Essere giusti con Teresa
Nel Regno Unito, tre secoli dopo, sarebbe stato un caso d’isteria, oggetto di studio di Robert Fowler (1828-1886) o di qualche altro medico vittoriano. La marrana d’Avola, fondatrice delle Carmelitane scalze, si disloca presso un altro spazio/tempo. Isadora Duncan ante litteram. Entrambe, a piedi nudi, hanno scritto La mia vita. Riconosciuta dal più necessario tra i Papi del secolo scorso, Giovanni - che distingueva la mistica da comitato d’affari da quella autentica - Dottoressa della Chiesa.
Essere giusti con Teresa, cioè ricordare le condizioni in cui la marrana di Gesù predica, pratica, scrive; condizioni d’interdizione, imposte dalla ragion tomista, che le impedisce di parlare e le impone di scrivere, momento per momento, la sua vita in modo da poterla tenere sotto controllo. Intercettare, nei limiti della pura ragione dogmatica, l’estasi; ridurla a forma accettabile, assoggettarla, renderla docile, trasformarla in preghiera, silenzio, meditazione passiva.
Mi vida, Libro de la vida, non è l’opera più importante. Tuttavia nel Libro Teresa produce un genere discorsivo nuovo: la pluridiscorsività, sotto sorveglianza. Poi verranno Fëdor Dostoevskij (1821-1881) e Michail Bachtin (1895-1975). L’uno, sotto sorveglianza del servizio segreto zarista, l’altro della GPU/KGB. Come scrive Carole Slade (St. Teresa of Avila. Author of Heroic Life, 1995), Teresa era capace di portarsi dietro il suo confessore nella fuga per la libertà.
Rapporto carnale, urgente, con Dio e l’angelo, come nella statua del Bernini a Roma. Spada nel cuore dell’esperienza mistica. O cruel wound! Libidinous God! Scrive Giacomo Joyce e George Bataille (1897-1962) la menziona nell’Esperienza interiore. Scrive che Teresa attribuiva valore solo alla visione intellettuale. Ingiusto perché non scorge l’interdizione. È l’Inquisizione che trasforma Teresa in intellettuale, ma lei risponde anticipando Dostoevskij e Bachtin. Costretti a scrivere sotto controllo, i tre, lo eludono.
Se ne accorge Fuentes, un inquisitore postumo. Secondo Enrique Llamas Martinez (Santa Teresa de Jesús y la Inquisición española, 1972), Fuentes fu tra i pochi ad aver capito:
Mischia falsità con verità, acqua con olio […] e l’acqua, che è eresia, rimane sotto, ricoperta dall’olio della verità. Si tratta di mescolare questi due liquidi molte volte per scoprire l’acqua nascosta, scoprire i significati velenosi che giacciono sotto le dolci parole e il linguaggio spirituale (Fuentes citato in Slade, p. 29).
Teresa corre il rischio della pira post-mortem, il suo linguaggio, ligio, a tratti antisemita, come occorre alla tradizione inquisitoria, nasconde l’esperienza estatica.
Quando le visioni stavan crescendo, uno di quelli che prima mi aiutava (che mi confessava alcune volte quando il Ministro non poteva) cominciò a dire che, chiaramente, era il demonio. Mi comandava, giacché non potevo resistere, che sempre mi segnassi quando una visione arrivava, che non dessi retta, perché per certo era il demonio, con ciò non avrei subito corruzione. E che non avessi paura, che Dio mi vedeva e me lo avrebbe tolto (Santa Teresa Obras completas, p. 289)
Invero ogni incontro col Signore, mostrava le cose diversamente. Voto di disobbedienza, dissenso verso le gerarchie maschili, rapporto diretto col corpo di Cristo, come e più delle sante digiunatrici. Queste si nutrivano del solo corpo di Cristo, Teresa lo incarnava e si faceva penetrare.
Le opere più importanti sono catalogate come scritti minori. Il Vejamen, in cui Teresa, ormai anziana e fuori pericolo, si fa beffe del fratello e di altri tre prelati, tra i quali spicca Giovanni della Croce. Giovanni riceve l’obiezione teologica più importante:
Caro costerebbe che non potessimo cercare Dio sin quando saremo morti al mondo. Non lo erano né la Maddalena, né la Samaritana, né la Cananea, quando lo rintracciarono”. (Santa Teresa, Obras completas, p. 1399).
Il verbo è buscar. Si tratta di un Dio vivente, incarnato, radioso, affascinante, bello, che respira, turba, scuote, sconvolge, percuote. L’Otto, nel Diciassette, ne ha dato descrizione. Il soggetto va incontro all’estasi, non attende inerme una grazia post-mortem. Il Vejamen – una burla - segue una richiesta di Teresa ai quattro di interpretare il primo verso di una sua poesia:
Alma, buscarte has en Mí y a Mí buscarme has en tí. Nel 1576 udì Dio dire: Cercati fino a me, oppure Cercati in me.
De tal suerte pudo amor,
alma, en mi te retratar,
que ningun sabio pintor
supiera con tal primor
tal imagen estampar.
Nessun pittore esperto
con tal disinvoltura
imprimer quest’immagine potrebbe,
così come l’amore in te ritrarti
Fuiste por amor criada
hermosa, bella, y asì
en mis entrañas pintada,
si te perdieres, mi amada
Alma, buscarte has en Mí
Per amor fosti creata
bella, lussureggiante, mia amata
Nelle mie viscere rappresentata
Se ti perdessi, amata
anima, cercami in te.
Questa mia traduzione, differisce da quella di Antonio Maria Sicari (Il “castello interiore” di Santa Teresa d’Avila, 2006), che inserisce il verbo dovere - In Me dovrai sempre ritrovarti
Tu devi cercarMi alacremente - come Rettore del testo e mette il cercare, in posizione ancillare. C’è una sfumatura: le visceri di Tersa diventano un cuore che custodisce, piuttosto che visceri dipinte, un’anima carnale si trasforma in un’anima obbediente.
Piuttosto Teresa appartiene al discorso dell’isterica, cioè al discorso della ricerca.