Il culto politico della morte
Pubblichiamo per gentile concessione dell’autore un estratto da un lavoro di prossima pubblicazione sul tema del culto della morte nella cultura di destra.
Per entrare nel merito della nostra analisi è il caso di rilevare che, al contrario della sinistra, che – compresa la sua componente rivoluzionaria – si è sempre considerata un’articolazione della modernità, stabilendo con quest’ultima un rapporto positivo, tanto da immaginare la nuova società come il necessario prolungamento storico e logico del capitalismo, la destra, in particolare quella estrema e antipluralista, ha sempre vissuto un rapporto sofferto con la modernità.
Questa sofferenza l’ha condotta a interrogarsi sul destino dell’uomo, e dunque sulla morte. Che senso aveva la morte, se la vita dell’individuo era un confronto sofferto con la modernità? Esisteva un rapporto fra questa sofferenza del vivere e l’approdo biologico e naturale della vita umana? Che senso aveva la morte, se la vita era esperita in un panorama storico contrassegnato dal materialismo e dall’edonismo borghesi? Queste domande, insieme ad altre, hanno percorso l’atteggiamento della destra pluralista davanti alla morte. Da de Maistre a Barrès, dagli scrittori della Konservative Revolution ai fascisti, soprattutto a quelli che avevano scelto di militare nella Repubblica sociale, passando per la Legione dell’Arcangelo Michele di Codreanu, la cultura della destra estrema ha scrutato la morte quasi con ossessione; un’ossessione per la morte che pone un problema teorico-politico e storiografico decisivo.
C’è un primo motivo che ha indotto la cultura politica di questa destra a orientare l’attenzione verso la morte. È un motivo rintracciabile nel ruolo che, all’interno del suo universo ideologico, ha svolto la categoria di “Tradizione”. Ora, la Tradizione, per quanto ci si impegni sul piano politico nel tentativo di farla rivivere, ha sempre attinenza col passato, e dunque con la morte[1]. La Tradizione è fatta di vita, e mai di morte; e nella Tradizione, almeno nel modo con cui il concetto è stato elaborato ideologicamente a destra, è sempre ciò che è morto a fornire una scala di valori a coloro che ancora vivono.
Ma c’è un altro motivo che ha indotto la cultura della destra a privilegiare la riflessione sulla morte. Mentre la cultura della sinistra già dall’esperienza del giacobinismo aveva valorizzato la partecipazione delle masse, e dunque di un soggetto collettivo e plurale, alla Storia, la cultura della destra aveva valorizzato la dimensione dell’individuo. Ora, il destino dell’individuo è appunto la morte; viceversa, non è questo il destino dei soggetti collettivi, che si riproducono storicamente, al di là della morte dei singoli individui che li costituiscono. La morte pone termine all’azione dell’individuo nella Storia; la morte degli individui non pone termine all’azione delle masse, le quali comunque si rinnovano, dando vita a un protagonismo che il pensiero politico della sinistra ha sempre considerato immanente alla società borghese. Insomma, muoiono gli individui, ma non le masse, tantomeno il loro protagonismo…
Nel Novecento, la politica, almeno nei suoi settori estremi impegnati nell’edificazione di sistemi politici totalitari, ha rivendicato il diritto di esprimere una soluzione alla crisi dell’uomo contemporaneo. Anzi, la politica estrema ha tradito un’esplicita vocazione antropologica, presentandosi come un discorso sull’uomo, ossia sulla necessità di dare vita a una figura di uomo totalmente rinnovata. Qui è appena il caso di accennare che questa vocazione antropologica a sinistra è stata rielaborata privilegiando l’inscrizione della dimensione individuale all’interno del paradigma dei soggetti storici collettivi. A destra, anche quando si è inteso privilegiare soggetti collettivi quali la razza e la nazione, l’obiettivo è rimasto comunque quello della centralità dell’individuo e dei problemi che questo poneva.
