero: “Lei porta lo spirito meccanico nell’arte”. A cui potevo solo replicare “se lei è contrario allo spirito meccanico, scenda sotto (nello Städel) e butti via il pianoforte”.
Uno dei motivi ricorrenti nella sua opera è la critica all’importanza crescente del libero mercato nell’interpretazione dell’arte e della sua rilevanza pubblica. Che ruolo ricopre l’economia nel giudizio estetico sulle opere e come può nuocere all’osservazione disinteressata?
Bisogna dare per assodato che per gran parte la storia della pittura è una storia di committenze. Da cui anche il bel libro di Svetlana Alpers Rembrandt’s enterprise (L’officina di Rembrandt). Oggi l’arte su commissione ha una valenza negativa. Quando è nata, dunque, l’idea dell’arte autonoma? I pittori accettavano incarichi e documentavano le vicende della chiesa o storie nobiliari, di poteri ecclesiastici, militari o aristocratici. Anche pittori di grande talento come Jan Vermeer e Diego Velázquez facevano parte di corporazioni di “artigiani-artisti”.
Solo con la scomparsa del committente nel XIX secolo si instaura il libero mercato e l’artista si considera autonomo. Van Gogh non aveva committenze, quindi si è parlato per la prima volta di necessità interiore.
Esclusi dal lucrativo e tradizionale Salon de Paris, nel 1884 per la prima volta gli artisti si riunirono in un “Salon Indépendant”.
In questo nuovo mercato sotto i tendoni valeva il motto: più scandalo uguale più visitatori. Così si spiega anche l’accusa rivolta a Manet di avere seguito il gusto delle masse con la sua Dejeuner sur l'herbe (1863). Effettivamente, si presentarono fino a 5000 visitatori e la borghesia andò a cercare là ciò che non poteva vedere a casa sua. Anche Cézanne imitò Ingres e dipinse odalische. Attraverso volgarità e oscenità si lucrò sul gusto delle masse e sul pubblico. Con buona pace dell'indipendenza.
Poi fu necessario aumentare la dose e l’artista che si considerava un anti-bohémien cercò di stupire i borghesi: “épater les bourgeois”, si diceva in poesia – una sgradevole sottomissione dell’artista.
Questo significa, quindi, che il mercato determinò una radicalizzazione. Si mostravano i colori assoluti o un quadro solamente in rosso, blu e giallo (Rodchenko, “Puro colore rosso, puro colore blu, puro colore giallo”,1921) – un programma riduzionista dunque. Vogliamo davvero un altro secolo di monocromia? Oggi la realtà è diventata così pressante, che ne dobbiamo prendere atto.
Insieme a Bruno Latour, Lei ha curato la rivoluzionaria mostra Iconoclash: Beyond the Image Wars in Science, Religion and Art e ne ha pubblicato il relativo catalogo. Condivide la sua tesi del fallimento della modernità?
La Modernità è un programma riduzionista. Si pensi al titolo del famoso libro della Bauhaus pubblicato nel 1926 da Kandinsky: Punkt und Linie zu Fläche (Punto, linea, superficie). L’arte moderna non è arte astratta, è autorappresentazione dei mezzi della rappresentazione. È stato bandito l’oggetto e al tempo stesso, con Duchamp e la sua anti-arte, l’oggetto, il prodotto e la fotografia sono entrati nell’arte.
L’intera arte moderna sottostà al paradigma della fotografia e ancora fino ai giorni nostri scambia l’artefice con l’autore. Si tratta di continue violazioni del copyright.
Il fatto che artisti come Warhol, che non è mai riuscito a fare un quadro in vita sua – le sue sono serigrafie ritoccate – vengano definiti pittori dimostra il potere dell’incompetenza del mercato. Warhol prende immagini della stampa scandalistica, foto di celebrità e di fatti di cronaca e ha successo così. Anche Koons si serve allo stesso modo delle fotografie. Così l’arte diventa più volgare, tanto da suscitare oggi la domanda: questa è arte o la si può buttare via? Un tempo si ricercava il sublime, oggi si preferisce dichiarare sublime l’ordinario.
A proposito dell’iconoclastia e della distruzione sistematica delle opere da parte dello stato islamico: come si spiegano allora la consapevolezza dell'uso delle immagini e la crudeltà dell'iconografia?
Nella cultura occidentale i media hanno portato a termine il loro compito di indurre le persone a provare piacere di fronte alla crudeltà o a un numero possibilmente elevato di cadaveri. La messa in scena di immagini crudeli assicura successo all’ISIS. L’ISIS sa farlo meglio della televisione, hanno imparato da Hollywood, le fanno concorrenza sul suo stesso originario terreno, quello delle immagini. E aggiungono la pretesa che si tratti di immagini reali.
Diffondono paura e panico con le immagini attraverso i social media.
La guerra delle immagini è la continuazione della guerra con altri mezzi. Questo l’ISIS l’ha capito. Dobbiamo renderci conto che i media europei funzionano in pratica come il ministero delle immagini dell’ISIS. Quando lo Spiegel mette in copertina l’attentatore siriano che preparava un attentato in un aeroporto, l’attentatore ha già raggiunto il suo scopo. Più è malvagia l’azione, più velocemente raggiungi la copertina dello Spiegel.
Abbiamo lasciato prosperare intorno a noi una cultura dell’assuefazione al ripugnante. L’ISIS non è il Diverso: l’ISIS siamo noi, è il nostro specchio. L’idealizzazione dell’ordinario diventa l’idealizzazione del crudele. I media della comunicazione dovrebbero dire: non ci stiamo più. Uno può discutere se Bob Dylan abbia o meno meritato il Nobel, ma la cosa non occupa più di un misero quarto di pagina.
