Ritorno nell’Impero dei segni / Giappone: riti contro la fine della storia
La prima volta che mi capitò di leggere le riflessioni di un filosofo occidentale sul Giappone fu per me un’autentica folgorazione intellettuale. Si trattava di Alexandre Kojève, quello che più tardi verrà definito da Antonio Gnoli il “maestro occulto del ‘900”: nato in Russia ma naturalizzato francese, nipote di Kandinskij, laureato in lingue esotiche come il cinese, il tibetano, il sanscrito, esperto di Hegel e Kant, oltre che di fisica, combattente per la Resistenza durante la Seconda Guerra Mondiale, probabile agente del KGB.
Kojève aveva raccolto attorno a sé, alla metà degli anni ’30 uno sparuto manipolo di studenti, che a Parigi ascoltavano con cadenza regolare le sue lezioni: Jacques Lacan, Georges Bataille, Raymond Queneau (per fare solo tre nomi) erano tra gli uditori più assidui. Tra le molte, audacissime teorie che Kojève sviluppò – ereditando avventurosamente la cattedra dallo storico della scienza Koyré – negli anni parigini c’era quella sulla “fine della storia”, formulata in due geniali note a piè di pagina nella sua Introduzione alla lettura di Hegel. Secondo Kojève la storia era finita. Se la storia era, infatti, come sosteneva Hegel, la storia del concetto di Libertà, questo – con la rivoluzione francese – si era realizzato per la prima volta, concretamente, nella storia. E quindi la Storia (quella concettuale, con la “S” maiuscola) era arrivata alla sua fine. Non ci sarebbero state più azioni “storiche” (una guerra di conquista, una crociata, la fondazione di una religione universale), ma solo un assestamento mondiale di quelle che il russo-francese chiamava “le province dell’Impero”. L’american way of life ne era la riprova: una visione del mondo che puntava sul lato animale dell’essere umano, sulla soddisfazione dei suoi bisogni, sulla ricerca di una felicità tutta materiale, tutta fisica. Stavamo tornando all’animalità, perdendo ciò che fa dell’animale sapiens un “uomo”: la volontà di “fare storia”.
In questa geniale, azzardata, apocalittica e (probabilmente) storicamente sbagliata idea della fine della storia e della rianimalizzazione dell’uomo c’era un bagliore di speranza: il Giappone.
Kojève sosteneva che in Giappone, da centinaia di anni (dalla fine del feudalesimo), la situazione di “fine della storia” era uno status quo, ma questo non aveva portato all’animalizzazione dell’essere umano. I giapponesi avevano incarnato il ritualismo nella loro forma di vita, avevano fatto del culto dei piccoli gesti quotidiani la loro natura. Avevano in qualche maniera incorporato – ritualizzandolo e quindi riattualizzandolo – il Senso, pur perdendone la consapevolezza. La cerimonia del tè, l’arte della disposizione dei fiori, le forme teatrali del Kabuki e del Nô, erano “senso”, anche se il loro singificato originario era perduto.
Questa immagine del Giappone come regno del senso ritualizzato colpì la mia mente di studente di filosofia al primo anno di studi in maniera indelebile.
Quando, anni dopo, per la prima volta visitai il Giappone, fu in parte, in gran parte, per vedere l’“altra” fine della Storia rispetto a quella che vivevo ogni giorno in Occidente.
Sarei ritornato altre volte, tra il 2008 e il 2017 in estremo oriente, ma con un altro libro conduttore: L’impero dei segni di Roland Barthes.
Una serie di riflessioni su gesti, impressioni, aspetti minimali, della cultura giapponese, che il suo occhio acutissimo aveva colto, e che la sua sensibilità semiologica aveva saputo riportare ad uso del lettore occidentale, come fosse la trascrizione di un codice sconosciuto da parte di un amanuense viaggiatore. Barthes aveva scritto il libro sul Giappone che avrei voluto scrivere, lasciandomi al contempo meravigliato e abbattuto, come solo i grandi libri sanno fare. Ma i grandi libri sono anche uno stimolo, un invito a cambiare la propria vita, ci confrontano con la sfida della grandezza.
