L'età tragica dei corpi senz’anima
Il terzo appuntamento con la rubrica bimestrale di conversazioni psicosociali ci porta al nord di Londra, dove la psicoanalista e attivista Susie Orbach, vive e lavora da sempre.
Secondo il quotidiano The Times, Orbach è la psicoterapeuta londinese più influente dopo la morte di Freud. I suoi interessi si concentrano sul femminismo, il corpo, il contro-transfert, la psicoanalisi e la sfera pubblica, la costruzione della femminilità e del genere, la globalizzazione e l'immagine del corpo e l'alfabetizzazione emotiva.
Il suo primo libro, Fat Is a Feminist Issue (1978), a oltre 45 anni dalla sua pubblicazione, è e uno dei testi fondamentali del movimento di liberazione delle donne britanniche. Orbach, che si è concentrata sui disturbi alimentari per molto tempo, ha anche pubblicato Hunger Strike (1986) e On Eating (2002). Tra gli altri libri pubblicati: The Impossibility of Sex (2005), Bodies (2009), In Therapy (2016) e In Therapy: The Unfolding Story (2018). Nel 1976, insieme a Luise Eichenbaum, ha co-fondato il Women's Therapy Centre a Londra e ha replicato l'iniziativa a New York nel 1981, fondando il Women's Therapy Centre Institute. Secondo voci ben informate, Orbach sarebbe stata la terapeuta della principessa Diana,anche se lei non ha mai né confermato né smentito tali affermazioni. La serie TV The Crown
ha affrontato la questione dedicandole un episodio nella sua sesta stagione.
Susie, secondo i sociologi italiani Mauro Magatti e Chiara Giaccardi staremmo vivendo nella "società del rischio" o “nell'era degli shock", caratterizzata da abbondanza tecnologica ma mancanza di anima. Date le sfide che stiamo affrontando – cambiamento climatico, populismo, pandemie, guerre – in che epoca stiamo vivendo?
Il concetto di "era degli shock" proposto da Magatti e Giaccardi ha senso, ma vedo anche questo periodo come esclusivamente tragico, un'epoca di destabilizzazione che colpisce particolarmente gli over 40. È anche un'epoca di smaterializzazione, in cui siamo contemporaneamente senza corpo e ossessionati dal corpo, con profitti considerevoli generati da questa polarizzazione. Non ho un nome specifico per quest'epoca, quindi "era degli shock" non è poi così male…
Tu sei una specialista dei corpi (non solo dell’anima), e hai scritto moltissimi libri su questo tema. Invece di "era degli shock", potremmo chiamarla "era dei corpi"?
Non è solo l'era del corpo, ma anche dell’incorporeità. Con l'ascesa dell'intelligenza artificiale e la possibilità di essere caricati su un chip o smaterializzati, è “affascinante” che le aziende più potenti in Europa siano aziende come LMVH, Zara, L'Oréal etc., e che i proprietari di queste aziende siano in cima alle liste dei miliardari (Bernard Arnault, Francoise Bettencourt, Amancio Ortega). È “straordinario” pensare a questa come l'era della tecnologia, che indubbiamente lo è, quando i principali protagonisti sono focalizzati sul de-costruire e ricostruire i nostri corpi, facendoci interpretare i corpi attraverso la cultura visiva piuttosto che l'impegno fisico. È un momento molto “interessante”, seppur tragico, della nostra storia.
Sono stato colpito dal modo in cui hai usato gli aggettivi "affascinante", "straordinario" e "interessante" per descrivere questo momento della nostra storia, che tu hai dipinto come tragico. Questi aggettivi evocano un senso di fascino, eccitazione e stimolo intellettuale riguardo a qualcosa. Sono spesso utilizzati per descrivere esperienze, eventi o oggetti che suscitano curiosità, attrazione o che si distinguono per la loro eccezionalità. Inoltre, possono evidenziare l'unicità o la particolarità di ciò che si sta descrivendo, sottolineando l'importanza o l'impatto emotivo che possono avere sulle persone. Quindi, è possibile coltivare l'anima oggi?
Provenendo da una tradizione secolare, non ho mai veramente saputo cosa potesse essere l'anima. Fino a quando la soul music è arrivata nella mia giovinezza. C'era una tradizione musicale che mi toccava così profondamente e che era così connessa all'ascolto della musica con altre persone. Evocava un senso di connessione, resilienza ed esperienza collettiva. La soul music degli anni '50 e '60 era tanto gioiosa ed euforica quanto tragica e dolorosa, e parlava alla mia anima.