I media sanno che il pubblico si è involgarito. Si può cambiare rotta solo se i cittadini stessi, i soggetti, dicono: questo non lo vogliamo. Ma questi sono tempi in cui, malgrado io non abbia nemmeno un televisore, grazie alla legittimazione data dallo Stato, sono obbligato a pagarci le tasse lo stesso e non ho quindi la minima possibilità di protestare contro la televisione. Tutti sono volgarizzati a forza. Questa è l’etica del brutto dei mass-media.
Hanno dunque perso il loro valore gli ideali universalistici della modernità, che ancora Habermas ha difeso strenuamente? Dobbiamo attenderci una regionalizzazione/tribalizzazione dei valori?
Il problema dell’universalismo è che trascura la questione dell’appartenenza.
Si sogna un cosmopolitismo in cui tutti saremo cittadini della terra. Ma già a partire dalla lingua, dal sesso, dall’appartenenza etnica, la nostra vita è costruita sull’appartenenza. E se sono incluso, sono anche al tempo stesso escluso. Noi sogniamo un club i cui membri siano l’umanità intera, ma non siamo disposti ad accettare tutti nello stesso club. Lingue, religioni, etnie ecc. costituiscono propri club. Chi non parla inglese non può essere membro di un club in cui si parla inglese. Questo è il sogno dell’universalismo. Possiamo dire soltanto che siamo tutti uomini. Ma se lei si trova al confine le chiedono: “Lei è tedesco o straniero?”
Non si può essere contemporaneamente membro di tre chiese. Noi diffondiamo l’idea che la varietà nella natura, nella cultura e nella religione sia un valore (vitale). Chi parla tre lingue però non è meglio di chi ne parla una sola. È necessario conquistare l’equivalenza ma senza eliminare l’appartenenza. Il sogno del cosmopolitismo è invece di eliminare l’appartenenza nel segno di una cittadinanza cosmopolita e della pace perpetua (Kant).
Il mondo però è fatto di differenze, grazie a Dio! Se mi considero come appartenente ai grassi e non ai magri, allora devo dirmi – e non è facile – che i grassi valgono quanto i magri. Tendiamo in buona fede a smussare le differenze ma in realtà non ci riusciamo perché ci sono vittime e colpevoli, assassini e assassinati e dovremmo anche riequilibrare la tendenza della giurisprudenza, a preoccuparsi in certi casi più dell’omicida che della vittima.
Ciò che possiamo ottenere è di riconoscere gli stessi diritti ad ogni appartenenza, se questa si conforma ai valori ideali che una comunità più ampia ritiene essere importanti. Non otterremo mai che tutti li ritengano giusti. Il sogno dell’universalismo e del cosmopolitismo si basa su illusioni, sull’abolizione dell’appartenenza.
MUSEO 2.0: Osservati dalla specola dell’oggi, che potenziale di democratizzazione offrono i nuovi media? Lei si è occupato di questo tema, tra l’altro con il progetto YOU: Das Museum und Web 2.0 (YOU: Il museo e il web 2.0) e con il saggio Das Museum im Zeitalter von Web 2.0 (Il museo nell’epoca del Web 2.0), in cui annuncia in modo programmatico che spetta alle nuove tecnologie il compito di democratizzare l’istituzione ‘museo’.
Trent’anni fa c’erano una mezza dozzina di biennali, oggi ce ne sono 120. I musei erano un collo di bottiglia, dove si presentava sempre la stessa arte europea e nord-americana, la modernità classica e così via. Lentamente, si fanno ora avanti anche figure che prima erano relegate ai margini. Ma tale apertura ha ridotto l’importanza delle biennali. Questa forma di selezione delle elite non funziona più e qui le biennali hanno un ruolo decisivo.
Vorrei avere visitatori che imparano e trasformano il museo in un laboratorio, dove ci si possa anche rilassare in una lounge, mangiare e bere qualcosa. Il museo deve diventare uno spazio di riflessione e conoscenza, in cui possano insegnare persone competenti. Dove si possa, ad esempio, anche imparare a programmare. Attraverso le nuove tecnologie abbiamo la possibilità di cambiare il comportamento del pubblico nel museo perché non guardi da mero turista le immagini come fossero trofei. Oggi ci sono opere d’arte interattive e tecnologie VR (Virtual Reality), nelle quali il visitatore si deve muovere e con le quali deve interagire. I musei dovrebbero diventare laboratori didattici in cui i visitatori ottengono per la loro visita un’offerta di formazione.
Traduzione dal tedesco di Irene Gilodi.
NOTA BIOGRAFICA
Nelle sue numerose conferenze ed articoli Weibel scrive di arte contemporanea, storia e teoria dei media, film, video-arte e filosofia. Come teorico e curatore, si impegna a favore di un’arte e di una storia dell’arte che tenga conto della storia della tecnica e della storia della scienza. Nel suo ruolo di docente presso diverse Università e di direttore di istituzioni quali la Ars Electronica a Linz, lo Institut für Neue Medien (Istituto per i nuovi media) a Francoforte sul Meno, e il Zentrum für Kunst und Medientechnologie, ZKM (centro per l’arte e la tecnologia dei media) a Karlsruhe, è soprattutto attivo sulla scena europea della computer art, anche attraverso conferenze, mostre e pubblicazioni. (Wikipedia)
Peter Weibel dirige da gennaio 1999 il Zentrum für Kunst und Medientechnologie di Karlsruhe.