Centro Teatrale Santacristina / Il filo del presente: teatro, memoria, realtà
Il legame tra la realtà e la memoria è forse uno dei nessi concettuali più scivolosi. Secondo la concezione ordinaria dei termini, l’una consiste nella totalità o somma di ciò che esiste, è esistito ed esisterà nell’universo, mentre l’altra denota una facoltà interiore di registrare, conservare e interpretare gli eventi che si sono verificati in passato. Ci troviamo, apparentemente, di fronte a un confronto tra la dimensione oggettiva e quella soggettiva, o meglio tra un esterno tanto enorme quanto insondabile e un interno che filtra/seleziona gli accadimenti più rilevanti dell’esperienza di un individuo o di una comunità. Il legame tra la realtà e la memoria può poi essere a sua volta paragonato a un sottile filo, dove è facile si creino aggrovigliamenti. Gli eventi reali sono la base dell’elaborazione dei nostri ricordi. Nello stesso tempo, la memoria è una facoltà che ci fa orientare nella realtà e ci influenza nelle nostre ricerche, scelte, previsioni di quanto potrebbe un domani accadere. Orientarsi nel meandro di ciò che esiste e di ciò che ricordiamo è dunque un’impresa difficile, che richiede studio e pazienza.
Le due giornate del convegno Il filo del presente. Il teatro tra memoria e realtà – che si sono tenute nel 22-23 luglio 2019, presso il Centro Teatrale Santacristina di Gubbio, a cura di Giovanni Agosti e Oliviero Ponte di Pino – hanno affrontano questo problema abissale. E lo hanno fatto cercando di costruire un dialogo tra studiosi e artisti attorno a un’ipotesi di lavoro: quella che il teatro possa essere un utile mezzo per capire meglio i rapporti tra la realtà e la memoria. Più specificamente, si è in generale partiti dalla premessa che l’arte teatrale sia capace di rappresentare il “presente” e ci si è chiesti se tale rappresentazione/presentificazione consenta di far rivivere un passato che si credeva ormai perduto, così come se permetta di influenzare o addirittura mutare il reale. Ci si è insomma chiesti, da una prospettiva militante, se il cosiddetto “qui e ora” del teatro possa essere un filo che si lega tanto alla memoria, riannodando in uno spettacolo/arazzo i frammenti o fili dei nostri disordinati ricordi, quanto alla realtà, che viene stretta in una morsa e obbligata a trasformarsi in meglio.
Trattandosi di una riflessione a più voci, dove ciascun partecipante porta con sé diverse competenze e differenti talenti, è vano attendersi dai lavori di Il filo del presente una prospettiva sistematica e unitaria. È possibile, però, isolare tre linee di ricerca coerenti, tante quante sono state le sessioni del convegno. Di seguito se ne sintetizzano i principali risultati, facendo seguire alcune circostanziate riflessioni in margine.
La prima sessione si intitola Il valore della memoria nello spettacolo dal vivo: gli archivi. Essa ha previsto una serie di presentazioni di nove fondi archivistici perlopiù teatrali (sei italiani, tre stranieri), da parte dei loro rappresentanti istituzionali, o da studiosi e studiose che hanno ricavato dalla consultazione di questi fondi alcuni importanti risultati. Vale ricordare, a titolo di esempio, l’Archivio Luca Ronconi presso l’Archivio di Stato di Perugia, ereditato da Roberta Carlotto, dove è stato scoperto il dattiloscritto delle interviste che Maria Grazia Gregori fece all’artista Luca Ronconi fino al 1994, poi pubblicate dal curatore Giovanni Agosti con il titolo Prove di autobiografia (leggi la recensione su doppiozero qui). Pur nei loro meriti individuali, le presentazioni dei fondi hanno messo comunemente in luce due importanti delucidazioni sulla nozione stessa di “archivio”: una metodologica e una teorica.
La nota di metodologia riguarda il carattere sempre in fieri di un fondo archivistico teatrale e la necessità di organizzarlo senza pregiudizi ideologici, in collaborazione costante con gli studiosi che lo frequentano e magari inserendolo all’interno di una biblioteca. Lungi dall’essere un luogo che funge da semplice omaggio alla persona a cui è dedicato, infatti, un archivio deve raccogliere quanto più materiale possibile senza fare selezioni “partitiche”, ossia accettando anche materiale che può risultare scomodo o non celebrativo. Da ciò segue che un fondo permette una distanza critica dalla figura a cui è dedicato e una ricostruzione storica più oggettiva del suo pensiero sul teatro. Ma un archivio non è neanche un luogo definitivo, perché si trasforma col contributo di chi lo frequenta, secondo una dinamica a chiasmo. L’inventario di un fondo aiuta lo studioso a lavorare meglio, ma lo studioso contribuisce con le sue indagini a ottimizzare l’organizzazione dell’inventario. Un archivio è dunque uno spazio dove si cerca di «governare la complessità», tramite un costante aggiornamento e una continua attività di ricerca.
