I pubblici della cultura
Che in Italia mediamente la fruizione culturale, come del resto la partecipazione al dibattito pubblico sulla cultura, si mantenga a livelli deprimenti, è una cosa che leggiamo e sentiamo dire spesso, e non conosco commentatore, me incluso, che prima o poi non finisca per rilevarlo con toni più o meno accorati. Poche, pochissime, però, sono anche le indagini approfondite e attrezzate sull’anatomia dei pubblici della cultura in Italia: scarseggiano di conseguenza anche le analisi rigorose delle cause di questa penuria, e le ipotesi sensate per porre rimedio allo stato di cose presente.
Va dunque salutato con molto favore che con questo obiettivo la collana dell’editore FrancoAngeli Pubblico, professioni e luoghi della cultura, diretta da Francesco De Biase, Aldo Garbarini, Loredana Perissinotto e Orlando Saggion, si arricchisca di un nuovo volume su I pubblici della cultura. Audience development, audience engagement, a cura di Francesco De Biase. Senz’altro destinato a diventare un utile punto di riferimento in un dibattito particolarente attuale – nel periodo 2014-2020 audience development e audience engagement saranno elementi centrali delle politiche e delle misure dell’Unione Europea in materia di cultura – il libro (ampio, a dir poco: 464 pagine) è suddiviso in cinque sezioni: le ragioni, le analisi, le prospettive, le strategie e le pratiche. Per la vastità, la diversità e l’approfondimento tecnico dei contributi è un testo che ambisce, se non certo a esaurire lo spettro di questioni complesse e spesso controverse, a offrire una panoramica ricca e molto articolata dei temi, delle poste in gioco e delle criticità, nonché la messa a punto di alcuni parametri terminologici e concettuali, e di linee guida in vista di soluzioni possibili.
La chiara misura di quanto sia desolante lo stato della cultura come questione pubblica in Italia ci è indicata dal contributo di Aldo Garbarini. Un décryptage che mette a confronto i programmi politici dei principali partiti, i concreti interventi di riforma e le singole misure adottate dai decisori con alcuni nodi del dibattito pubblico sulla domanda/offerta culturale e sulle politiche culturali – il Libro bianco del Ministero dei Beni culturali curato da Walter Santagata (2007), l’intervento di Alessandro Baricco “Basta soldi pubblici al teatro meglio puntare su scuola e tv” sulle pagine de La Repubblica (2009), l’analisi sviluppata negli stessi anni in alcuni titoli della collana che ospita il nostro volume, poi, più di recente, il controverso Kulturinfarkt, Azzerare i fondi pubblici per far rinascere la cultura (Marsilio, 2012), e infine il manifesto per la cultura del Sole24Ore – mostrando che di questa diversità di approcci e proposte, pure di segno e orientamento molto diversi, la sfera politica è rimasta uniformemente ignara e immune.
Sulle politiche culturali si concentra anche Antonio Di Lascio, rilevando la notevole eccezione della cultura gastronomica: «Non è un caso che l’unico settore in cui l’Italia guadagni posizioni su scala globale sia quello del cibo, il comparto in cui è stata promossa negli ultimi anni una reale politica di crescita del pubblico in termini di informazione, competenza, sensibilità alla cultura del territorio». Risultato che, a solo volerlo, si intende, poteva e potrebbe essere perseguito anche in altri ambiti.
Un ingrediente risolutivo consisterebbe, secondo Marialuisa Stazio, in un generale incremento delle competenze, in particolare nella pubblica amministrazione, dove il blocco del turn over ha prodotto stasi e invecchiamento generazionale, esternalizzando e precarizzando il lavoro degli operatori più giovani e aggiornati. Ma anche al fine di innescare nel pubblico la “mobilitazione cognitiva” indispensabile per una fruizione attiva e partecipe non solo del patrimonio, ma anche delle produzioni contemporanee. Elementi che però cozzano – e sono riferimenti critici costanti nel libro – tanto con le retoriche della “cultura-petrolio” quanto con il «trend nazionale di progressivo, e sempre più aggressivo, definanziamento del settore culturale».
Sulla stessa linea d’onda, Antonio Scuderi insiste sulla necessità di sviluppare le competenze gestionali degli operatori culturali, perché le organizzazioni culturali possano darsi fondatamente l’obiettivo della sostenibilità e, a termine, del pieno autofinanziamento. È però il contributo dove più traspare la tentazione di indicare l’“azienda di successo” come modello di management culturale, e dove le ipotesi di nuove istituzioni culturali appaiono più virate verso le grandi fondazioni che riuniscono enti locali (Fondazione Torino Musei, Fondazione Musica per Roma), un’ottica che lascia fuori non solo l’universo ricchissimo delle piccole-medie produzioni indipendenti, ma anche modelli alternativi di scala più larga, come le Fondazioni di partecipazione.