Per questo ho deciso di raccogliere una serie di “ritratti” ispirati, nello stile, al libro di Roland Barthes, che toccassero aspetti diversi rispetto a quelli trattati nel suo cahier e che rispecchiassero al contempo la mia personalissima esperienza di viaggiatore.
Sono immagini, riflessioni di viaggio, sia nella loro forma scritta che in quella visiva, che non pretendono di essere accurate filologicamente o esaustive culturologicamente. Mi scuso fin da ora per le inesattezze che l’esperto di cultura giapponese potrà trovarvi, così come di alcune generalizzazioni culturali che mi rendo conto essere presenti nei miei brevi schizzi.
Prego il lettore di prender le riflessioni che seguono per quello che sono: cartoline da (un’altra) fine della Storia.
Questo testo non sarebbe stato possibile senza i preziosi consigli sulle peculiarità culturali giapponesi di Flavio Parisi, e senza il lavoro di Victor Deleo sul mio materiale fotografico grezzo. A loro va il mio più sincero ringraziamento per aver reso possibile la pubblicazione di queste note.
La via della filosofia
Una delle vie più conosciute di Kyoto è la “via della filosofia”: una passeggiata sulle due sponde di un piccolo ruscello, coperto a volta da alberi di ciliegio. Questi, durante il periodo della fioritura, creano un passage prima di colore viola intenso, poi, poco prima della caduta dei fiori, bianco candido. Nel momento in cui i Sakura sfioriscono nevicano petali bianchi su chi percorre quella via all’ombra precaria degli alberi.
Se la filosofia occidentale, dopo il grande esordio presocratico, è rimasta al fondo sempre imprigionata nel monologismo del brutale essere parmenideo, una sfera fredda e priva di crepe come un pianeta morto, da un lato ripetendolo, dall’altro cercando di liberarsene, quella orientale sembra poggiarsi sulle categorie cangianti del divenire, della caducità e dell’inconsistenza del tutto. Forse solo nelle espressioni più singolari della negatività che si sono date nella gnosi e in Eraclito è possibile trovare una paragonabile filosofia dell’inconsistenza generale. Questa però, con le sue sfumature esistenziali gravi, del colore e della consistenza piombo, solo da lontano può essere apparentata al modo filosofico asiatico di sentire la contingenza.
Il camminare, l’acqua, la fioritura e caducità dei ciliegi sono le segnature e la metaforica tipica della filosofia giapponese, laddove la caduta, il fuoco, la carcassa e la morte ne sono i pendant occidentali.
Camminando per la via della filosofia ci si rende conto – qualcosa di diverso dalla comprensione concettuale – di una via del pensiero che difficilmente può esprimersi in una sistematica e in un’ontologia, ma che trova una forma d’espressione più adeguata nell’elegia, nel frammento, nell’haiku.
Simmetrie
C’è una passione per l’equilibrio di forze, per la distribuzione dei pesi, che sembra trovare espressione solo in alcune architetture minimali, in determinati gesti (ogni oggetto acquistato deve essere porto con due mani, senza eccezione), in alcune tecniche del corpo giapponesi. La posizione delle mani lungo il busto negli inchini, il modo di tenere la schiena mentre si siede in un tempio, o di disporre sulla soglia di questo le calzature preposte, utilizzate per non toccare con le scarpe il pavimento dello spazio sacro, sembrano veicolare delle linee di tensione, dei gesti di scarico, che per noi, popoli dei volumi pieni, assumono un aspetto straniante, e al contempo estatico, estetico.
