Gesù Cristo e Woodstock in spot
«Le grandi domande sono cambiate», afferma con risolutezza l’attrice in un recente spot della Ing Direct. Che qualcosa stia cambiando – non tanto le «grandi domande» cui lo spot allude – lo mostrano con chiarezza proprio le immagini dei mass-media, anche se non le «grandi domandi» cui lo spot allude.
Per seguire questi grandi cambiamenti ritorniamo a un altro spot della stessa azienda. In questo caso, la Ing Direct si è spinta a trasformare il palcoscenico di Woodstock nella location più propizia per pubblicizzare un conto corrente dalle qualità «rivoluzionarie». Difficilmente ci si sarà dimenticati di questo spot, in ogni caso vale la pena leggere il comunicato stampa della Ing Direct che presentava la campagna pubblicitaria:
«Lo spot rivisita un momento memorabile di cambiamento: il festival di Woodstock del 1969. Nel bel mezzo del concerto, in un clima di rinnovamento e speranza per il futuro, sale sul palco e prende la parola Marco, un cliente Ing Direct, che incita la folla a farsi delle domande, a chiedersi sempre il perché delle cose, dal momento che oggi come ieri questo è il primo passo per cominciare a cambiare. Come? Per esempio, cominciando a interrogarsi sul perché pagare le spese del conto corrente. La campagna diventa così un’occasione per riflettere e per comunicare che esiste una banca pronta a offrire a ognuno di noi un primo piccolo passo verso un grande cambiamento, che sta anche nello scegliere di gestire il proprio denaro in modo autonomo e conveniente».
Prevedibilmente, lo spot in questione ha sollevato numerose critiche, proteste e raccolte di firme per chiederne un ritiro immediato. La maggior parte delle critiche si sofferma sulla dimensione oltraggiosa e banalizzante dello spot: gli ideali di pace, libertà e rivoluzione di Woodstock sono ridotti a scenario per la promozione di un conto in banca. Altre critiche sono di carattere per così dire stilistico: prendono di mira la mancanza di autoironia presente nello spot e si concentrano sulla grossolana equazione al centro messaggio, ovvero il cambiamento invocato dal popolo di Woodstock si riduce al cambiamento di un conto in banca. Il sentimento di indignazione sollevato da questo spot ha spinto alla creazione di video su Youtube, siti di protesta e un profilo Facebook il cui nome è Giù le mani da Woodstock.
Mi pare che l’aspetto più importante della questione sia sintetizzato nella frase in esergo che compare sul profilo Facebook anti-spot, ovvero: «Niente nel pensiero di quei ragazzi di 40 anni fa ha a che spartire con la pubblicità di una banca». Questo è proprio il punto: com’è possibile che gli ideali di giovani ribelli di quarant’anni fa – che niente hanno a che spartire con gli interessi di una banca – possano essere anche solo utilizzati per promuovere i prodotti di una banca? Parlavamo di «grandi cambiamenti» in corso cui stiamo partecipando a livelli di consapevolezza differenti e allora domandiamoci: sarebbe mai stato possibile anche solo fino a trent’anni fa che le scene di Woodstock o di una manifestazione di operai in sciopero potesse essere utilizzata per la campagna pubblicitaria di una banca?
La risposta evidentemente è no. Allora dovremmo cercare di capire che cosa è successo di così radicale – e di così diverso rispetto al passato – perché questo niente che separa e che anzi contrappone gli ideali di Woodstock agli interessi del sistema bancario sia improvvisamente annullato. Da dove deriva questa onni-utilizzabilità di ogni evento della storia svuotata della propria dialettica, delle proprie utopie e immaginazioni, al punto che ogni movimento o ideale può diventare sfondo o materiale per la creazione di uno spot?
Guardare questi spot significa entrare in quel processo che Jean Baudrillard fin dagli anni Settanta ha definito con la parola simulazione. Come si produce la compatibilità tra gli ideali di Woodstock e gli interessi di una banca, fino a farli rivivere insieme in uno spot pubblicitario? Grazie a quella che Baudrillard chiama simulazione, cioè mediante la neutralizzazione di tutte le polarità e di tutte le contraddizioni dialettiche che hanno costituito la struttura stessa della storia. La simulazione è l’abolizione di ogni referenzialità, è l’invalidazione dei criteri di valore, del «giudizio morale, estetico pratico» all’interno del nostro sistema di immagini e segni, di cui per Baudrillard i nuovi media sono veicolo. Nello Scambio simbolico e la morte, così Baudrillard definisce la simulazione: «Simulazione, nel senso che tutti i segni si scambiano ormai tra di loro senza scambiarsi più con qualcosa di reale».