L’aspetto teorico che tutti gli archivi hanno messo in comune riguarda invece proprio il rapporto della memoria con la realtà. Un fondo non è solo un serbatoio di tracce o dichiarazioni del passato, ma anche (forse soprattutto) un «teatro della memoria». Esso è uno spazio a metà tra il fisico e il metafisico, in cui i ricordi escono dalla dimensione privata per prendere corpo nel reale collettivo. Potremmo dire che l’archivio attua un processo di “realizzazione della memoria”. Il passato si fa presente con lo studio dei documenti e, attraverso indagini o pubblicazioni, viene portato sulla “scena” della realtà concreta.
Questo risultato solleva il problema oggetto della seconda sessione del convegno (Il valore della memoria nello spettacolo dal vivo: la riproducibilità degli spettacoli). Posto infatti che iconografie, testimonianze e fotografie o video permettono di ricostruire alla perfezione un lavoro teatrale rappresentato in passato, è possibile e auspicabile portarlo di nuovo sulla “scena” del presente? In altri termini, per riprendere la terminologia che abbiamo adottato, fino a che punto è possibile portare a compimento il processo di “realizzazione della memoria”? Hanno tentato di rispondere a questa domanda Mario Martone in merito ai riallestimenti del suo Tango glaciale del 1984 e Margherita Palli sulle repliche delle opere liriche di Ronconi. Peter Exacoustos ha persino esteso la questione al senso di allestire lavori perfettamente ideati sulla carta ma mai realizzati sulla scena in passato, quale Vigilia, sempre di Ronconi.
Andando ancora una volta al di là dei personalismi, la proposta condivisa che emerge dalle varie riflessioni è che occorre distinguere tra il riportare alla realtà presente la memoria di una forma o la memoria di un processo. Nel primo caso, si svolge forse un’attività dotata di poco senso. Il teatro è un’arte effimera e che si perde di continuo, dunque per sua natura irriproducibile. Quando una forma passata viene allora replicata e riportata al presente, ci si trova di fronte a qualcosa di paragonabile a un morto vivente: un apparato che funziona ancora nel corpo, ma che ha perso la sua anima e vivezza. C’è insomma ancora lo spettacolo esteriore, non più il teatro interiore. Se però si cerca di riprodurre uno spettacolo con lo scopo di riattivare la memoria di un processo, pertanto di far emergere dalle ceneri del passato un certo modo di fare teatro attraverso quel determinato apparato spettacolare, allora si attua un’attività che è desiderabile e stimolante. Questa realizzazione può avere vari sbocchi possibili, che vanno dalla costruzione di un nuovo lavoro che recupera le strutture e le poetiche del precedente, all’aggiunta di alcuni elementi che erano assenti dal modello che si sta replicando (una nuova visione, un altro ritmo, un diverso proposito poetico). Ciò che conta è che, con il ridare realtà alla memoria di un processo, si sta tentando di recuperare l’anima e non il corpo di uno spettacolo. Più che a un morto vivente, ci troviamo qui davanti alla nascita di un nuovo essere dalla carcassa degli esperimenti precedenti.
Si può infine passare alla terza sessione del convegno, dal macro-tema Il teatro tra memoria e realtà. A parlare sono stavolta artisti tra loro molto diversi, che hanno tuttavia in comune il metodo di partire dalla realtà e dalla memoria di alcuni testimoni per arrivare a costruire un dispositivo teatrale che trasfiguri entrambi. Come rilevano Oliviero Ponte di Pino e Graziano Graziani nelle loro introduzioni all’intera sessione, l’obiettivo delle ricerche di questi artisti è in senso ampio quello di costruire un mondo, un linguaggio e un tempo «alternativi» a quelli correnti. Se dunque di realismo si deve parlare, occorre precisare che si tratta di un realismo “trasfigurante” e non “mimetico”. Il teatro non riproduce né imita il reale, bensì lo invade e cerca di modificare il suo pigro assetto corrente.
Ma come ha luogo questa invasione e trasfigurazione? I modi possono variare molto, com’è inevitabile nel mare magnum delle possibilità e dei fini del teatro. D’altro canto, si possono isolare dalle relazioni presentate una direzione politica, una sociale, una poetica e una conoscitiva di questo realismo trasfigurante.
Il teatro può anzitutto ambire a una critica del potere e della sua arma più subdola: la manipolazione delle coscienze. Mirano a questo effetto politico il drammaturgo australiano Andrew Bovell, autore del romanzo teatrale When the Rain Stops Falling che Lisa Ferlazzo Natoli ha messo in scena nel 2019, e Gérard Watkins, il cui Scene of Domestic Violence è stato prodotto da Teatro Dioniso e PAV-Fabulamundi su progetto di Elena Serra. Tali artisti rappresentano eventi di violenza comunitaria e privata che sono o realmente accaduti, oppure mai avvenuti ma che potrebbero in qualunque momento verificarsi, senza tuttavia limitarsi a indulgere nella mimesi di uno status quo intollerabile. In modi diversi, infatti, i quattro artisti lavorano a una rappresentazione che mostra come tali avvenimenti hanno luogo perché si accettano valori, credenze, ruoli che sono imposti dall’alto e che possono essere rovesciati, nel momento stesso in cui si individuano programmi di pensiero e di azione diversi dagli attuali. Per chiarire con un esempio, Serra ha dichiarato che la sua riproduzione della violenza che gli uomini praticano contro le donne in Scene of Domestic Violence mira, tra le varie cose, a invitare le donne violentate a non vedersi più come vittime. Il “vittimismo” alimenta, infatti, la logica di potere che ha reso possibile l’atto violento. Una vittima esiste finché essa riconosce al violentatore che questi ha avuto e può avere ancora un’influenza su di lei. Il teatro chiede così alla donna di inventarsi un ruolo diverso, che scardini questa logica auto-distruttiva e apra a reazioni innovative contro la violenza maschile.