Inglese
Per un occidentale è difficile credere, prima di averne fatta personalmente esperienza, alla quasi assoluta estraneità dei giapponesi alla lingua inglese. Se però, in media, i giapponesi parlano solo nel proprio idioma – pur consapevoli che l’interlocutore non capisce la loro lingua – accade di rado che si abbia la sensazione che questo venga fatto per approssimazione, per ignoranza, o per pregiudizio. Si tratta piuttosto di una sorta di irriducibile appartenenza e resistenza culturale. Come Roland Barthes notava agli inizi degli anni ’70, il Giappone è l’impero dei segni, e questi segni sono ben presenti anche nella lingua parlata, incisi nella sua carne. Il mistero dei Kanji, gli ideogrammi che racchiudono il senso del formalismo linguistico giapponese (solo la memoria può afferrarli, e non c’è somiglianza morfologica che renda possibile un passaggio non-equivoco dall’uno all’altro, riducendo al silenzio lo sforzo intellettuale di chi cerchi di comprendere il significato di un Kanji che non conosce), si trasmette nella lingua. Questi segni minuti, che si affastellano incomprensibili agli occhi di chi li guarda senza possederne la chiave, segnano la misura dell’impotenza ermeneutica del viaggiatore, i limiti della sua, della mia, forma di vita. Laddove nell’inglese è racchiuso il sogno di poter essere ovunque a casa nella stessa lingua, nel giapponese c’è il marchio dell’esser-straniero per tutti quelli che non appartengono all’impero dei segni per diritto di nascita. Non si tratta solo dell’esperienza che si fa di fronte allo sconosciuto, o a una lingua ignota, ma è qualcosa di diverso, vicino forse solo all’enigma del geroglifico egizio prima della decifrazione. L’esperienza dell’estraneità linguistica, resistente all’uso della koiné di oggi, qui, è ancora possibile, questo dono.
Zen e cemento
Nel museo dedicato al filosofo D. T. Suzuki, nella città di Kanazawa, l’onnipresente cemento nudo, invece di opprimere il visitatore con la propria brutale datità, smaterializza gli spazi, diventa spazio mentale, e questo proprio laddove la fisicità dell’elemento materico dovrebbe risultare più opprimente, dura, mastodontica: ungeheuer direbbero i tedeschi, non sapendo (o non volendo) distinguere tra il mostruoso e lo smisurato. La totale assenza di concessione alla narrativa figurata, o alla descrizione museale (e musealizzante) si esprime in una ritrosia quasi coquette del cemento, che accompagna la solitudine di chi si muove per i corridoi stretti che collegano le poche stanze tra di loro, e con il quadrato di acqua adibito all’esterno a spazio per pensare. In una solitudine tanto naturale quanto urbana (sembra che l’alternativa natura/cultura qui non abbia preso piede, lasciando spazio ad una natura culturale, che trova la propria massima espressione nei giardini giapponesi), proprio laddove, tra mura di cemento grigio, sembrerebbe incarnarsi l’incubo moderno della prigionia nell’epoca del capitalismo tardo, ci si trova paradossalmente liberati dal proprio peso, dal peso del proprio Sé.
Giardini
L’oltrepassamento della dicotomia natura/cultura, come spesso è stato notato dagli studiosi di estetica, trova nel giardino una sua espressione esemplare. Nel giardino giapponese questo appare particolarmente evidente: una natura vegetale accuratamente scolpita si interseca con forme artificiali (lampade in pietra, piccoli sentieri, ponti su ruscelli artificiali e laghetti dove nuotano placidamente grosse carpe) perfettamente funzionali e integrate nell’architettonica del giardino stesso. Spesso i giardini sono parte di residenze private, spazi minimali in cui e su cui lasciar vagare la mente, l’occhio, più che il corpo: non conta tanto la grandezza del giardino, o la possibilità di entrarvi, di sedersi, di sdraiarsi o di mangiare in esso, quanto quella di posarvi l’occhio.
Il giardino giapponese è uno spazio più metafisico che fisico, un luogo dell’anima, ma non necessariamente della propria.