Annalisa Cicerchia propone una lucida analisi comparativa delle rilevazioni sul consumo culturale di Eurobarometro e Istat. Sorvolando qui sul tenore da bollettino di guerra delle percentuali italiane, e rinviando all’esame dettagliato che ne viene proposto, l’intervento si distingue per la chiara problematizzazione di un punto nodale, di cui finora nelle statistiche sui consumi culturali si è tenuto conto in maniera del tutto inadeguata: «Da una parte, infatti, ogni essere umano, con i suoi significati, le sue norme i suoi valori, il suo mondo simbolico e i suoi usi, è portatore pieno di cultura e ha diritto di esprimerla; dall’altra, invece, la cultura è un insieme di settori di molto alta professionalità, che coinvolge pochi, selezionati produttori e un numero variabile di fruitori/consumatori, in un processo sostanzialmente top-down. Il concetto di partecipazione, per poter essere utilizzato, deve sciogliere questa ambiguità: occorre partire da qui». Una duplice dimensione della sfera culturale che l’Unesco ha scelto di indicare come base della Cultural Development Indicator Suite, e che informerà le prossime rilevazioni statistiche, a partire da quelle dell’ISTAT.
Così Michele Trimarchi indaga un’altra polarità controversa della sfera culturale, quella che oppone cultura alta e bassa. Dopo una brillante decostruzione delle speculazioni intorno ai dati sul consumo culturale per genere, età, censo e grado di istruzione, di cui viene mostrata la sostanziale irrilevanza, Trimarchi formula riguardo al cultural divide una chiara tesi politica: «La percezione di una società divisa irredimibilmente in due caste stagne rappresenta un chiaro incentivo a mantenere l’offerta culturale così com’è. […] In sintesi, finché si ritiene che chi non è adulto, istruito e ricco non ha alcuna motivazione forte verso l’esperienza culturale si rende del tutto inutile e dispendiosa qualsiasi possibile azione rivolta a bimbi e adolescenti, gruppi sociali meno benestanti, persone con un basso grado d’istruzione. L’offerta è oggettiva e immutabile, è il pubblico a dover fare lo sforzo di entrare, assorbendo il messaggio senza riserve». La rappresentazione di un’Italia divisa tra una nicchia di colti consumatori di conoscenza e una massa inetta priva di pruriti culturali, insomma, sarebbe ideologicamente funzionale a un progetto sostanzialmente conservatore, se non reazionario, cioè al mantenimento dei rapporti di forza vigenti nella produzione e nella diffusione di cultura. Per queste ragioni, secondo Trimarchi, più che verso un sostegno diretto, l’intervento pubblico in materia di cultura dovrebbe orientarsi in modalità indiretta, al potenziamento delle infrastrutture e dei prodotti/servizi integrativi dell’offerta culturale, mentre gli aiuti allo sviluppo della domanda dovrebbero assumere la forma della detrazione fiscale delle spese culturali.
Più specificamente incentrato sulla realtà del museo, il contributo di Cristina Da Milano propone invece un’analisi delle politiche culturali europee incentrata sul community building mirato alla popolazione residente come cardine di un nuovo management museale: «Si tratta quindi di operare in due direzioni: il cambiamento dell’audience, intesa non più come pubblici tradizionali ma come società nel suo complesso e il cambiamento istituzionale, passando cioè da una prospettiva
orientata alla produzione/prodotto culturale ad una orientata ai visitatori».
Se, dunque, nella formula “pubblici della cultura”, la definizione di coordinate e confini dell’elemento “cultura” appare fortemente problematica, non minore approfondimento critico richiede la ricostruzione della fisionomia dei “pubblici”. In questo senso Alessandro Bollo propone una vera e propria anatomia del concetto di audience development, articolando livelli, termini e aspetti strategici dell’avvicinamento e del coinvolgimento del pubblico. Strategie che devono però fuggire la tentazione didascalica, mirando piuttosto a «riabilitare quell’istinto collettivo alla partecipazione, di cui si sente sempre più bisogno». E per questo Bollo indica la necessità di una figura professionale nuova, quella dell’«audience developer inteso come profilo specifico che deve integrare e armonizzare i compiti e le funzioni del marketing manager, del networker, del project manager, dell’animatore e del facilitatore di pratiche e dinamiche sociali e interculturali».
Queste dinamiche dovrebbero essere gestite, secondo Lucio Argano, come un “Capitale relazionale”: «Nel settore culturale, dove ci si confronta con stakeholder plurali ed eterogenei, la parola relazione è più frequentemente un mantra ripetuto stancamente, piuttosto che il cuore di investimenti ragionati. Sono le realtà piccole e destrutturate a puntare sulla qualità, consistenza e accuratezza delle relazioni come un piccolo tesoro, seppure spontaneo e disordinato. Per gran parte delle altre strutture culturali il capitale relazionale è poco valorizzato e fortemente sbilanciato verso alcuni soggetti, pochi e con modalità ingessate». Sarebbero dunque i grandi soggetti culturali a dover imparare dalle realtà piccole e indipendenti, che coltivano le loro reti relazionali come una risorsa fondamentale.