Tutti gli eventi sono ridotti a segni e con ciò diventano compatibili con tutti i contesti, in quanto non rinviano più ad alcunché di reale. Così, per esempio, la compatibilità tra le idee di Woodstock e il mercato dei conti bancari è reso possibile dalla neutralizzazione di Woodstock quale evento storico dotato di una propria forza di orientamento, dall’annullamento della capacità di attrito nella realtà. Ciò per Baudrillard dipende dalla riduzione di tutti gli eventi storici a un insieme di segni perfettamente riutilizzabile dal sistema mercantile delle banche e degli spot.
La simulazione rende commutabile ciò che era contraddittorio, piega al consenso ciò che esprimeva contraddizione, lavora di lima sulle forze della storia fino a trasformarle in un prodotto ornamentale compatibile con la società dello spettacolo. Con l’annullamento di ogni riferimento referenziale, ogni forma di giudizio diviene infondata, fino a farla apparire insensata. In modo diverso rispetto al passato le immagini simulatorie, i simulacri si confondono in un universo iper-reale che non si sovrappone e non si oppone alla realtà, ma a essa si sostituisce, pezzo per pezzo. In questo universo iper-reale tutto può diventare compatibile con tutto, perché l’unico criterio di valore e di esistenza è nell’iper-realtà mediatica.
Questa svolta simulatoria nell’iper-reale è ciò cui assistiamo nello spot in questione: agli occhi di Baudrillard probabilmente la difesa politica degli ideali di Woodstock che abbiamo visto sul profilo Facebook sarebbe apparsa condivisibile sul piano morale, ma irreparabilmente in ritardo rispetto all’effettiva profondità del processo simulatorio in cui siamo immersi. Il richiamarsi a un ideale – esterno alla iper-realtà mediatica – è un gesto troppo debole in un universo che è ri-montabile e ri-manipolabile illimitatamente e all’interno del quale nulla può ancora avere un senso referenziale, senza che possa incidere per trasformare la storia.
La frase che compare sul profilo Fb «Niente nel pensiero di quei ragazzi di quarant’anni fa ha a che spartire con la pubblicità di una banca» più che una critica appare ormai come la mera descrizione di un aspetto fondamentale del processo simulatorio nel quale siamo sempre più integrati sistematicamente come nostro unico spazio di azione. L’ampiezza e la radicalità del processo simulatorio con la forza di annientamento delle opposizioni è tale che anche le immagini di un festival come quello di Woodstock non sono altro ormai che materiale per la produzione di un immaginario finalizzato alla propaganda di un conto in banca o di qualsiasi altra merce. Lo stesso potrebbe valere – e in effetti è in parte già accaduto – per eventi di portata storica ancora più importanti: la Rivoluzione d’Ottobre, la presa della Bastiglia, o magari la crocifissione di Gesù Cristo.
Per Baudrillard la derealizzazione mediatica costituisce un unico processo per la produzione di una iper-realtà simulatoria che procede a un sistematico «sterminio dell’illusione». «La simulazione è precisamente questa gigantesca impresa di disillusione, letteralmente: di messa a morte dell’illusione del mondo a beneficio di un mondo assolutamente reale (…). E non c’è crisi della realtà, proprio al contrario: ci sarà sempre più realtà perché è prodotta e riprodotta mediante la simulazione e non è essa stessa che un modello di simulazione».
L’iper-realtà simulatoria corrisponde dunque a una neutralizzazione della differenza realtà/illusione attraverso la sostituzione di questa tensione dialettica con lo spazio di un’unica iper-realtà o di una «mediarchia», per dirla con le parole utilizzate di recente su Doppiozero da Yves Citton in una sorta di manifesto delle «contro-finzioni in mediarchia».
In merito allo spot con Woodstock come location, aggiungo una domanda che potrebbe apparire marginale: Marco che lancia l’appello al «cambiamento» nello spot, si muove in uno scenario di immagini «reali» girate a Woodstock, oppure stiamo osservando immagini di «finzione»? La domanda è «antiquata», avrebbe detto Günnther Anders, e la risposta invece arriva chiarissima dal già citato comunicato stampa della Ing Direct che recita con caratteri sottolineati: «I primi a prendere parte al cambiamento sono stati proprio i dipendenti di Ing Direct che hanno interpretato il pubblico di Woodstock nello spot televisivo. Uno di loro sarà anche protagonista della campagna stampa.» L’integrazione nell’iper-realtà ha qui raggiunto livelli eccezionali, il sottile confine tra apparenza e realtà è stato cancellato e con esso la differenza tra realtà e immaginazione: ci stiamo muovendo in un unico spazio iper-reale che ci appella dicendo: «Non avrai altro spazio al di fuori di me».