Avere anima significa connettersi con gli altri, ai concerti o alle manifestazioni, e sentivo il desiderio di essere una con altre persone, e tutto riguardava la trasformazione, ed essere più grande di me stessa, eppure più dentro me stessa. Posso parlarne solo dalla mia prospettiva particolare, che era politica. Sono rinata nei movimenti sociali, quindi è lì che metterei l'anima per me. Ma so che gli psicoanalisti junghiani e i religiosi hanno una tradizione molto diversa dell'anima rispetto a qualcuno così secolare come me. E lo sento ancora quando vado a una manifestazione sul cambiamento climatico o a uno dei tanti eventi politici a cui puoi partecipare che coinvolgono altri corpi, altre persone che condividono preoccupazioni – anche con sfumature diverse. Penso di identificare questo come anima.
Nelle precedenti conversazioni di questa serie, abbiamo esplorato il concetto di "coltivare l’anima", che per uno psicoanalista junghiano implica, soprattutto in questi tempi difficili, aprirsi alle opportunità offerte dalla spiritualità non religiosa. In una società post-liquida, che potremmo definire una "super-società", coltivare l’anima non è un processo lineare o uniformato, ma un'integrazione complessa e non sequenziale. Alla luce di quanto abbiamo appena discusso e della crescente necessità di attivismo, come è possibile oggi coltivare l’anima? Cosa emerge nei colloqui con i tuoi pazienti riguardo a questo tema?
Le persone con cui lavoro in terapia cercano opportunità di connessione e di scoperta di sé, comprendendo che questa scoperta è strettamente legata al contributo verso gli altri. Per loro, e certamente per me quando lavoro con loro, l'idea di "anima" si manifesta attraverso la connessione e il contributo. Questo sentimento profondo mi commuove, ed è simile a quello che provo di fronte agli atti ordinari di gentilezza che incontro quotidianamente per strada.
…“atti ordinari di gentilezza” che servono per ristabilire un'umanità dimenticata e persa, quando abbiamo creduto che l'unico modo possibile di vivere nel nostro mondo contemporaneo fosse concentrarsi su ciò che la filosofa ungherese Ágnes Heller chiamava "presente assoluto" (The Time Is Out of Joint, 2002).
Anche se non considero la "anima" una categoria di riflessione frequente, credo che essa rappresenti qualcosa riguardo a ciò che le persone possono fare l'una per l'altra. È la capacità di compiere gesti significativi che toccano profondamente, perché si è riusciti a influenzare positivamente la vita di qualcun altro.
Mi piace molto ciò che hai appena descritto, perché spesso penso che stiamo assistendo a una transizione da quella che Freud chiamava psicoanalisi a ciò che potrebbe essere definito psicagogia, termine greco che significa "guida dell'anima". Forse, ciò su cui si basava la psicoanalisi freudiana, come il complesso di Edipo, è meno rilevante oggi. Con l'avvento della seconda modernità e di una società liquida, i concetti di madre e padre sono cambiati così profondamente che coloro che si sottopongono a terapia stanno effettivamente cercando ciò che hai descritto: connessione. Quindi psicagogia. In altre parole, sono in cerca di nuovi modi di essere e di relazionarsi nella società. Cosa ne pensi?
Ovviamente non possiamo ignorare le circostanze in cui cresciamo. Tuttavia, ogni mio paziente viene da me e prima o poi inizia a chiedersi: “che tipo di relazioni ho?” “Come sono connesso agli altri?” “Come posso fare qualcosa di significativo per me, che sia anche importante per altre persone?” Inoltre, queste domande riguardano il significato di essere adulti. La domanda fondamentale è quindi: gli adulti sono veramente adulti? I miei genitori sembravano adulti, ma erano veramente maturi? Svolgevano lavori da adulti, ma avevano una mentalità da adulti? Non voglio sminuire l'importanza delle figure genitoriali o delle relazioni tra fratelli. Sono ancora presenti nelle nostre vite, e continuiamo ad avere ansie derivanti da loro, così come la capacità di desiderare cose diverse, amare, o altro. Abbiamo ancora desideri da esprimere ed esplorare, che derivano dalla meraviglia infantile condivisa con gli altri. Poi, oggi, nel contesto della relazionalità, entrano in gioco la tecnologia e l'AI. Mi spiego meglio: è attraverso la tecnologia che riceviamo una email da qualcuno che non conosciamo, e questo può diventare una fonte enorme di gioia o, al contrario, di tristezza. Oggi è possibile entrare in connessione con qualcuno con cui non sapevi di condividere un regno di speranze o idee. Ma mi rendo conto che stiamo vivendo una sorta di pseudo-democratizzazione dei sentimenti, dove tutti possono provare emozioni, ma nessuno sa veramente come contenere e gestire quei sentimenti dentro di sé. È un quadro molto confuso al momento, anche perché, oggi, viviamo in compartimenti stagni.
