Traduzioni estreme
Il seguente testo è un'anteprima tratta da Franco Nasi, Traduzioni estreme, Quodlibet, Macerata 2015, pp. 82-84. 98-110.
Oltre ai filologi che, per professione, analizzano i nomi con la lente d’ingrandimento della storia della lingua, sono spesso i bambini o i poeti che riescono a scorgere nelle parole cose inaspettate, grazie a uno sguardo obliquo, curioso, che sembra rifiutarsi di accettarle nella loro asettica convenzionalità, irrigidite come sono spesso dagli automatismi della comunicazione. Così è possibile scorgere omofonie o paronomasie che fanno improvvisamente deragliare il senso, come nella poesia di Rodari, oppure vedere dentro una forma idiomatica o in una metafora d’uso la possibilità, con una variazione minima, di creare sovrapposizioni di piani semantici sorprendenti. È noto come certi termini o espressioni, utilizzati dapprima come traslati, si siano nel tempo standardizzati, trasformandosi in cliché. […]
I poeti e i bambini giocano spesso con queste stratificazioni di senso delle parole o delle espressioni idiomatiche, togliendole, con arguzia, dal loro torpore dell’uso automatico, deformandole leggermente oppure decontestualizzandole e riattribuendo in questo modo un diverso imprevisto significato.
Roger McGough ha fatto di questo una delle marche originali della sua poetica, sollecitando lettori e traduttori a qualche piroetta insolita. Presento in questo paragrafo alcuni tentativi di traduzione in italiano di poesie per l’infanzia particolarmente ricche di traslati e di loro varianti composte da McGough, riprese in gran parte da un libretto intitolato Imaginary Menagerie (Serraglio immaginario) che abbiamo pubblicato su sollecitazione dell’editore Gallucci, per ragioni quindi “extratestuali”, con Bestiario immaginario (Gallucci 2013) e inserendo come sottotitolo “traduzioni aperte”. Ho voluto apporre in modo pleonastico al sostantivo un aggettivo inutile – nessuna traduzione può dirsi chiusa e definitiva, o meglio, per dirla con Antoine Berman, “la traduzione è nella sua essenza plurale” (La traduzione e la lettera o l’albergo nella lontananza, Quodlibet 2003, p. 20) – perché si intendeva segnalare che quel libretto poteva essere usato dai potenziali lettori bambini e dalle loro “guide” anche come palestra per interagire con il testo fonte, per esercitare le proprie competenze linguistiche non tanto sulla lingua di partenza, ma soprattutto su quella di arrivo, stimolando, se possibile, l’uso del pensiero divergente. “La parola singola ‘agisce’ solo quando ne incontra una seconda che la provoca” ci ricorda Gianni Rodari (La grammatica della fantasia, Einaudi 1973, p. 17), ed è bene non dimenticare quanta dinamicità produttiva e creativa ci sia nel termine “tradurre”, “traducere”, nel senso di “condurre oltre” con un atto intenzionale, come sottolineava Gianfranco Folena analizzando l’uso innovativo che Leonardo Bruni fece di questo termine (Volgarizzare e tradurre, Einaudi, Torino, 1991, p. 72). […]
Imaginary Menagerie era stato pubblicato per la prima volta nel 1988 con le illustrazioni di Tony Blundell […]. Nel 2011 McGough ha ripubblicato il libro illustrando personalmente le poesie[…]. Di solito gli editori di libri per ragazzi acquistano i diritti dei libri come oggetti comprensivi di testo e immagini. Questo significa che il traduttore non solo deve affrontare i vincoli intratestuali delle poesie (ritmi, giochi di parole, figure ecc.) e intertestuali (riferimenti ad altri testi, parodie, allusioni ecc.), ma deve fare anche i conti con vincoli paratestuali come le immagini, che limitano le soluzioni traduttive.
In questo caso, visto che gli animali che McGough ha ripreso sono spesso animali-verbali e che in italiano le soluzioni costringevano a metamorfosi traduttive imbarazzanti, il poeta, con grande generosità, si è dichiarato disponibile a disegnare nuovi animali per la versione italiana, che è uscita così con il testo in inglese, l’immagine originale, la traduzione italiana e, dove necessario, con una nuova immagine, che sarà una traduzione intersemiotica fatta dall’autore “originale” di un testo che una volta era suo, ma che con la traduzione è diventato “più o meno” suo.
Cominciamo con esempi in cui il nome dell’animale contiene un altro nome, come il “torpedone” che porta in sé un “pedone” o il “canestro” che accoglie un “cane”. Sono parole matrioska o, se posso permettermi una metafora originale, parole incinte. Alcune avranno un coefficiente di difficoltà traduttivo minimo come
Anaconda
Ever see
an anaconda
drive through town
on a brand new Honda?
