Palazzo della Misericordia (Bg) | 9 giugno - 1 luglio 2018 / Back to space
Lo spazio è un dubbio, scriveva Georges Perec. Non esistono luoghi stabili, immobili, intangibili ed è proprio perché non esistono che lo spazio diventa problematico, smette di essere pura evidenza. Lo spazio è “obliquo, vergine, euclideo, aereo, grigio, storto”. Per questi autori ripensare lo spazio significa cogliere l’istante in cui appare l’inafferrabile, l’inclassificabile, l’aleatorio. Le immagini così diventano l’indice di un’apertura che va al di là della mera rappresentazione. Ed è proprio in quella frazione di non rappresentabile che si fonda ogni rappresentazione. Il dispiegarsi della presenza. La sorpresa suscitata dagli spazi di questi sei fotografi infrange l'esperienza e ci devia dal corso normale delle cose: è data dall'imprevisto e dal meraviglioso, che emana una forza insolita coinvolgendo tutti i sensi.
Uno stupore da intendersi come origine e come elemento costitutivo. Non tanto un principio che sta lì all'inizio, causa qualcosa e poi se ne va, ma un principio che segue ciò che era all'origine, che è legato al tempo, sta nel tempo e anche nello spazio. È quanto ci suggerisce Francesca Rigotti, a proposito dello stupore come stato d’animo che si pone alle origini della filosofia.
La macchina fotografica ne è lo strumento rivelatore, simile all’incanto di chi, dopo un attento esame, scopre nelle linee aggrovigliate di un disegno la vera forma di un oggetto o di un volto. Gli spazi prediletti hanno dunque un’anima, un nucleo irradiante attorno al quale si moltiplicano tutte le rappresentazioni.
Back to space è questo, il movimento e insieme il luogo dell’azione, dello spazio partecipato, vissuto, agito, che la macchina fotografica rivela come piega ulteriore, svelamento di un segreto, visione inattesa. Le immagini di questi fotografi ritraggono alcuni “luoghi” come se non fossero mai stati visti e forse come non potranno mai essere più visti, perché strappati alla loro quiete silenziosa dalla forza dell’immagine.
Giulia Flavia Baczynski è la cartografa di questo universo. La sua Carta fisica della Terra è una collezione di fotografie di territori immaginari, costituita da una serie di mappe che evocano la geografia del suolo terrestre, ottenute tramite l’increspatura di fogli di carta da lucido. Il nucleo di questo lavoro nasce dall’inversione di un processo: il dato reale non è alla base della sua rappresentazione ma lo spazio è il segno di un segno, un simulacro privo di forma che contiene tutti gli spazi possibili. Un vuoto che corrisponde al massimo della pienezza.
[Ju|lü] di Nunzio Battaglia è uno di questi spazi. “La quiddità (ju) è lo stato autentico delle cose (…) esso non allude alla natura misteriosa, alla sostanza impenetrabile delle cose, bensì all’onnipresente nudità e vacuità”, ricorda il fotografo. La parola lü si riferisce, invece, al momento in cui si riflette sulla percezione del mondo. Le immagini stanno tutte dentro un istante di luce, che si dilata come il bagliore inafferrabile di una reminiscenza prenatale. Stupirsi dinnanzi ai paesaggi di Battaglia significa abbracciare la possibilità del vuoto, l’assenza dello spazio. Vuol dire percepire solo la luce, un pulviscolo iridescente, la materia originaria della vita e dell’immagine.
Non ci sono dubbi. Lo spazio non è solo ciò che arresta lo sguardo, ma anche materia che si lascia attraversare. L’uomo di fronte al soggetto fotografato è l’uomo di fronte a se stesso, alla duplicazione del suo sguardo. Lo spazio diventa uno specchio. Si scruta, si legge ma non si decifra mai completamente. Persiste con il suo mistero. Anzi, semplicemente esiste. Nelle pagine del suo Viaggio in un paesaggio terrestre, Vittore Fossati in collaborazione con lo scrittore Giorgio Messori, fotografa i luoghi frequentati e descritti da poeti e pittori amati da entrambi. Questi paesaggi sono misteri che hanno l’evidenza spontanea e concreta della vita, e proprio per questo stanno perennemente sospesi nello spazio dell’immagine. Tra essi e chi guarda permane un inesplicabile distacco, come tra il fotografo e coloro che hanno guardato prima di lui. “Ho sempre amato i rebus” rivela Fossati, “ma devo ammettere che le poche volte che sono riuscito a risolverli ero poi deluso (…). A rebus risolto si svelava l’enigma, e col mistero se ne andava via anche ciò che aveva reso interessante quell’immagine (…). Per questo non ho mai preteso di tradire la naturale enigmaticità delle immagini”.