Da questa centralità che la dimensione individuale riveste nella sua cultura politica, una maggiore predisposizione della destra, rispetto alla sinistra, nei confronti del tema della morte. Se il destino naturale dell’individuo è la morte, allora questa non può essere altro dalla vita esperita; fra vita e morte corre un identico filo di continuità, nel senso che la seconda è il certificato e il sigillo naturale della prima. In altri termini, la morte non può essere altro dalla vita; si muore nell’identico modo in cui si è vissuti: l’atto del morire è poco più che una proiezione definitiva di ciò che è stata la vita precedente e del modo con cui la si è esperita. Per la destra, la vita diventa, allora, un lungo commento alla morte. La sinistra, anche quando, fattasi Stato, ha celebrato la morte nei musei e nei mausolei, non sembra abbia avuto una particolare concezione della morte; o comunque, ne ha avuta una diversa da quella della destra. In quest’assenza/differenza è possibile registrare una vocazione edonistica della sinistra davanti alla modernità: la si accetta, per svilupparla fino alle sue conseguenze storiche, ovvero per superarla, dando vita a sistemi sociali differenti.
Laddove l’atteggiamento di sofferenza nei confronti del mondo è dominante, lì la presenza della morte è chiamata a svolgere un ruolo decisivo. A destra, vivendo la modernità come decadenza, ci si predispone con una crepuscolarità che inevitabilmente familiarizza con la riflessione sulla morte. La finitezza del tempo vissuto svolge un ruolo determinante, aprendosi al tema della finitezza della vita. La sinistra pensa la vita come se la morte non ci fosse; la destra pensa la morte come prolungamento della vita. Qui, va da sé, si scontrano due modelli della storia. Almeno quello della destra, presenta un atteggiamento che assolutizza il trascorrere del tempo, scrutandolo come un potenziale, quanto temibile (il più temibile) avversario. La modernità si muove con la pretesa di interpretare il corso della storia: questa era già gravida di modernità, poi originata in seguito a determinate vicende storiche.
Per la sinistra, le masse, la classe ecc. non muoiono: sono biologicamente finiti solo gli individui che le compongono, sostituiti inevitabilmente da altri, ma non il soggetto storico collettivo. Per la destra, l’individuo muore; e, anzi, persino i soggetti collettivi cui essa si riferisce – la nazione, la razza ecc. – possono morire, annegati nelle tempeste della modernità.
Sofferenza, società moderna quale decadenza, primato dell’individuo sui soggetti collettivi: quale attinenza hanno questi temi con la centralità del problema della morte nella cultura della destra antipluralista?
In prima istanza possiamo avanzare due ipotesi. La prima è che l’attenzione della cultura della destra estrema verso la morte deriva dal giudizio sulla società borghese liberale quale società di morti, ovvero intrisa di fenomeni di degenerazione e di decomposizione che lasciano intravvedere la morte prossima di questa società. In altri termini, la destra estrema si confronta con la morte perché considera poco meno che cadaverica la società borghese liberale: l’attenzione per la morte deriva, quindi, dal giudizio sull’avversario.
La seconda ipotesi, cui abbiamo appena accennato ma che conviene sviluppare, è che, mentre la cultura di sinistra aveva focalizzato l’attenzione sui soggetti collettivi (le masse, le classi sociali ecc.), la cultura di destra aveva orientato la propria attenzione verso la condizione dell’individuo. Beninteso, non che la destra avesse scartato i soggetti plurali, vista l’attenzione per temi quali la nazione, la razza ecc.; ma la sua scarsa attenzione al problema dei rapporti sociali e di produzione l’aveva condotta a privilegiare il ruolo dell’individuo nella società moderna: la conseguenza era stata l’attenzione per la prospettiva di qualsiasi individuo, appunto la morte.
Mentre per la sinistra l’individuo esisteva in quanto membro di una classe sociale, e dunque era “esterno” all’individuo medesimo, la cultura della destra ha rivelato una più specifica attenzione alle qualità dell’individuo (basti pensare, a contrario, alle caratteristiche che l’antisemitismo aveva preteso di individuare nell’ebreo); il suo stesso giudizio sulla modernità borghese liberale tradiva una forte inclinazione antropologica (la società borghese quale sistema della disumanizzazione), che non si ritrova, se non con qualche eccezione, nella cultura di sinistra.