Don’t ask him
For a ride
You might end up
Inside.
Che può facilmente diventare qualcosa del tipo
Hai mai visto
un anaconda
sfrecciare per la città
su una fiammante Honda?
Non chiedergli
di salire
o in pancia
vai a finire. (McGough,Bestiario immaginario, Gallucci, Roma 2013, pp. 18-9)
perché, curiosamente, il serpente ha lo stesso nome sia in italiano che in inglese, e la moto giapponese che contiene è nota in entrambi i contesti culturali. In questo caso si mantiene sia l’animale sia il disegno originale. Simile, ma con un coefficiente di difficoltà alto, è la poesia Swordfish. Qui il pesce spada inglese porta in grembo un pesce parola, ma in italiano?
Wordfish
Wordfish
are swordfish
in a state of undress
Criss-crossing
the ocean
in search of an S.
Restando nell’ambiente ittico si può forse azzardare una sostituzione con pesci orfani che cercano i genitori (C e S) smarriti :
Pesci orfani
Orfani
sono scorfani
un po’ sotto stress
vanno in cerca
per il mare
di un C e di una S. (Bestiario immaginario, pp. 138-9)
Pesce spada, come pescecane è spesso percepita come una sola parola, come ferrovia: non credo che quando si pronuncia quella parola si pensi a una via di ferro. Ci avviciniamo alla catacresi; e su animali il cui nome è diventato un automatismo McGough si diverte. Al ristorante, quando si ordina un monkfish (in italiano “coda di rospo”) non si pensa a un pesce religioso che si è messo il saio. Ma se cambia l’ambientazione il pesce ritorna ad essere quello che forse era all’origine:
Ever see
an oyster
in a cloister?
Then how about
a monkfish?
Qui si potrà cercare nel repertorio linguistico della lingua in cui si traduce qualche animale acquatico religioso come il pesce San Pietro, un’orata o una foca monaca. Ovviamente non basta però trovare una soluzione per la parola: la poesia, per quanto breve, ha altri equilibri (la rima oyster cloister, ad esempio) di cui il traduttore dovrà tener conto. Siccome McGough ama divertirsi, nella nuova edizione del libro ha complicato la storiella in questo modo:
Ever see an oyster
in a cloister?
Nuns in a shoal?
A monkfish praying
for a lost lemon sole?
La catacresi iniziale (monkfish) porta a un universo figurato fatto di suore che nuotano e di pesci monaci che pregano per sogliole/pecorelle smarrite (lost son, lost soul, lost sole), con parole quasi omofone in posizione finale di verso: shoal e sole. Il coefficiente di difficoltà aumenta. Come in precedenza, il repertorio della lingua di arrivo, può offrire soluzioni inattese, come l’omonimia di banco (un banco di pesci, ma anche banco di una chiesa). È il caso (alea) o sono i regali delle lingue che permettono insperate compensazioni traduttive, ma che dovranno naturalmente fare i conti con i vincoli paratestuali (McGough disegna per questa poesia un gruppo di suore che nuotano come un banco di pesci, e, per fortuna, non disegna né un monkfish né una sogliola) e intratestuali (come le rime).
Hai mai visto un’ostrica
in un chiostro?
Un banco di suore in gita?
Una foca monaca che prega
per una gallinella smarrita? (Bestiario immaginario, pp. 100-1)
Badger è il tasso: probabilmente il nome deriva dalla curiosa striscia bianca (badge) che questi animali hanno sul muso. McGough parte da una rivisitazione della parola “badger” per raccontare la storia di questo animale. Il fatto che all’inizio dei tempi il Badger sia cattivo e pericoloso, McGough lo scorge già nel nome che contiene “bad”: una catacresi per di più incinta, si potrebbe dire. Così è facile per il poeta immaginare che una volta ci fossero sulla terra non solo i Badgers ma anche i Goodgers, con indole e caratteristiche fisiche molto diverse.
