Il parmigiano del Wisconsin
Leggo e ricevo via Whatsapp decine di link e riferimenti giornalistici alla polemica in corso sull’intervista al prof. Alberto Grandi condotta da Financial Times. Riassumiamo brevemente. Il prof. di Storia dell’economia e Storia dell’alimentazione, noto per il libro Denominazione di origine inventata (Mondadori, 2018) e per il podcast omonimo (ben un milione di ascolti, giunto alla terza serie), ne ha combinata un’altra. Incontra “di notte” un corrispondente del Financial Times, a Parma, sottovoce perché “mi odiano qui”, avverte il giornalista. Vuota il sacco sui miti gastronomici che tengono in scacco un intero paese, dalla carbonara alla pizza, passando per il Parmigiano Reggiano.
Una su tutte. La storia della carbonara che rispecchia perfettamente l’idea di “invenzione della tradizione di Hobsbawm”. La ribalta della carbonara, come mostrano fonti orali e scritte, sembrerebbe essere un’invenzione post-dopoguerra. Questo perché (come riportato anche dal libro di Luca Cesari Storia della pasta in dieci piatti), la carbonara sarebbe un piatto americano nato in Italia. “La storia su cui la maggior parte degli esperti concorda è che uno chef italiano, Renato Gualandi, lo fece per la prima volta nel 1944 a una cena a Riccione per l'esercito americano con ospiti tra cui Harold Macmillan. 'Gli americani avevano pancetta favolosa, panna molto buona, formaggio e tuorli d'uovo in polvere', ha ricordato in seguito Gualandi” (cit. con traduzione mia).
Il sapere, nella forma in cui Grandi lo incarna, assume una progressista quanto rassicurante funzione demistificatoria. Sapere serve a distruggere gli idoli (ovviamente falsi) attorno ai quali si cristallizza il consenso sociale, sotto forma di credenza. Una funzione fondamentale nella misura in cui il consenso sociale attorno al cibo, quando troppo radicale, può condurre a dinamiche di esclusione violenta e operazioni di distrazione di massa – ammonisce Grandi assieme a innumerevoli esperti degli studi alimentari contemporanei. Un esempio è dato quando si nega ai musulmani il diritto di mangiare tortellini con pollo anziché maiale, in nome di una fantomatica identità gastronomica e di una verità storica – la ricetta tradizionale – che il tortellino incarna. Peccato che, anche in questo caso, si eriga a sacra e immutabile una tradizione a base di maiale le cui radici sono ben discutibili. Perché nel passato non c’era necessariamente il maiale, perché nella cucina povera gli ingredienti erano interscambiabili, perché la cristallizzazione di una singola versione della ricetta è cosa recente, perché fissare una ricetta in un disciplinare scritto vuol dire ucciderla, e così via fino a mai terminare.
Giusto trovarsi d’accordo, i problemi nascono quando il debunking alimentare finisce per diventare una modalità del dibattito accademico, un genere letterario, oltre che uno stile retorico sul quale basare il racconto del cibo su media tradizionali e social. Beninteso, stiamo utilizzando un caso emblematico a modello di un filone oramai consolidato.
Sicuramente, a questo stile va riconosciuta la capacità di fare breccia nel grande pubblico con argomenti che il mondo della ricerca tende a tenere per sé. Fiumi di pagine sono stati scritti da storici e antropologi di primissimo piano, densi di informazioni che i demistificatori contemporanei (talvolta più propensi alla pubblicazione che allo studio sistematico delle fonti primarie) hanno gioco facile a riutilizzare traducendoli in forme più accessibili e seducenti. Ben venga, in tempi in cui la gastromania chiama la pubblicazione e la circolazione incessante di contenuti a tema gastronomico. Di fronte a tale saturazione, di converso, languono i contenuti di qualità. Forse perché sono relativamente recenti sia il consolidamento di un campo del sapere (gli studi gastronomici) che, con esso, le expertise relative.