La memoria di Woodstock era viva e ancora dotata di forza di illusione, quando nel 1973 Pier Paolo Pasolini arriva a interrogarsi intorno al celebre cartellone pubblicitario dei jeans Jesus il cui lo slogan era composto da una variazione sul tema del primo comandamento: «Non avrai altri jeans al di fuori di me». La dimensione iper-realizzante che abbiamo colto negli spot della Ing Direct è già tutta presente quarant’anni prima in questo manifesto pubblicitario.
In apertura del saggio Pasolini definisce lo slogan pubblicitario come incentrato sulla «finta espressività dello slogan» che rappresenta la «punta massima della nuova lingua tecnica che sostituisce la lingua umanistica»; questa finta espressività è «il simbolo della vita linguistica del futuro», ovvero di «un mondo inespressivo, senza particolarismi e diversità di culture, perfettamente omologato e acculturato». Sotto questo profilo Pasolini sembra concordare seppur da una prospettiva differente con le conclusioni di Baudrillard.
Eppure per Pasolini la questione più interessante che emerge dall’immagine e dallo slogan è un’altra: «Sembra folle, ma un recente slogan, quello divenuto fulmineamente celebre, dei jeans Jesus: “Non avrai altri jeans all’infuori di me”, si pone come un fatto nuovo, un’eccezione nel canone fisso dello slogan, rivelandone una possibilità espressiva imprevista, e indicandone una evoluzione diversa da quella che la convenzionalità – subito adottata dai disperati che vogliono sentire il futuro come morte – faceva troppo ragionevolmente prevedere».
Insomma questa réclame è definita qualcosa di più che «una trovata spregiudicata», al punto che Pasolini ne rileva la forza espressiva. Questo slogan apre la possibilità di «rendere espressivo» non solo il «linguaggio dello slogan», ma addirittura quello dell’«intero mondo tecnologico». E ancora: «l’esigenza di pura comunicatività della produzione sarà in qualche modo contraddetta. Infatti, lo slogan di questi jeans non si limita a comunicarne la necessità del consumo, ma si presenta addirittura come la nemesi – sia pur incosciente – che punisce la Chiesa per il suo patto col diavolo».
Già in passato le immagini apparentemente insignificanti della grande industria culturale si sono rivelate sintomi di grandi sommovimenti che avvengono nella profondità del terreno sul quale viviamo. Grandi modificazioni sono in atto, ma spesso percepiamo solo alcune quasi insignificanti vibrazioni. A queste leggere vibrazioni occorre però prestare attenzione, in quanto annunciano moti tellurici di grande portata che coinvolgono poi porzioni sempre più ampie dei territori nei quali si svolge la nostra esistenza.
«Peccato che Pasolini non abbia continuato la sua analisi», ha osservato opportunamente Marco Belpoliti sulle pagine de «L’Espresso». Infatti, in quella che Pasolini definisce come la contraddizione della «pura comunicatività della produzione», in ciò che Pasolini indica come il superamento di un immaginario ridotto alla comunicazione della «necessità del consumo» credo che siano ancora oggi raccolte le possibilità di libertà per l’uomo contemporaneo. In queste righe di quarant’anni fa, Pasolini lascia a noi una preziosa e rara indicazione politica: le parole libertà e immaginazione, – parole irrinunciabili eppure così abusate tanto da apparire consunte o pronunciabili quasi con un senso di vergogna – tornano ad avere senso e sostanza ponendole in rapporto con la forza de-realizzante e iper-realizzante del sistema mass-mediatico in cui siamo integrati.
Qualsiasi azione politica oggi deve misurarsi con una estetica dello spazio iper-reale in cui siamo inseriti, cercando di cogliere del «mondo divenuto favola» non solo la dimensione paralizzante e terrificante, ma anche concrete occasioni di «risveglio» e possibili chance politiche, nel tentativo di articolare una pratica della democrazia che si trovi in un’altra direzione rispetto al senso unico dello spettatore e del consumatore.