Milano terminale
Quando frequentavo l'Università Statale avevo in effetti una certa fretta di tornare a casa, ma se avessi parlato con i miei coetanei divenuti poi romanzieri, non avrei nemmeno osato metter piede a Milano, ci sarei fuggito a gambe levate e con i capelli dritti. Una koinè generazionale ci offre un'immagine terrificante del capoluogo lombardo (e dintorni) che dovrebbe consigliare Pedullà e Luzzatto a un aggiornamento dell'Atlante della letteratura italiana, magari sotto il nome di Milano terminale o Lombardia agonistica e agonica.
Aveva cominciato presto Giuseppe Genna, con Assalto a un tempo devastato e vile, a usare le tinte più cupe per tratteggiare alcune zone di Milano, in particolare legate al lavoro (il racconto Fatica) o del circondario (“Centoventi all'ora, a nord di Milano, forando una foschia tossica, che si alza da campi grigi e inerti, la terra coperta di letame chimico, accanto a filari di legni incarboniti e secchi, alberi intrisi di smog e pappi ingrigiti, cartelloni pubblicitari anneriti dagli scarichi”). In più vi era già nel titolo l'impostazione del legame tra il luogo e il tempo storico, secondo la proverbiale idea di Milano incubatrice del peggior nuovo, dal fascismo al boom più sfrenato, dalla metropoli da bere al leghismo e al berlusconismo. Nei successivi romanzi, lutulenti e gridati, il nerume milanese dilaga all'intera nazione, secondo l'incipit tombale in progress di Italia de profundis: “è un paese che muore l'Italia”. Muoiono anche i più stretti familiari del narratore in questi romanzi, compresa la nonna tuffatasi dall'ottavo piano in Dies irae, e lui stesso va decomponendosi a caratteri cubitali, lasciando sui polpastrelli del lettore tracce d'inchiostro e di molta, svariata materia organica. Viene allora alla mente Matteo Marchesini quando scrive che “per artisti e intellettuali, il Corpo è diventato quel che un tempo era il Popolo: un mito che è anche il sintomo di un'impotenza, un idolo sotto cui risorge l'eterna velleità di trasformare il verbo in carne, la scrittura in gesto”.
Muovendosi tra centro e hinterland era fatale imbattersi nelle periferie, scivolando così nei territori del noir, l'antica Milano calibro 9 dove I Milanesi ammazzano al sabato. La segnaletica stradale parla chiaro: linguaggio e personaggi trucidi. Spacciatori e trans, piccoli boss e “piccioni strabici e unti, spaventosamente magri che entravano dalle finestre delle scale, si appollaiavano sui corrimano”. Anche per Alessandro Bertante (Estate crudele) nella periferia fa molto caldo nell'estate del 2003: “la via è attraversata dalla violenza, ne respiro il fiato”. Del resto apodittica e tautologica viene offerta l'equivalenza tra la metropoli e la catastrofe ambientale: “È marzo e fa ancora freddo, è Milano, è freddo fino all'ultimo e poi si trapassa a un'afa obliqua, afflosciante”. Insomma da Scerbanenco si scivola ancora; questa volta verso un kitsch parinian-manzonian-pestilenziale: “La natura ci sta avvisando dell'avvicinarsi della nostra scadenza”. Siamo insomma arrivati dove dovevamo arrivare, l'apocalisse milanese. Sandro Arrigoni è un architetto di fama internazionale, che teorizza e realizza eventi di demolizione spettacolare per creare nuovi spazi di rovine. Dove si dirigono i camion “senza pilota a 200 chilometri all'ora”, con impeto da kamikaze, gli “altoparlanti piazzati ovunque che amplificano il rumore per schiacciare le sensazioni, appannando il senso della distanza metrica, appannando i dispositivi della percezione”? Contro il Teatro degli Arcimboldi, Milano; così in La legge di questa atmosfera di Igino Domanin.
Antonio Scurati, in quello che resta di gran lunga il suo miglior romanzo – Il sopravvissuto –, ci riporta alla bassa padana lungo l'Adda, con un “paesaggio greve e, al tempo stesso, insipido”, dove la fine è ormai avvenuta. Si tratta dell'inquadramento preliminare alla vicenda apparentemente inspiegabile della strage da parte di uno studente della propria commissione d'esame di maturità; la provincia milanese si mostra come “un prolasso del paesaggio rurale”, rinato economicamente sotto forma di “scalo merci” e “retrovia del terziario avanzato”. Spazio entropico del paesaggio e della sua funzione economica che va di pari passo con i suoi prodotti antropologici: “Questo era il luogo dove il sistema di reclutamento nazionale del ministero della Pubblica Istruzione aveva stabilito che il professor Marescalchi dovesse insegnare la filosofia e la storia ai figli di commercialisti e piccoli imprenditori edili presso il liceo scientifico a ordinamento speciale Paolo Sarpi. Una terra anfibia, dove due ettari di campo in cui ancora ieri guizzavano i fontanili, l'indomani potevano già essere ingombrati da capannoni per lo stoccaggio di materiali bituminosi”. Un tale disprezzo non si trova nelle ironiche contraddizioni del borghese Parini verso la nobiltà e nemmeno nelle furie di Gadda, comunque implicato nella società che condanna e irride sbeffeggiando se stesso: da quale tempo e spazio arriva allora questo narratore separato e giudicante?
Una spiegazione a tale millenarismo di cartone, in autori che avevano esattamente vent'anni nel 1989, la dà in parte il loro recente volume collettivo Festa del perdono. “Noi vivevamo a Milano, quando la modernità ebbe termine” (Bertante); “Tutta la vita è fatta di immagini, rappresentazioni, cose alle quali assisti mentre tu ti trovi fuori dalla rappresentazione, da un'altra parte” (Domanin). Si aggiunga la sfortunata congiuntura letteraria dell'autofiction, cosicché dall'inesperienza, anche qui postulata da Scurati, tracima un io neo-romantico volto al nero, che trova paradossale struttura nel romanzo. Milano ne è semplicemente la proiezione e il fondale; si possono rassicurare gli studenti della Statale: potete ancora uscire di casa e, magari guadando qualche fiume in piena, trovare attorno una città e il punto culminante della vostra non-formazione.