La figlia che non piange / Incontri e ritratti in casa Sereni
A Silvia Sereni – scomparsa nel giugno del 2019 – mi hanno legato una lunga amicizia e una sincera ammirazione per il suo spirito, la sua intelligenza, le sue capacità professionali. E per la forza del carattere. Avere un padre come Vittorio Sereni non dev’essere facile. Silvia (“la figlia che non piange”, in una poesia di Stella variabile) riusciva a vivere questa condizione con grande leggerezza e disinvoltura, in un modo tutto suo. Nel libro appena uscito da Bompiani (Un mondo migliore) il rapporto col padre (che nei ritratti che compongono il volume non è compreso) emerge molto vivamente: “da un lato – scrive l’autrice – la distanza tra me e lui era, per via del nesso parentale, ravvicinata, dall’altro, nello stesso tempo, era smisurata. Il rapporto era esclusivamente quello che ci può essere con un padre. Un padre paziente, tenero, per nulla pedagogico o autoritario, estremamente rispettoso dell’autonomia che considerava giusto lasciare a noi figlie. Quindi una relazione fatta di consuetudine e di famigliarità ma che non contemplava un confronto diretto di idee o di modi d’essere”.
La personalità di Vittorio Sereni e il suo rapporto con la famiglia risultano anche da un episodio riportato poco più avanti: la moglie del poeta, Maria Luisa (“che un po’ più pedagogica di lui era”), legge una sua poesia alla figlia, e dà la propria interpretazione; poi chiede all’autore, che sta lavorando nello studio lì accanto: “Non è così, Vit?” Il poeta risponde: “Anche”. In quella risposta c’è tutto Sereni.
Il titolo del libro, Un mondo migliore (scelto dall’editore), mi sembra poco azzeccato: un po’ generico, e per certi aspetti fuorviante. Il lettore potrebbe aspettarsi l’esposizione di un progetto politico o sociale, di un’utopia. Invece, il “mondo migliore” a cui si allude è quello di un passato (grosso modo gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso) incarnato dai personaggi che sfilano in questi vivaci ritratti, molti dei quali ambientati a Bocca di Magra, il piccolo villaggio sul fiume al confine tra Liguria e Toscana dove i Sereni passavano le vacanze estive in compagnia di amici del calibro di Attilio Bertolucci, Elio Vittorini, Franco Fortini.
I 31 brevi testi proposti nel libro vanno a comporre un’affascinante immagine “dall’interno” dell’ambiente intellettuale del secondo dopoguerra, di quella “generazione di uomini e donne fra i trenta e i quarant’anni appena uscita dalla guerra che pensava a come costruire un mondo migliore”. Bartolo Cattafi, Giovanni Raboni, Carlo Fruttero, Franco Lucentini, Oreste del Buono, Giuseppe Pontiggia, Daria Menicanti, Lalla Romano, Mario Soldati, sono solo alcuni dei personaggi che Silvia Sereni tratteggia “dal vivo”, “in diretta” si potrebbe dire, bucando la loro immagine pubblica, canonizzata, per restituirceli in carne e ossa. Questo non deve far pensare a una serie di pettegolezzi (gossip, si direbbe oggi) o di rivelazioni dissacranti. L’intento dell’autrice non è certo quello di sbirciare “dietro le quinte” della letteratura, per mostrare le sue umane miserie.
Bertolucci (“con la sua aria da gentiluomo di campagna”) è rievocato nell’atto di raccontare un aneddoto. Sua moglie Ninetta lo anticipa, aggiunge dettagli, precisa i fatti. “Ma no! Questo glielo dico dopo!” protesta lui. “Non voleva – osserva Silvia Sereni – che in alcun modo venisse guastato un certo climax che aveva deciso dovesse accompagnare la narrazione. Amava il romanzo, lo stile del romanzo, lo svelamento al momento giusto, il buon finale”. Ancora Bertolucci viene sorpreso mentre dichiara: “Io non ho amato altro al mondo che la mia famiglia”. “Eppure – annota l’autrice – dietro la facciata tranquilla, solare, c’era il male di vivere, un grumo oscuro di disagio, di inquietudine”.