Poi d’improvviso, senza preavviso,
venne la Grande Siccità
seguita dal Grande Incendio
seguito dal Grande Diluvio
seguito dalla Grande Peste
seguita dal Grande Revival del Jazz
e quando alla fine la Grande Carestia
prese la foresta per il collo… (Bestiario immaginario, p. 27)
I Badgers, cattivi e avidi più che mai, arraffarono tutto quel che poterono dai poveri abitanti della foresta, mentre i Goodgers, altruisti di natura, cercarono di aiutare tutti. Come prevedibile, alla fine i Goodgers, a differenza dei Badgers, non sopravvissero e si estinsero. Intervenne poi Pan, che volle che i Goodgers non venissero dimenticati, e segnò con il bianco indelebile dei giusti il muso dei Badgers, che da quel giorno diventarono striati e un po’ più mansueti. Il coefficiente di difficoltà della traduzione è piuttosto alto perché oltre alla ripresa del significato etimologico e al gioco con la parola matrioska, il nome dà vita a una storia piuttosto articolata, a conferma della premessa numero uno, e cioè che non dobbiamo preoccuparci troppo di un anello della catena, ma dell’intero. Come succede spesso nelle traduzioni, alcune possibili soluzioni sono sotto il naso: basta imparare ad ascoltare anche la lingua in cui si traduce (quella dell’importanza della “padronanza” della lingua di arrivo e delle sue istituzioni poetiche è condizione che non si dovrebbe mai dimenticare). In italiano Badger è un animale, ma tasso è anche un albero, il nome di un poeta e la percentuale da dare agli strozzini e alle banche per un prestito. Nella poesia i Badgers dopo le “piaghe” della storia vessano il resto degli animali e spillano loro tutto quel che hanno, mentre i Goodgers sono generosi. In un periodo in cui l’economia è ossessivamente presente nei nostri discorsi viene immediato pensare che i Badgers in italiano siano tassi cattivi e alti, mentre i Goodgers siano tassi buoni e bassi. (Da qui un’ulteriore riflessione: le traduzioni sono figlie del proprio tempo).
Nel libro ci sono animali dai nomi invitanti come Bushbaby (galagoni) o Anteater (formichiere), che McGough con un gioco di prestigio trasforma in quasi omofoni animali impossibili, ma molto attivi già nel nome (omen nomen): ecco che il galagone si trasforma in una piccola spazzola (Brushbaby) e il formichiere in mangiatore di zie (Aunteater). Il grado di difficoltà qui obbliga forse a qualche capriola di troppo, costringendo di conseguenza
il poeta illustratore a inventarsi nuovi disegni per la “Spuzzola” e il “Pappagallo carnivoro” italiani:
Brushbaby
The brushaby
lives under the stairs
on a diet of dust
and old dog hairs
In darkness, dreading
the daily chores
of scrubbing steps
and kitchen floors
Dreaming of beauty
parlours and stardom
doomed to a life
of petty chardom.
Spuzzola
La spuzzola
vive sotto le scale
mangia polvere
e peli di cane
al buio maledice
il lavoro d’ogni giorno
pavimenti da tirare
in cucina e nel soggiorno
e sogna la bellezza
i saloni e la celebrità
ma è destinata
a una grigia laboriosità. (Bestiario immaginario, pp. 38-9)
Caterpiller invece è parola matrioska (contiene infatti cat), ma foneticamente, con una variazione minima, potrebbe dare l’impressione di essere una sciarada: cat+pillow (un gatto cuscino, come mostra bene il disegno di McGough):
Catapillow
A catapillow
is a useful pet
To keep
upon your bed
Each night you simply
fluff him up
Then rest
Your weary head.
In italiano una possibile versione potrebbe essere la seguente:
Caramicia
La caramicia
da notte
è un buon
animaletto
ottima
se fa freddo
quando
vai a letto. (Bestiario immaginario, pp. 46-7)
La prima definizione che si trova sui dizionari di Bookworm è “una persona che si dedica completamente alla lettura e allo studio”, e solo in seconda battuta un insetto che infesta i libri. Il primo significato della parola è ben presente, ma, come nelle catacresi, spesso dimenticato. Facile per McGough, partendo da lì, costruire una storia sui worms più intelligenti che il poeta conosca, alcuni dei quali anche vegetariani, attentissimi a evitare di mangiare “names of animals / or references to meat”. Anche quando giunge la loro ora di morire lo sanno fare con grande dignità e compostezza: “they slip between the pages / curl up and eat ‘The End’” (Bestiario immaginario, p. 36). A volere fare una traduzione “spendibile” e a “equivalenza dinamica” dovremmo ricorrere alla frase idiomatica italiana. Abbiamo anche noi i nostri animali colti. Con i topi da biblioteca, basterà cambiare alcuni dettagli e la storia funzionerà anche in italiano, purché il poeta illustratore si presti al gioco e trasformi gli occhialuti bookworms
in topi affamati di libri.
È ovvio che ci troveremo di fronte a una traduzione addomesticante, ma non potremmo fare altrimenti in questo caso.