C’è infine un terzo aspetto che possiamo così delineare in modo sintetico: anche nelle sue articolazioni segnate da un attivismo ottimistico, come nel caso dell’ideologia fascista, la cultura della destra antipluralista, nazionalrivoluzionaria ecc. è stata contrassegnata da un atteggiamento drammatico, se non tragico nei confronti della “Storia” e della società borghese liberale. Questa visione tragica, presente già in de Maistre, ma affiorante anche in altri pensatori e leaders di questa destra, deriva dal giudizio sulla società borghese quale società moribonda, insistendo sull’avvenuta morte dell’individuo: questi, prima di morire biologicamente, è già morto nello spirito. Ciò che l’ottimismo borghese e socialista non comprende, insomma, è che “l’intera umanità è una tragedia”[2].
Anche se si è storicamente concretizzata in regimi totalitari e in numerose sigle e in movimenti politici, svolgendo indubbiamente un ruolo fondamentale nel corso del novecento, l’impressione teorico-politica è che la destra antipluralista fosse mossa dalla convinzione di svolgere un ruolo subalterno, per dire meglio una funzione di polizia e di contenimento di quelli che supponeva fossero gli effetti distruttivi della società borghese sull’individuo. Da tempo la ricerca storica ha sottolineato come la destra estrema si sia spesso proposta sul mercato politico quale soggetto trasversale e di superamento della divisione assiale destra/sinistra[3]. È da chiedersi se quest’atteggiamento trasversale non abbia costituito una forma di rivolta contro il sospetto di agire da forza di contenimento e di rincalzo contro una diffusa visione della Storia che identificava quest’ultima col Progresso: se toccava alla destra il compito di opporsi alla Storia-Progresso, svolgendo una funzione di ostruzione e di resistenza, allora era il caso di respingere il concetto medesimo di “destra”, per cercare di svolgere un ruolo più attivo.
In ogni caso, in questa visione di contenimento svolge un ruolo determinante appunto l’attivismo tragico, ispirato dalla sicurezza che la vita è sofferenza; e quest’attivismo tragico ha origine nel sospetto che la partita della storia sia già stata giocata e sia stata vinta dalla cultura politica progressista, col risultato che alla società borghese liberale debba succedere quella dei soviet, non del tutto diversa, nei suoi valori di riferimento materialistici ed edonistici, dalla prima.
Al contrario della cultura liberale, quella della destra antipluralista conserva l’idea di storicità, ossia l’intuizione che quella borghese liberale sia una società destinata al superamento; quest’intuizione trova la sua conferma nel giudizio storico sulla società borghese liberale quale sistema sociale attraversato da evidenti fenomeni di degenerazione. Al contrario della cultura socialista che, avendo fatto proprio il concetto di “progresso”, guarda con ottimismo e speranza al futuro, la destra manifesta un oscuro senso di scetticismo: ha il sospetto che proprio il futuro non le appartenga.
Da qui la centralità della morte, quale soppressione della possibilità medesima del futuro: nel momento in cui si è morti, per di più sostenendo una titanica prova di forza contro le forze del progresso appoggiate dalla Storia, non c’è più un futuro con cui confrontarsi.
Attivismo tragico e immanenza della sofferenza si presentano quindi come una rivolta contro la Storia, una rivolta da parte di una cultura che si considera straniera al supposto corso della Storia. In altri termini, Locke, Smith, Robespierre e Lenin hanno vinto; per cui l’unica soluzione è impegnarsi da una posizione controcorrente, che necessariamente dovrà provocare sofferenza a sé, e molto probabilmente la morte.
[1] Su questo cfr. le considerazioni di Furio Jesi in Ricetta: metter il passato in scatola, con tante maiuscole. Colloquio con Furio Jesi, in “L’Espresso”, n. 25, 24 giugno 1979, ora in ID., Cultura di destra, Con tre inediti e un’intervista, a cura di A. Cavalletti, Nottetempo, Roma 2011, p. 287.
[2] O. Spengler, Albori della storia mondiale, ed. or. 1966, trad. it., Ar, Padova 1996, v. I, p. 44.
[3] Z. Sternhell, Né destra né sinistra. L’ideologia fascista in Francia, ed. or. 1983, trad. it., Baldini & Castoldi, Milano 1997.