Forse il capitolo più divertente è quello che racconta un’intervista fatta (o tentata, si dovrebbe dire) da Silvia Sereni a Fruttero e Lucentini per il settimanale Epoca nel 1991, in occasione dell’uscita del romanzo Enigma in luogo di mare. “Spero che avrà preparato delle belle domande”, esordisce Fruttero. “E soprattutto spero che non ci affliggerà anche lei con noiose domande sulla teoria del giallo, di cui non ce ne frega niente”. Poi impartisce le sue istruzioni alla povera intervistatrice: “Quello che deve far capire ai lettori è che Fruttero e Lucentini fanno dei personaggi credibili cui la gente si appassiona. Giallo o non giallo, perché si leggono i romanzi di Fruttero e Lucentini? Ma è chiaro, perché sono fatti bene i personaggi…”
Di Giovanni Raboni – che in certi anni abitava nella stessa casa di via Paravia dei Sereni, vicino allo stadio di San Siro – l’autrice racconta di quando scendeva la domenica dal settimo piano al secondo, a rilevare l’altro poeta interista (a Milano quasi tutti i poeti lo sono) per andare a vedere la partita. Ma la citazione forse più memorabile è quella che riguarda Il nome della rosa di Umberto Eco. Che cosa pensava Raboni del celebratissimo romanzo? “Hai presente i baccelloni di quel vecchio film di fantascienza che assumono sembianze umane? Ecco, secondo me il romanzo di Eco, come romanzo, è un baccellone, cioè l’imitazione di un romanzo, non un romanzo vero”.
I ritratti tratteggiati in prosa da Silvia Sereni sono accompagnati, nel volume, da quelli disegnati – magistralmente – da sua sorella Giovanna (anche lei protagonista di una poesia di Stella variabile, “Giovanna e i Beatles”). Ed ecco Lalla Romano bellissima e evanescente, lo sguardo obliquo, l’espressione gelida; ecco Fernando Bandini con pipa e merlo indiano sulla spalla; ecco Carlo Bo regalmente accomodato su una specie di trono da operetta, sigaro in mano, libro sulle ginocchia, ai piedi solo un paio di calzini; ecco Franco Fortini alla macchina da scrivere, che lancia aeroplanini di carta guardando l’osservatore da sopra gli occhiali con aria di sfida.
Ma il ritratto che più colpisce è quello di Elio Vittorini. Giovanna lo rappresenta col sorriso sotto i baffi, in testa uno scolapasta. Quando ho visto questo disegno, prima di leggere i testi, ho pensato: qui veramente esagera; come le è saltato in mente di raffigurare Vittorini in veste di pazzo da manicomio? Poi, nel testo dedicato all’autore di Uomini e no ho ritrovato lo spunto: lì si racconta di una recita estemporanea dell’Orlando furioso a Bocca di Magra, in cui Vittorini si era bardato – appunto – con il più casalingo degli elmi. Lo sapevo: la Giovanna è una persona seria, non è tipo da inventarsi le cose di sana pianta.
Nelle pagine di Un mondo migliore colpiscono i richiami ricorrenti alla nobiltà, all’aristocrazia: Carlo Bo aveva “un che di regale”; dell’università di Urbino era “il re”. In Bartolo Cattafi “era connaturato uno stile aristocratico non comune”. Gillo Dorfles era “sempre molto signore nei modi” e “come forse era tipico di un’aristocrazia che oggi non c’è più, capace di interessarsi a chiunque, senza distinzioni di categoria o di classe sociale”. Dante Isella era “come un re, o un patriarca, dall’alto del suo trono”. Carlo Fruttero aveva “uno stile aristocratico”. Lalla Romano era “come una regina, sovranamente distaccata da tutto”; ma era “anche molto semplice. Regale pure in questo, come solo sa esserlo la nobiltà più aristocraticamente elevata”. Laura Grimaldi mostrava nei suoi atteggiamenti “una sprezzatura da aristocratica”. E così via.
Silvia Sereni nostalgica di un mondo di troni, regge e castelli? Non direi proprio. Quella a cui si richiama in questo libro e che rimpiange è, credo, una diversa umanità, più elevata, più nobile (in senso lato), lontanissima dalla volgarità corrente. Questo è, forse, il mondo migliore a cui il titolo allude.
Silvia Sereni, Un mondo migliore. Ritratti, Bompiani 2019. Illustrazioni di Giovanna Sereni.