Sei anni fa, nel 2018, prendendo spunto dal tuo best seller L'impossibilità del sesso, dove descrivevi le tue pazienti Carol e Maria come "donne del loro tempo, libere di lavorare, di entrare in territori sociali che prima erano off-limits, di essere più o meno aperte sulla loro sessualità, di disegnare la loro vita", cioè donne che "amavano il loro lavoro e lo trovavano molto significativo, ma non volevano che si imponesse su di loro", che "lottavano tra la dipendenza e l'indipendenza, il nutrirsi a vicenda e l'essere nutrite", ti chiesi: come stanno le donne? Tu mi rispondesti: “Esattamente lo stesso”. Poi tu aggiungesti...
Credo che l'intera questione della dipendenza, dell'attaccamento, dell'autonomia e del lavoro siano ancora molto presenti. Mi capita di incontrare giovani donne che ritengono molto negativo avere dei bisogni di dipendenza. Se ne vergognano molto. Non sanno se il lavoro debba occupare una parte importante della loro vita o che ruolo dargli. Questo vale soprattutto per le donne tra i 20 e i 30 anni. Si sentono convinte che il significato del femminismo o delle porte che abbiamo aperto sia che loro dovrebbero stare bene, mentre il mondo non sta bene. Devono essere state educate a sapere che il mondo è pieno di lotte, e che ci sono anche lotte psicologiche: per mostrare se stesse, per osare esprimere i propri desideri, per osare connettersi con gli altri in un modo che sia allo stesso tempo separato ma connesso. Perché è proprio questa la lotta, credo, sia nel femminismo che nella psicoanalisi: come si fa a creare un attaccamento separato, in modo da non essere tagliati fuori, ma nemmeno in un rapporto fusionale? E nel caso di L'impossibilità del sesso (o in quel caso immaginato, perché non esistono, quelle donne) hanno introdotto una terza parte per affrontare il problema di non saper occupare il proprio spazio (se non ricordo male. L'ho scritto molto tempo fa, saranno passati 20 anni).
È particolarmente importante il riferimento a quelle donne che si trovano a destreggiarsi tra il lavoro che amano, la famiglia, il/la partner e i figli, cercando di non essere sopraffatte da tutti questi aspetti. Possiamo utilizzare il termine di Giddens, "autoriflessività", per descrivere questa loro capacità di riflettere e agire consapevolmente nella loro vita. Queste donne cercano di vivere pienamente, ma poi è come se dovessero fare la spunta accanto a ogni compito completato. Ho una paziente che spesso dice: 'Segno tutto nel mio grafico Excel mentale e spunto le attività completate nella lista.'
Ho avuto l'esperienza con alcune giovani pazienti che, pur avendo raggiunto tutti gli obiettivi sulla loro lista – un fidanzato, un corpo fantastico, un lavoro da sogno – si sentono comunque infelici. Mi dicono: 'Ho tutto ciò che ho sempre desiderato, ma non sono felice.' Spesso sento dire da queste giovani donne: 'Ho raggiunto i miei obiettivi, ma queste conquiste non sembrano far parte di me...' Francamente, credo che questa sensazione di disconnessione sia in parte dovuta al femminismo o alle loro madri (anche se non voglio solo dare la colpa alle loro madri!), e possa anche derivare dal contesto storico e culturale in cui sono cresciute, che ha promosso l'ambizione senza prepararle adeguatamente alle sfide reali nel raggiungere tali traguardi. Questo non è da attribuire esclusivamente alle loro madri, ma piuttosto all'epoca e alle aspettative di quel periodo. Di conseguenza, molte di loro si sentono un po' vuote. Un esempio di questa situazione è rappresentato nel mio ultimo libro, In Therapy, dove il personaggio di Helen, un avvocato di successo con tutte le credenziali, si trova a vivere una vita che non sembra completamente soddisfacente.