Un verme da biblioteca in italiano avrebbe connotazioni ben diverse. Inoltre, come ben mostra J. J. Lecercle nel suo corposo Una filosofia marxista del linguaggio (tr. it. W. Montefusco, Mimesis, Udine, 2011), una parola come “verme” può diventare oggetto di riflessioni molto interessanti. Il caso che Lecercle analizza è quello di un articolo apparso in un’edizione francese del giornale popolare inglese The Sun, “noto per le sue campagne xenofobe” al tempo della guerra contro l’Iraq. Il giornale titolava “Chirac est un ver”, titolo che accompagnava un fotomontaggio di un enorme verme con la testa di Chirac. Lecercle fa notare come questo trasferimento di significato sia da una parte insensato, perché in inglese worm ha un significato spregiativo mentre in francese quel campo connotativo sarebbe semmai figurativamente coperto da un animale come il cane (“He made me feel like a worm” – cioè insignificante – in francese sarebbe tutt’al più “il me traite comme un chien”), ma d’altra parte evidenzia come il testo francese non sia “nato” in francese, ma sia una forzatura della lingua inglese: in breve, un esempio di imposizione linguistica, che Lecercle chiama imperialista.
L’operazione di traduzione del Sun è corretta e semplicistica. È corretta, perché l’enunciato “Chirac è un verme” è impeccabilmente grammaticale; […] ma è semplicistica. Il traduttore ha aperto mentalmente un dizionario inglese-francese alla parola “worm” […] Questa concezione del linguaggio, che fa della lingua una lingua veicolare, uno strumento di comunicazione trasparente […] ignora completamente che cos’è una lingua naturale: cioè il fatto che questa, chiamata così dalle lingue artificiali, è in realtà una costruzione culturale. Afferrare una lingua per il verso obliquo attraverso le connotazioni, significa comprendere che una lingua è anche una storia, una cultura, una concezione del mondo, e non solamente un dizionario e una grammatica. (p. 21)
Le filastrocche, i nonsense, le poesie giocano spesso con il “senso obliquo” della lingua e fanno sentire l’urgenza di prestare attenzione a quelle lingue altre, che sono anche negli strati fossili della lingua quotidiana, che forse troppo spesso dimentichiamo o releghiamo ai margini della langue. […]
A questo punto qualcuno dei lettori più affezionati alle traduzioni “vere”, quelle con la T maiuscola, comincerà a spazientirsi, a dire che queste non sono vere poesie, e che neppure le traduzioni sono vere traduzioni; o forse avrà già raggiunto un livello d’insofferenza e di nervoso tale che, come dicono gli inglesi, avrà uno scatto d’ira, “a hairy canary”. C’è anche lui nel bestiario di McGough, che non lavora più solo con semplici parole (catacretiche, incinte, sciarade ecc.) da cui derivare storie con o senza leggere variazioni fonetiche o grafiche, ma con espressioni idiomatiche, come quelle viste in precedenza, che danno vita attraverso la sovrapposizione di piani semantici, a storie curiose:
Canary
Beware
the canary
gone hairy
Fed on steroids
instead of seeds
On humans now
this mutant feeds
A tweet like thunder
eyes that rage
Do not loiter
near its cage
Beware and be wary
There’s nothing as scary
as a furry canary.
Canarino
Sta’ attento
al canarino
se gli spuntano i peli
Nutrito con steroidi
invece di semini
questo strano mutante
mangia anche i bambini
cinguetta come il tuono
gli occhi ha pieni di rabbia
non stare lì a far niente
vicino alla sua gabbia
Sii cauto e sospettoso
Niente è più spaventoso
di un canarino peloso. (McGough 2013, pp. 44-5)
Qui, in italiano, la storiella funziona, più o meno, lo stesso, ma certamente si perde la forza dell’espressione figurata da cui è partita la poesia. A questo punto, potremmo dire con una traduzione straniante o, credo meglio, stranierizzante, che in questo caso non siamo riusciti a tenere la torta e a mangiarla. Ma forse, come dicevano i romani: tertium non datur, per cui, per rimanere nell’abito delle frasi fatte e dei cliché “si deve fare di necessità virtù”, magari sottolineando che il processo traduttivo è “aperto”.
Come le poesie, i giochi di parole e i nonsense sono spesso delle maschere d’ossigeno per una lingua che, se lasciata alle sole bocche di parlanti e scrittori ossequiosi della norma e della lingua standard, diventerebbe presto tanto ingessata e sclerotizzata da morirne, così le traduzioni possono portare aria nuova nella lingua di arrivo. Un traduttore non è un becchino, un trasportatore di cadaveri. Ci piace piuttosto immaginarlo come un infermiere, modesto ma indispensabile, che cerca di tenere in vita sia un testo di un’altra cultura e di un’altra lingua sia la propria stessa lingua.
Il libro: Franco Nasi, Traduzioni estreme, Quodlibet, Macerata 2015, pp. 176, € 18,00.