Speciale
Ma uno con una foto decente proprio mai? / No Cheese
“Documento prego”. Niente Polizia o Carabinieri, solo un esame universitario. Ed ecco che la danza ha inizio. Prima di tutto, il modo di tirar fuori il suddetto documento. Il soggetto maschile solitamente è deciso, perfino irruento: paf, lo sbatte sul tavolo e sia quel che sia. Quello femminile no, comincia subito un rituale fatto di sorrisetti, occhi che si abbassano, gesti della mano. Non lo poggia sul tavolo, te lo porge, ma il gesto è quello di chi non vorrebbe che tu lo prendessi, di qualcuno che spera che quella carta d’identità non venga mai aperta, che sia insomma la solita formalità. Quando vede che la paginetta sta per essere spalancata e capisce che ormai non c’è più nulla da fare, ecco che costei si prepara. È un secondo, il tempo di un respiro preso e trattenuto fino al momento fatidico in cui gli occhi di chi ha ricevuto il documento passano dalla pagina di sinistra, quella in cui ci sono le generalità, a quella di destra. È lì il possibile motivo di imbarazzo, la cosa da sdrammatizzare, di cui cominciare a ridere preventivamente per evitare che qualcuno scoppi a farlo per davvero, spontaneamente, fragorosamente. È lì la fototessera, piccola, quadrata, e invariabilmente ridicola.
Ed ecco giungere la risatina (unisex) da parte del proprietario. Poi prontamente: “Noooo, è una foto vecchia, non ci somiglio per niente”. Che volete fare, sono siciliano, la maggior parte delle volte questa scena si svolge nella mia isola. Punto primo: perché diciamo di non somigliare per niente alla fototessera? Punto secondo: perché è davvero così? Punto terzo: perché la fotografia è così maledettamente esilarante? Punto quarto: ma uno con una foto decente proprio mai? E per finire, ma in verità per cominciare, l’evidenza di questo rituale autoironico. La comicità qualche volta è come l’influenza, meglio prevenirla che curarla.
Ma andiamo con ordine. Perché non somigliamo mai alla fotografia dei documenti lo ha già spiegato Umberto Eco e tocca solo ricordarlo. Come vorreste riconoscervi in un’immagine in cui viene isolata la testa dal resto del corpo, in cui la ripresa frontale appiattisce la faccia, in cui guardate fisso davanti a voi come degli ebeti rimanendo serissimi? Tutto nella vostra posa sembra voler dire “ecco, sono esattamente così” ma il risultato è l’opposto. Tanto che, suggeriva il semiologo, per riconoscere davvero qualcuno è meglio basarsi su un identikit, ovvero un ritratto semplificato in cui vengono omessi moltissimi particolari affinché i tratti essenziali possano emergere. Alla faccia (è il caso di dirlo) del realismo dell’immagine fotografica, dell’impossibilità di distaccarsi da come il mondo realmente è. Il documento che ci segue fedele nella tasca dei pantaloni è la prova che la realtà (soprattutto quella fotografica) è il prodotto di una convenzione di cui abbiamo dimenticato le ragioni. Perché non possiamo ridere? Perché non possiamo voltare leggermente il capo? Perché insomma siamo noi quando guardiamo dritto l’obiettivo senza niente in testa se non il lampo che ci abbaglia? Le autorità certamente non lo sanno, salvo poi fare identikit a più non posso quando vogliono davvero riconoscere un volto in mezzo a mille altri.
Ma a far ridere non è lo sguardo allampanato o il tipo di composizione, per tutti uguale e a cui siamo dunque abituati, ma quei dettagli che nell’identikit spesso vengono omessi e il modo in cui si relazionano con i primi. Per esempio, ci sono quelli che alla fototessera si sono preparati. Le donne sono truccate, i capelli “a posto”, il vestito buono; gli uomini appena fuori dal salone del barbiere, con la chioma mossa al punto giusto e la pelle del viso liscia come il culo di un bambino. E naturalmente giacca e cravatta. C’è gente che in occasione dei matrimoni fa la fototessera anche se non serve: sarebbe un peccato sprecare un vestito così bello. Sul momento, essere eleganti sembra il miglior modo per apparire in una fotografia che è destinata a durare per diversi anni. Poi il tempo passa e invecchiamo, ma soprattutto non saremo mai più così tirati a lucido. Per non dire di come cambia la moda. Ci mette un attimo il vestito “da fototessera” a diventare comico. Il ridicolo e la moda, ecco un tema. Quando la moda passa di moda (e non fa altro), diventa divertente. Avete presente? Le spalline, le cravatte larghe, i fiori, le maniche a sbuffo. La zia Franca, faccia serissima, occhio pallato e spalle da giocatore di rugby? Risata incontenibile.