Kinkakuji
Yukio Mishima, nel suo romanzo dedicato al padiglione d’oro di Kyoto, descrive il sentimento di oppressione, di inadeguatezza, di dolore e al contempo di fascinazione di un monaco di fronte alla bellezza insostenibile del tempio che è destinato a curare. Il padiglione d’oro è l’espressione di una perfezione formale ai limiti del sopportabile: la totale assenza di asperità esteriori, la cornice naturale curata, “pettinata” verrebbe da dire, entro cui si inserisce, le acque che lo circondano, sono solo specchi funzionali alla moltiplicazione della sua bellezza. Se le cattedrali gotiche europee schiacciavano l’uomo con le loro (dis)proporzioni, ponendosi direttamente in dialogo con Dio, il tempio d’oro giapponese sembra essere un monumento alla solitudine degli spazi vuoti, un mausoleo dedicato a un ordine cosmico che sopporta solo come accessorio collaterale l’esistenza dell’uomo, e che, allo stesso tempo, può fare tranquillamente a meno di Dio. Solo le frotte di turisti, oggi, rendono umano un posto che nella sua solitudine, in tempi passati, deve essere stato al contempo sublime e insopportabile per un animo sensibile alla bellezza. Il monaco di Mishima cercherà di liberare se stesso e il mondo dalla insostenibile perfezione del Kinkakuji, consegnandolo alle fiamme di un fuoco umano, troppo umano. Chi ha visitato quei luoghi può solo, con un senso di disagio, almeno parzialmente, comprendere quel gesto estremo, disperato, di liberazione, di fronte a una bellezza che – sovranamente – pretende di fare a meno dell’uomo.
Sacer
Il concetto di “sacrale”, quel silenzioso, adorante, stupito e timoroso atteggiamento che esprime la parola “numinoso”, sembra essere assente sia dalle strutture architettoniche dello spazio religioso giapponese, che dal modo che hanno le persone di rapportarsi ad esse. Mentre i chioschi di souvenirs religiosi di Nôtre Dame, a Parigi, o quelli presenti a Roma, appena fuori dalla Città del Vaticano sembrano – e sono – un’aggiunta posticcia, frutto del turismo di massa, che cozza contro il senso del sacro per cui quei luoghi furono pensati, essi non sono affatto estranei agli spazi cultuali giapponesi. Un distributore automatico di bibite, una macchina parcheggiata, un chiosco di souvenir non sono fuori posto in un tempio giapponese.
Si tratta, sia nel caso dei templi shintoisti che dei complessi buddhisti, di templi delocalizzati, dove lo spazio interno e lo spazio esterno collassano, così come collassa l’alternativa natura/cultura: il bosco, gli animali (anche i più minuti, ridicoli, insignificanti: un topo, una volpe, un tasso) fanno parte del tempio, lo rappresentano e ne sono rappresentati: spesso vengono essi stessi venerati come spiriti benigni. Se – come sostiene il filosofo Giorgio Agamben – il significato originario di “profanare” sarebbe quello di sottrarre un oggetto, o un costume, allo spazio sospeso del sacro, riconsegnandolo all’ordine dell’uso quotidiano (profano), è quasi possibile sostenere, con un paradosso, che lo spazio religioso giapponese è uno spazio sacro profano, in cui gli oggetti sono quello che sono, non rimandano a nessun contenuto simbolico, o trascendente.
In questo spazio sacro profano il sorriso, il gioco, l’utilità, il riposo, il mangiare e il bere, sembrano (ri)trovare il loro posto nello spazio orizzontale del mondo.
Forse era questa la costante culturale della religiosità “mondana” pagana, che con l’affermarsi in Occidente dei monoteismi ha lasciato il posto alla dimensione verticale della trascendenza, verticalità tutta visibile nei campanili, nelle torri e nelle guglie delle nostre chiese, e nei minareti arabi – ma che sembra essere quasi assente dagli spazi religiosi orientali.
