La talpa
Il principe delle spie
Mi ero perso sulla strada verso casa di un amico
così chiesi ai passanti
e mi dissero: gira a sinistra
vedrai delle spie alle tue spalle
svolta alla prima spia
e un’altra ne troverai
che prepara un’imboscata
vai dritto alla spia che sta di fronte alla spia
che tende l’agguato
conta fino a sette poi
fermati
troverai la casa dietro l’ottava spia partendo da destra.
Sia benedetto da Dio il principe delle spie
perché ha reso più sicura
la terra dei Musulmani.
Gente
dormite tranquilli
le vostre porte sono controllate in ogni momento
quindi
entrate in pace e sicurezza.
(Ahmed Matar; traduzione e adattamento dall’inglese di Paolo Massari. Titolo originale: أمير المخبرين)
“Quell’uomo pensa che io sia una spia!” “Ma chi?!” “Quello che ha il piccolo negozio di alimentari di fronte alla casa di Hisham…” “Ah, quello! Ma è lui che è una spia!!!” Così mi rassicurava Abdallah, e così è la vita in un campo di rifugiati palestinesi in Giordania: spie che si nascondono dietro spie che si nascondono dietro altre, e cosi via, come il gioco delle matrioske.
Quattordici mesi di ricerca in al-Wihdat mi hanno esposto innumerevoli volte al sospetto che lavorassi per il Mukhabarat giordano, la CIA o, peggio ancora, per il famigerato Mossad israeliano.
Il “tradimento” (khyane) sembra essere parte integrante della vita nel campo. Delazione e spionaggio sono un chiodo fisso dei rifugiati. Quest’ossessione è talmente diffusa che anche un mostro sacro del pantheon politico palestinese come Yasser Arafat non è stato immune da simili accuse. Ho sentito più di una persona sostenere con assoluta certezza che il leader storico della resistenza palestinese fosse in vita un mustarab: letteralmente un “falso arabo”, un termine usato per indicare una spia (jasus) per conto del governo israeliano, addestrata fin dall'infanzia a parlare e comportarsi come palestinese.
E Arafat non è il solo. Corruzione e disonestà sono attributi spesso utilizzati per descrivere politici e partiti. L'ascesa e la caduta di gruppi e personalità politiche sono accompagnate da accuse di corruzione, spionaggio e collaborazione con il nemico. Questo meccanismo è ben esemplificato dalla parabola discendente di Hamas e della Fratellanza Musulmana tra i rifugiati del campo di al-Wihdat. Questi gruppi politici, che un tempo erano percepiti come la soluzione dei loro problemi, sono caduti in disgrazia soprattutto per la presunta corruzione dei loro esponenti.
In occasione delle elezioni parlamentari del 2013, ad esempio, nel campo circolavano con insistenza voci su quelle persone che davano il loro voto ai candidati filogovernativi in cambio di favori e denaro: traditori che fanno affari con altri traditori, mi si diceva. Sorprende poco, perciò, che la stragrande maggioranza delle persone con cui ho parlato fossero alquanto cinici sui risultati e sui benefici delle elezioni: “non ho intenzione di votare per nessuno… tanto è tutta la stessa cosa, sono tutti dei traditori, mi fanno schifo!”, cosi sbottava, un giorno, un amico.
L’accusa di essere delle spie è un’esperienza abbastanza comune per chi come me viene da fuori. È interessante però notare che a farne le spese sono gli stessi abitanti del campo: anzi, soprattutto loro. Ma questo non sorprende, il tradimento è figlio della prossimità e non della distanza. Come ci ricordano Tobias Kelly e Sharika Thiranagama in un bel libro sull’argomento, “non è tanto quello che non si conosce a infondere [la paura del tradimento] ma piuttosto quello che si conosce” (Traitors: Suspicion, Intimacy, and the Ethics of State-Building, University of Pennsylvania Press, 2009, p. 171).
Unico esempio al mondo, la Giordania ha concesso piena cittadinanza a molti rifugiati palestinesi. Nel paese vivono oggi terze e addirittura quarte generazioni che si sentono a pieno titolo sia palestinesi che giordani. I campi di rifugiati sono però visti con sospetto dalle autorità come incubatori di radicalismo politico, di qualsiasi colore esso sia.
Qui, accusare qualcuno di essere una spia per conto del governo giordano è all’ordine del giorno; a torto però, visto che è dai tempi di Settembre Nero che nei campi non accade nulla che possa seriamente intimorire il governo.
Un’ossessione, quella del tradimento, che mette chiaramente in luce la consapevolezza di essere simili, di sapere fin troppo bene che chiunque può tradire perché attraversare il confine tra l’essere palestinese ed essere giordano è fin troppo facile. In altre parole, in una situazione in cui i confini tra la lealtà e il tradimento sono offuscati dall’ambiguità di fondo che c’è tra l’essere contemporaneamente giordani e palestinesi, la paura del tradimento è una conseguenza naturale dell’impossibilità di stabilire chiaramente da che parte stare. In Italia si direbbe che “la lingua batte dove il dente duole”.