Poi ci sono quelli che la fototessera si fa quando serve, non un minuto prima. Ed eccoli, barba lunga, camicia macchiata, rossetto sbavato, occhi gonfi di sonno, brufolo monumentale in mezzo alla fronte e cose del genere. “Eh eh eh, no è che quel giorno non sa cosa mi è capitato…” E giù una storia che cambia tutte le volte, impossibile tenere a mente quella vera per sempre. L’abilità, come sempre, sta nel far collimare i dettagli. Se dite che avete dovuto rifare la fotografia all’ultimo momento perché con quella precedente (quella venuta bene) ci avete fatto il bagno per sbaglio, non potete avere il maglione di lana. E viceversa, se volete sostenere che lo scatto fausto è finito tra le fauci del cane, vedere la manica della giacca leggermente strappata aiuta. Una variante del last minute è il past minute. Quelli cioè che anziché fare una nuova fotografia tre minuti prima di presentare i documenti alla delegazione comunale (la macchinetta, manco a dirlo, si trova lì davanti), preferiscono ravanare nel cassetto fino a tirarne fuori un vecchio scatto. “Sono più giovane ma sono sempre io”.
Sbagliatissimo. Queste però sono le mie preferite e vi dico perché. Quando prendete la carta d’identità in mano lo capite subito che è nuova. È rigida, gli angoli sono netti, tende a rimanere aperta. A quel punto siete già preparati a riconoscere l’immagine come una copia vagamente somigliante della persona che avete davanti. Il documento avrà sei mesi, come volete che sia cambiato questo signore? Ed ecco che nel quadratino colorato vi si para davanti un soggetto completamente diverso. Il tipo pesa sui cento chili per uno e settanta di altezza, barbone modello mangiafuoco e orecchino ad anello al lobo sinistro? Quello nella fotografia è un ragazzetto pelle e ossa completamente imberbe con il gel nei capelli e un girocollo bianco. La signorina ha la testa di un drago che fa capolino dalla manica della camicia, le labbra nere di rossetto e i capelli per metà rasati e per metà lunghissimi e arancioni come il soffio dell’animale fantastico? Nella fotografia c’è una scolaretta con vestitino blu, camicina bianca e i capelli a pagoda che vorrebbe accennare a un sorriso ma tenta di trattenersi perché così gli è stato detto. Altro che Monnalisa.
La colpa è del tempo che passa si dirà, della moda, dell’invecchiamento, delle tante trasformazioni che si verificano. Sono loro a creare il ridicolo. Ma perché allora nessuna fotografia fa ridere come la fototessera? Il punto è che la fototessera non è un formato né un insieme di regole compositive, è un vero e proprio genere fotografico. Risponde a delle regole non scritte che riguardano tanto il modo di ripresa (formato, inquadratura, illuminazione…) quanto a come ci si debba disporre a tutto ciò. Per Barthes la fotografia è un concetto che cambia a seconda del punto di vista dal quale la si osserva, proprio come un’istantanea. Una cosa è la fotografia secondo il fotografo (lui lo chiamava Operator), cosa ben diversa è la fotografia secondo colui che viene fotografato (Spectrum) e cosa diversa ancora diventa a partire da colui che la guarda (Spectator). Ora, la fototessera presenta peculiarità che riguardano tutti e tre questi aspetti. Sull’Operator, oltre a quello che abbiamo detto, va sottolineato che a fare la fotografia è una macchina. Un apparecchio automatico che apre l’otturatore a intervalli di tempo prefissati senza preoccuparsi di cosa stia facendo la persona davanti all’obiettivo, di quanto la posa che assume sia naturale, ridicola, interessante ecc. Ne risulta una fotografia casuale e per questo, del tutto paradossalmente, spontanea: il minimo della spontaneità diventa il massimo per il tramite di un fotografo robot.