Soglie
La struttura architettonica di un tempio shintoista (ma il discorso vale anche per l’architettura del tempio buddhista: un tempio non è mai un tempio solo, ma sempre un complesso di templi, tra cui è sempre aperto uno spazio di attività) è un invito alla riflessione sull’indiscernibilità di spazio religioso e spazio profano: il tempio in quanto tale non esiste, esso è smaterializzato nello spazio circostante, solo la soglia ne è segnata. Tramite un portale, così simile a un Kanji che attraversandolo sembra di entrare in un universo linguistico peculiare, si passa dallo spazio esterno allo spazio interno, rimanendo però – sempre e comunque – “fuori”: il tempio giapponese non delimita lo spazio del mondo e dell’ultramondano con le barriere architettoniche tipiche delle chiese. In questo la religiosità pagana, quella segnata dalla zona d’indistinzione tra spazio del culto e spazio quotidiano, è ancora viva e attiva. Nel gesto minimale di attraversare una soglia che non porta in nessun luogo è vigente un operatore simbolico estremamente potente, che si ripresenta, in forme leggermente variate, in molte religioni “mondaniste”: il nostro mondo e il mondo dopo la redenzione sono lo stesso mondo; essi sono separati soltanto da differenze minime, impercettibili. Come l’attraversare una soglia.
Divise
Il Giappone è il paese delle divise. Divise per gli scolari e le scolarette, a loro volta diverse tra di loro – segnando delle sottili marche culturali, che il non-giapponese vede e identifica, ma non comprende, non conoscendo il linguaggio simbolico che esse veicolano –, divise per i tassisti, con i loro inconfondibili guanti bianchi (anche gli oggetti del mestiere, a loro modo, “indossano” divise: il taxi giapponese si distingue da tutti gli altri taxi del mondo per gli opulenti merletti bianchi che ricoprono ogni superficie), divise simili, ma variate minimalmente per ogni singolo impiegato di un’agenzia pubblica. Divise per gli autisti, per i controllori del treno, persino per gli innumerevoli uomini deputati a regolamentare il passaggio di fronte a ogni incrocio, cantiere, sbarramento dovuto a eventuali lavori in corso. Il grande pensatore russo-francese Alexandre Kojève notava, a cavallo tra gli anni ’40 e ’60, che il Giappone era il luogo in cui il “Senso” si era mantenuto nelle forme, in una culturalità ritualizzata, che poteva far a meno dei contenuti in virtù della perfezione formale espressa dai gesti. Kojève vedeva nella ritualità giapponese l’alternativa alla rianimalizzazione dell’essere umano nell’epoca dell’american way of life trionfante. Probabilmente, le onnipresenti divise giapponesi sono il trapasso del ritualismo nella quotidianità, la sua sintesi – inconsapevole ma evidente all’occhio estraneo dell’osservatore – perfetta nel costume di un popolo. L’idea che nella società secolarizzata e post-bellica giapponese sia ancora all’opera, in una versione liberata dalla consapevolezza e dalla tendenza alla violenza, una forte tensione verso la standardizzazione dell’individuo tipica delle società militariste rimane molto presente a chi osserva le compartimentazioni sociali tramite l’estetica delle divise.
Probabilmente è solo l’afflato ironico dei simboli (viene però da chiedersi se quest’ironia è solo nell’occhio dell’occidentale che guarda) – spesso ispirati all’estetica dei manga – usati come “gradi” e paramenti a salvare, rendendo il tutto non-sospetto, quasi giocoso, dall’apparenza che per le strade del Giappone si dia una parata militare costante, perpetua.
Sakura
Il momento di massimo splendore della fioritura dei ciliegi giapponesi coincide con quello della loro morte. Quando i petali abbandonano il fiore, diventando "neve" che lascia incantato chi ha la fortuna di presenziare a questo evento, è già compiuto il lento lavorìo della caducità. L'ostinata indifferenza della filosofia giapponese per la dicotomia occidentale essere/nulla è tutta racchiusa nel mistero semplice dell'evento della (s)fioritura dei sakura.