Grande è il disordine sotto il cielo
È uscito in questi giorni presso le Edizioni dell’asino, Soli e civili di Matteo Marchesini, una serie di ritratti d’intellettuali, scrittori e poeti spesso dimenticati, ma che hanno fatto la storia della cultura italiana, da Alberto Savinio a Piergiorgio Bellocchio, da Franco Fortini a Luciano Bianciardi. Pubblichiamo di seguito la prefazione al volume di Goffredo Fofi.
Goffredo Fofi, Grazia Cherchi, Piergiorgio Bellocchio.
Grande è il disordine sotto il cielo, la situazione è confusa e la crisi avanza, e non riguarda soltanto l’economia; è forse, prima di tutto, una crisi di modelli, di idee, di morali. Di “cultura”, in senso antropologico e in senso cognitivo. In un paese che non ha vissuto l’esperienza della Riforma e che non ha fatto la Rivoluzione borghese, che ha alle spalle una tradizione municipale piuttosto che statale, che va dalle Alpi al mar d’Africa e che si apre verso Oriente quanto verso Occidente, ma che ha subito nel Novecento l’impatto micidiale dell’american way of life, le tradizioni sono deboli e le leggi incerte – tante e contraddittorie.
L’Italia esce ora da trent’anni di conformismo, costruito su un diffuso benessere che aveva il vuoto per base. La fine delle speranze novecentesche – riforme o rivoluzioni è secondario – ha riguardato tutto il pianeta, nel passaggio dagli anni settanta agli ottanta, ma ha lasciato l’Italia ben più fragile di altri paesi di fronte all’offensiva economica e mediatica e ben più fragile che nelle crisi passate, quando un “popolo” (o dei popoli) tuttavia esisteva (esistevano), tenuto insieme dalla scarsità e forte di una autonomia di comportamenti che spingeva alla solidarietà. Il risveglio obbligato che venne dopo vent’anni di dittatura, dopo una lunga guerra (mondiale) di cui due anni furono per noi di guerra civile che sembrò rafforzare la fibra dei sopravvissuti, ci aprì, o così credemmo, a prospettive inedite, nuove. Ma dopo trent’anni di conformismo, di televisione e di “Repubblica” e “Corriere della sera”, di accettazione di una progressiva stupidità collettiva? La strada sarà molto lunga, per convincere di una credibile novità, e la crisi potrà darci indirizzi diversi, diversamente difficili anche se, infine, riaprendo al conflitto.
Nella decadenza della nostra società il mondo intellettuale e artistico porta la sua parte di responsabilità, in realtà enorme: ha accettato il peggio, e se ne è spesso gloriato. Scomparse le credibili figure di riferimento – i Calvino e i Pasolini, gli Sciascia e i Fortini, le Morante e le Ortese, i Silone e Chiaromonte, i Bobbio e i Capitini e quei politici che osarono essere anche intellettuali, i Foa e i Basso e i Panzieri – gli intellettuali si sono rapidamente divisi in due categorie rigidamente interne ai meccanismi del potere e della riproduzione borghese: professori universitari (baroni) e giornalisti (servi di questo o quel padrone politico o pubblicitario, e succubi della tv). E in guru e in opinion makers, parodistici aggiornamenti dentro l’orbita del potere mediatico. Lo spirito e la cultura (come merce consolatoria) vanno oggi più forte che mai, e non trovano altre barriere che quelle interne alla logica del potere, del capitale.
Ricostruire percorsi e diversità, in tempo di crisi e di obbligatorio ritorno al pensiero e alla critica dell’esistente, delle logiche di chi comanda palesemente o occultamente, fa parte delle cose che sono indispensabili a qualsiasi nuova partenza, riapertura di prospettive. E se non questo, alla difesa di una storia e di una autonomia, di una dignità. Nella grande confusione e nel grande disastro del paese, destinati a crescere, uno dei pochi motivi per non disperare del tutto è la presenza attiva di gruppi e persone di buona volontà, che non hanno la visibilità che meriterebbero (ma non c’è da piangerci sopra: perché il potere dovrebbe amare chi lo critica?) e che non sanno ancora collegarsi, premere, aprirsi e contagiare.
Questa è una consolazione. Quale che possa essere il loro futuro, ché del futuro è bene esser sempre spaventati, perché le capacità di “recupero” da parte del “sistema” sono molte, efficienti e bieche: la fama, il denaro, l’illusione di contare. Grande è la confusione tra i giovani intellettuali italiani perché grandi sono le frustrazioni e schiaccianti i modelli negativi, il narcisismo (e l’orgoglio che ne è maschera), la menzogna come norma che non si svela subito come tale. Può accadere di tutto, ma è nostro dovere di convinti minoritari che non soffrono di esser tali e il cui compito è quello di servire la verità e di assistere chi non può difendersi, stare all’erta e riconoscere i talenti e farli conoscere, sostenerli, rispettarli, difenderli, amarli.
Molti e anche troppi sono i giovani intellettuali e artisti che si mentono, oggi in Italia, soprattutto nella generazione che si è lasciata fregare dalle menzogne degli anni di Craxi, degli anni di Berlusconi, degli anni della morte per suicidio (la mistura di opportunismo e imbecillità) della sinistra e della sua storia e cultura. Guardare in faccia la realtà è un compito a cui si è in pochissimi a credere, e tra questi c’è, crediamo, Matteo Marchesini. Che si è imposto un altro compito parallelo e necessario, quello di ricordarci che non sempre la cultura italiana è stata come è oggi, chiassosamente servile, che ci sono state (e ancora ci sono) figure di possibile riferimento portatrici di una istruttiva diversità, maestri e fratelli maggiori dai quali abbiamo da imparare oggi quanto ieri e forse più di ieri.