Le ultime pagine del volume raccolgono contributi dedicati a territori eterogenei, dal teatro di comunità alla gruppoanalisi, dalle associazioni amatoriali alle dinamiche partecipative nelle smart cities. Loredana Perissinotto, ad esempio, affrontando il tema della formazione alla fruizione culturale nella scuola concentrandosi particolarmente sulle attività teatrali, rileva come dal 2000 si sia registrata una netta contrazione delle attività extracurricolari ed extrascolastiche, nei termini di «una progressiva chiusura della scuola verso l’offerta culturale del territorio ed anche verso quanto predisposto, gratuitamente, dall’amministrazione locale, prima della crisi». Mentre Antonella Agnoli indica nelle biblioteche di nuova concezione luoghi neutrali e inclusivi della fruizione culturale dove tutti possono sentirsi a proprio agio, al riparo anche dalle pressioni commerciali e dell’efficienza competitiva, e come modello e strumento di un cambiamento non solo più ampio e complesso, ma anche creativo: «Non è sufficiente ascoltare i bisogni dei cittadini, dobbiamo essere capaci di anticiparli, sollecitarli, stimolarli e farci ispirare nel processo di cambiamento dagli altri luoghi della vita quotidiana delle persone. Gli studiosi delle biblioteche hanno spesso usato il concetto di serendipity per definire i servizi della biblioteca, soprattutto gli scaffali aperti: a me piace pensare che questo concetto non lo usiamo solo per i libri e per tutti gli altri media, ma per favorire quel potenziale di innovazione insito nella città e nei suoi abitanti attraverso luoghi, momenti e situazioni del tutto inaspettate, incontri improvvisi».
Dall’ambito di questioni in cui questo volume si colloca con molta ricchezza di modelli interpretativi, esempi virtuosi e ipotesi di lavoro, i ragionamenti sull’innovazione culturale che hanno animato il recente dibattito italiano possono trarre senz’altro molto beneficio, come senza dubbio e a maggior ragione possono trarne analisi che oggi sembrano vistosamente segnare il passo, prima fra tutti quella sulla crisi dell’editoria.
Questa panoramica analitica, e soprattutto l’immagine di come le cose potrebbero essere, deve però necessariamente tener conto di almeno un altro elemento fondamentale, che nel libro non viene affrontato se non indirettamente, con il contributo finale di Giulio Stumpo a proposito del progetto SmartIT: «SMart vuole essere una comunità di artisti che dialoga con le comunità di fruitori, le comunità di finanziatori, le comunità di committenti in modo cooperativo».
Tra i punti di forza, un’offerta di servizi per la gestione degli aspetti amministrativi, fiscali, contrattuali e burocratici del lavoro degli artisti, e soprattutto la creazione su base mutualistica di un fondo di garanzia che assicuri certezza e puntualità dei pagamenti indipendentemente dai tempi del flusso di cassa del committente.
È un modello che potrebbe senz’altro adattarsi alle più diverse tipologie di operatori culturali, tutte accomunate da intermittenza del reddito, difficoltà nel recupero dei crediti, soprattutto in caso di progetti che coinvolgono amministrazioni pubbliche ed enti locali, angustie burocratiche di ogni genere, desertificazione del welfare. Ma che ruolo può avere il pubblico, dobbiamo chiederci, rispetto a una simile riorganizzazione del lavoro culturale? Se la questione dell’innovazione culturale va affrontata in termini strutturali e di sistema (di ecosistema?), dobbiamo allora mirare all’obiettivo di coltivare per la cultura un pubblico non solo attivo e partecipe, ma anche disposto a diventare consapevolmente parte attiva di questo (eco)sistema. Un pubblico consapevole delle criticità relative alla forma di produzione e circolazione di cultura, cioè delle condizioni in cui si determina l’offerta culturale. Un pubblico che idealmente ricalca il profilo dei consumatori di prodotti tipici di un territorio, acquistati “a km zero” e magari attraverso un gruppo di acquisto solidale, cioè secondo modalità accorte, rispettose degli equilibri dell’ecosistema e dei diritti di chi ne fa parte. Un pubblico che dunque condivida un insieme di rappresentazioni e di valori – una cultura! – e che per questo rientri attivamente in un sistema partecipativo basato sulla fiducia, dove diffuso e condiviso non è solo il processo di creazione/fruizione, ma anche la reciproca garanzia che questo processo avviene nella tutela dei diritti del lavoro e della dignità delle persone.