Susie, come stanno le donne oggi, nel 2024?
Recentemente ho letto un rapporto del British Council che rivela, attraverso un sondaggio globale tra donne, che le norme sociali e di genere sono dannose. Esiste un grande divario tra le leggi e la loro applicazione. La vita digitale offre molte opportunità di coinvolgimento, ma anche rischi di sfruttamento. Inoltre, ci sono enormi ostacoli all'empowerment delle donne.
E come stanno gli uomini?
Se consideriamo la situazione dei ragazzi e degli uomini, è davvero preoccupante, soprattutto se pensiamo a figure come Jordan Peterson e Andrew Tate.
Già… questi due sono diventati come dei capi-clan per uomini in cerca di un'identità, offrendo loro una sorta di guida o appartenenza, ma spesso non affrontano in modo costruttivo le sfide reali che questi giovani devono affrontare.
E non parlano delle esperienze difficili che i giovani uomini vivono, come il sentirsi trascurati o senza un ruolo definito nella società. Quindi non credo che i ragazzi e gli uomini stiano bene oggi. Anche se vedo molti uomini di successo, noto anche una grande quantità di uomini in difficoltà e disorientati. Spesso, questi uomini si esibiscono davanti alla telecamera e si dedicano a performance umilianti, promuovendo valori che sono diventati predominanti nella nostra cultura. È particolarmente difficile quando un candidato presidenziale (ma non è l´unico), noto per comportamenti discutibili come violenze, inganni e menzogne, rappresenta la mascolinità. Questa situazione è semplicemente insostenibile.
Il tuo riferimento a Peterson, Tate e Trump mi dà l'opportunità di parlare di un articolo che ho pubblicato recentemente, intitolato “L'era dell'ipocrisia”. In questo articolo, esploro il parallelo tra l'inizio del XX secolo e il nostro tempo. È possibile che ciò a cui stiamo assistendo oggi, simile a quanto accaduto negli anni '20, sia una sorta di ciclo retrogrado?
Se consideriamo il periodo della Repubblica di Weimar, le invasioni alleate all'inizio dell'Unione Sovietica, o le trasformazioni culturali, è chiaro che le culture attraversano fasi di apertura e chiusura. Tuttavia, non credo che il vero fattore determinante sia l'oscillazione culturale. Penso che ciò che è cruciale sia la riorganizzazione del capitale. Dopo la Prima Guerra Mondiale e oggi, con l'avanzamento tecnologico, la riorganizzazione del capitale gioca un ruolo fondamentale nel determinare i cambiamenti sociali e culturali. E poi ci sono cambiamenti ed esperimenti che non sono sempre decadenti come nel periodo di Weimar.
Quello che stiamo vivendo – come i primi anni del secolo XX – è un periodo è esplorativo, ma anche estremamente confuso, perché nessuno sa come orientarsi. La smaterializzazione del corpo e l'enorme pressione su di esso portano le persone a cercare ogni tipo di soluzione, dai percorsi di transizione di genere ai disturbi alimentari come l'anoressia. Questi sono tentativi di ricerca dell'identità e di trovare il proprio posto nel mondo, ma non sempre portano a una stabilità individuale.
Quindi quale futuro ci aspetta?
Nonostante l’aumento delle disuguaglianze sia un tema di grande preoccupazione, siamo attualmente immersi in un'epoca di profonda destabilizzazione sociale ed economica. Questo processo di cambiamento e riorganizzazione sembra rispecchiare quanto descritto da Naomi Klein nella sua teoria dello shock, dove eventi drammatici e crisi sono sfruttati per giustificare misure di ristrutturazione radicale. La nostra società si trova quindi in una fase di transizione complessa, in cui le conseguenze di questi eventi possono ridefinire in modo significativo il nostro futuro.
Per concludere questa intervista, mi sembra appropriato richiamare le parole del comico tedesco Karl Valentin, che una volta osservò: 'Perfino il futuro, una volta, era meglio.' Una riflessione che ci invita a considerare come la percezione del tempo e del cambiamento possa influenzare il nostro modo di vedere il presente.