Insomma, anche se è un dubbio, lo spazio costituisce la materia del fotogramma. Non è solo una raccolta di curiosità, un ammasso di edifici, un insieme di volti, ma un’essenza sensibile, che di volta in volta diviene segno di riconoscimento. Nelle immagini di Francesca Rivetti lo spazio si costituisce per sottrazione. Lo spazio del colore, della luce, della forma è vuoto, poiché l’azione di svolge ai margini. Le immagini del suo Soggetto difficile sono tali perché gli spazi da percorrere sono indecidibili e trasversali, sono varchi verso qualcosa di incorporeo. Cosa appare più vuoto: il centro dell’immagine o quello che sta fuori? Cosa ci attira di questi vuoti? Lo spazio è inconsistente, ma la materia di cui si compone è tenace come la struttura di un atomo. Tutto si regge su questo paradosso.
Cosa si vede nelle immagini di Enrico Bedolo? Gli spazi che rappresenta sono reali o pura illusione? Sono il futuro o il passato? Life in File si compone di fotografie scattate alle simulazioni che vengono esposte fuori dai cantieri edili. In ogni immagine è in gioco il limite dello spazio. Nel momento in cui si nota un dettaglio non finito, la piega del foglio o le tracce lasciate dal tempo, ci si rende conto che il risultato di questo inganno non è uno svelamento, ma quella che potremmo chiamare un’ambivalenza, un incontro-scontro tra immagini.
Nel rapporto inventario/invenzione si produce lo spazio di una nuova destabilizzazione topografica, da intendersi non soltanto come invenzione di mondi possibili, ma come interpretazione di possibilità. Le immagini “mostrano come verrà ciò che si sta costruendo all’interno, anticipano forse il futuro, ma la fotografia di quelle immagini le proietta nel passato dello scatto”, racconta il fotografo. Lentamente lo spazio perde i suoi confini, diventa temporalità. Una linea che abbandona la propria direzione per arrendersi a uno spazio che riemerge dal passato e che a sua volta dilegua i confini del tempo. Un istante sognato, più vero di qualsiasi sensata realtà.
Accade così nella Nuova Atlantide di Valerio Tosi. L’universo del fotografo è composto da frammenti di computer: tastiere, batterie, circuiti. Egli le definisce “mitologie portatili”, componenti di un mondo invisibile, sepolto, distante. Lo sguardo è avvolto da una sensazione di intima vicinanza e al tempo stesso di perdita irrimediabile. Eppure tutto affiora dalle ombre delle sfocature. E l’Atlantide, fino a quel momento priva di forma, si riprende il proprio spazio. Da ogni fotogramma emerge qualche nuovo frammento di quell’universo inghiottito dal tempo, una città fantasma che torna alla vita. Poco importa della cronologia esatta. Il tempo di Atlantide non conosce che l’impassibile simultaneità del presente. Sta dinnanzi ai nostri occhi e sfida le nostre certezze. Atlantide vive.
Gli spazi dei sei fotografi che appaiono in queste pagine, ovvero la mappa, la luce, il mistero, il vuoto, l’immateriale e l’invenzione, sono impronte di uno sguardo nuovo, quello che Giuliana Bruno nel suo Atlante definisce uno spazio dell’e-mozione, ovvero un movimento, un motus dell’animo e del corpo, che produce un nuovo modo di vedere: si passa dal sight (vista)-seeing, cioè lo sguardo vincolato al puro piacere scopico, all’aptico site (luogo)-seeing, dal colpo d’occhio alla mappa, dallo spettatore come voyeur allo spettatore come voyageur.
Testo introduttivo a Back to space, 2018 a cura di Enrico Bedolo e Silvia Mazzucchelli, in collaborazione con Mauro Zanchi e Sara Benaglia (Catalogo, Edizioni WunderKammer). BACO Base Arte Contemporanea Odierna, Palazzo della Misericordia (Bg), dal 9 giugno al 1 luglio 2018.