Di carattere sociale è invece il realismo trasfigurante di compagnie come il Teatro Periferico, diretta da Paola Manfredi e Dario Villa. Questi artisti ricostruiscono la memoria di un luogo abbandonato al degrado, come ad esempio l’ex-manicomio di Mombello, per farlo vivere in una realtà più bella di quella passata. Essi mettono in scena il racconto della storia degli ex-internati per restituire loro umanità e dare a questi spazi una funzione positiva. I luoghi abbandonati ritornano infatti ad essere adibiti con finalità socialmente utili e consentono agli stessi attori coinvolti dalla compagnia, perlopiù non-professionisti, di trasformare le loro vite, acquisendo con l’esperienza estetica delle competenze che prima non avevano.
La direzione poetica che può assumere il realismo trasfigurante è presentata, invece, come l’abbattimento della realtà ordinaria e la scoperta di alcuni «mondi virtuali» alternativi. Il reale non ha un’unica faccia: come una cipolla, esso è composto da strati sovrapposti, che si rivelano all’individuo quanto più questi cerca di andare oltre i confini del piano in cui si trova. Qui meritano una menzione gli interventi di Nicola Borghesi e Daria Deflorian, che suppongono che sia necessario per l’artista “inabissarsi” dentro la memoria personale, magari a partire da un dettaglio auto-biografico o sociale anche minimo, per andare oltre la dimensione individuale e determinare un «accadimento». Questo accadere può assumere varie forme. Nel caso di Borghesi, un accadimento può ad esempio consistere nella scoperta che tra il personaggio dell’aristocratica Ljuba di Il giardino dei ciliegi e una donna sfrattata dalla sua casa popolare non esiste differenza, poiché entrambe vivono la condizione di esuli da un Paradiso perduto. Si scopre così che i confini tra la realtà della vita e la realtà della poesia sono molto labili, o anche che la memoria della bellezza dispersa di cui parlava Čechov è la medesima per tutti, a prescindere dalla propria estrazione sociale. Per Deflorian, invece, l’accadimento può consistere nel far deflagrare la memoria biografica da cui si parte attraverso la costruzione sulla scena di un’immagine «fuori controllo»: una che oscilla in modo impercettibile tra il reale e la finzione, tra il sé autentico e quello esibito nei rapporti quotidiani. Questo “accadere” ha a sua volta l’effetto di togliere la maschera che si indossa nella società “spettacolarizzata” in cui viviamo e di far desiderare di uscire dai confini del proprio ruolo, ossia a vivere in maniera piena e non frammentaria. There is a world, elsewhere, diceva Coriolano nell’omonima opera di Shakespeare. Non attaccarsi più alla propria realtà e memoria significa quindi spingersi verso i mondi vasti e inesplorati che ancora ci aspettano.
Infine, il realismo trasfigurante assume una dimensione storica laddove il teatro tenta di invadere anche la realtà e la memoria extra-individuale: la storia, appunto. Entro tale prospettiva, possono essere riportate le idee di Fausto Cabra, che all’interno del convegno ha raccontato il suo lavoro di messa in scena del romanzo La Storia di Elsa Morante, e l’intervento finale di Goffredo Fofi, che ha descritto con impietosa lucidità lo scenario in cui ci troviamo, dove si coglie a tutti i livelli (incluso quello culturale) l’incapacità di opporre un’azione rivoluzionaria incisiva da parte dei singoli. Ora, la messa in scena della realtà e della memoria storica attraverso il teatro aprirebbe uno spiraglio per individuare, nella bulimia dei discorsi, delle narrazioni e delle finte rivoluzioni, quali siano le cause davvero fondanti della nostra identità e le domande fondamentali per attuare un movimento di riscossa collettiva (“Chi siamo?”, “Da dove veniamo?”, “Quali sono le aree e le modalità di intervento per uscire dalla miseria attuale?”). Il macro-cosmo della storia non schiaccia così il micro-cosmo degli individui. Esso può anzi fungere da punto di partenza per vivere quanto meglio possibile nel piccolo mondo quotidiano.
La sopramenzionata asistematicità delle prospettive emerse dal convegno va in conclusione vista come un valore e un contenitore di complesse prospettive sul teatro. L’auspicio ulteriore è che Il filo del presente divenga il punto di partenza per approfondire in modo più analitico questi temi, che a loro volta aprono altre piste di ricerca feconde e promettenti.
L’ultima fotografia è un collage di immagini sugli spazi e il lavoro del Centro Santacristina, fondato da Luca Ronconi.