Quanto allo Spectrum, abbiamo già accennato al modo in cui ci si pone nella fatidica cabina, quello che va sottolineato è l’effetto di senso che producono gli scarti da questa regola. Farsi fotografare in compagnia, con gli occhiali scuri, in pose che suggeriscono una qualche forma di azione o mentre facciamo una smorfia, produce quasi sempre un effetto interessante, una “bella fotografia”. Il motivo è semplice: le regole di genere sono chiare a tutti, e dunque ogni scarto è per definizione significativo. Ci torneremo. Infine c’è lo Spectator e il suo modo di guardare la fototessera. Chiunque prenda un documento sa cosa questo dovrebbe essere, sa che dovrebbe consentire senza ombra di dubbio il riconoscimento, ma sa anche che questo non succederà mai. È pronto alla sorpresa, la cerca, si dispone nei suoi confronti. Non foss’altro perché sa che anche il suo documento presenta gli stessi problemi. Tant’è che se si vuol togliere dall’imbarazzo qualcuno che ci ha mostrato il suo documento, la prima cosa da fare è tirar fuori il proprio e ridere insieme. Ancora regole.
Eccola allora la chiave della comicità: le regole. Il comico nasce da una variazione rispetto alla normalità, uno scarto che va in una certa direzione. Anche il tragico lo è, solo che lo scarto in quel caso va nella direzione opposta. Che c’entra il tragico ora? C’entra, perché accade che il tragico lo capiscano sempre tutti mentre il comico no. Pensateci, è difficile che un film comico francese o inglese ci faccia ridere, mentre una tragedia di questi due paesi ci fa versare invariabilmente fiumi di lacrime. Deduzione: il tragico è universale mentre il comico no. Sbagliato, dice sempre il solito Eco. Il problema non è la presunta universalità del tragico, ma il fatto che per una regola di genere il tragico debba sempre esplicitare quella normalità di cui costituisce la variazione. Se leggiamo Madame Bovary, prima di farci un bel pianto liberatorio dobbiamo sorbirci pagine e pagine di maledetta vita quotidiana. Questo nel comico non succede. La comicità ha dei tempi diversi, non ama le attese. Non possiamo preparare una battuta per sessanta pagine, non funzionerebbe, nessuno ci arriverebbe. Ecco allora perché ci fanno ridere le torte in faccia di Stanlio e Ollio e le bucce di banana, indipendentemente dalla latitudine e dunque dalla cultura: in quel caso tutti sanno come dovrebbero andare le cose. Le torte si mangiano e le bucce di banana si gettano nel cestino, vedere le prime in faccia a qualcuno e le seconde con la loro strana forma e il colore acceso così evidenti sulla strada, è uno scarto che tutti riconoscono e grazie al quale ridiamo. Ecco allora perché la fototessera ci fa questo effetto, perché nel mare di immagini con le quali ci confrontiamo, è l’espressione di un genere definito, del quale tutti conosciamo le regole. Non ci credete? Volete ridere per davvero? Guardate le fototessera dei cani realizzate dal fotografo Guinnevere Shuster per la The Humane Society dello Utah per favorire l’adozione degli animali. C’è da sbellicarsi, e il motivo è sempre lo stesso: le regole. Solo che qui, avendo a che fare con dei cani, non fanno ridere solo le fotografie in cui il soggetto fa altro rispetto a guardare in camera composto, ma anche (e soprattutto) quelle in cui non lo fa. Guardate l’ultima del Dobermann e godete.
P.S.
Lo so, lo so, non ho parlato de Il favoloso mondo di Amelie. Ci abbiamo pensato tutti, ed è sicuro che da lì un pensiero intelligente sarebbe venuto, ma non avevo voglia. L’unica cosa che ho pensato è che la nostra collezionava fototessera scartate, non quelle buone. Che la poesia venisse da lì?