Ma è un peccato se, nel momento in cui la ricerca accademica raggiunge il dibattito di massa, il suo metodo ne ricalca oramai l’uso frettoloso delle fonti, le categorie manichee, lo scandalismo e l’ossessione per la verità. Portare alle estreme conseguenze una postura demistificatoria rischia di cristallizzare gli equivoci di fondo di cui gli ideologi della superiorità italiana si nutrono.
Consideriamo allora la notizia-scandalo nel suo complesso, detto in termini semiotici come un effetto di senso, ricomprendendo, accanto all’intervista originale, il rumore roboante generato dai rilanci online e dalle condivisioni. Cito, tra i tanti circolati in questi giorni, un pezzo del Corriere della Sera:
«Il vero parmigiano si fa nel Wisconsin»: il Financial Times spiega le bufale sulla cucina italiana.
A dirlo è in un’intervista a Alberto Grandi, docente dell’università di Parma di storia dell’alimentazione, che ha dedicato la sua intera carriera a sfatare miti legati alla cucina italiana, a pochi giorni dalla sua candidatura come patrimonio dell’Unesco. […] Secondo Grandi il pomodoro di Pachino «è un prodotto di sintesi, tecnologico e non autoctono, creato da una multinazionale israeliana». Il Marsala, famoso vino siciliano, «nasce come prodotto d’imitazione ed è stato inventato dagli inglesi a cavallo tra Settecento e Ottocento». Le Fettuccine Alfredo, tagliatelle in bianco con burro e parmigiano, «sono l’unico piatto veramente italiano ma gli italiani non le conoscono». E ancora, «il Parmigiano Reggiano delle origini si fa nel Wisconsin». Le tesi del docente hanno fatto discutere tanto che qualche utente è arrivato a minacciarlo sui social: «Domani Alberto Grandi dormirà con i pesci».
Le pillole di debunking, circolando, si allontanano dalle interpretazioni storiche di prima mano e acuiscono alcuni tratti polarizzanti costitutivi. La dispositio retorica è semplice: per un mito alimentare che si rivela scandalosamente falso, imitato, inventato o non autoctono, ce n’è sempre un altro di inaspettatamente vero.
Basare l'interpretazione storica e la sua divulgazione sulla categoria del vero e del falso riabilita (seppure in negativo) un'idea romantica di tradizione fedele. E riporta il metodo storico a un secolo addietro, in barba al comparativismo e a Marc Bloch. L’eco destato dalla tradizione falsa dipende dal rovescio della medaglia, che ne esce rafforzato: una tradizione gastronomica genuina che rimane intesa come continua nel tempo, analoga tra passato e presente. La tradizione inventata sarebbe, invece, uno stratagemma che il potere muove direzione verticale, per imporre le proprie ragioni e generare consenso e controllo sociale. Il bersaglio facile sono i sistemi di indicazione geografica DOP e IGP che, come capita spesso alle vittime di shitstorm, sono paradossalmente i tavoli dove si gioca a carte scoperte – miserie comprese.
Chi si sentirà attaccato dalla demistificazione, reagirà con veemenza sui social. Il Parmigiano Reggiano, ma come ti permetti? Chi ne ha le scatole piene di un’epoca dominata dal volemose bene gastronomico, tirerà un respiro di sollievo: quest’enfasi a reti unificate sulle eccellenze italiane puzzava di fregatura. Ecco gli ingredienti ideali per un’altra ricetta tradizionale, il dibattito tra apocalittici e integrati, questa sì conservata fedelmente.
Tanto è stato già detto, da commentatori più autorevoli e in tempi non sospetti, sui rischi insiti in un modello storiografico preciso, quello scaturito dal lavoro degli storici Hobsbawm e Ranger col titolo-manifesto L’invenzione della tradizione (Einaudi, 1987). I lavori di Grandi e di larga parte degli studi alimentari di postura critica si rifanno apertamente a quest’opera, tanto problematica nel metodo quanto basata su casi specifici e difficilmente generalizzabili.
Il problema, anche in ambito gastronomico, rimane aperto: in che misura possiamo distinguere una tradizione inventata da una tradizione vera? Esiste un confine tra le due cose? Dando un colpo al cerchio e uno alla botte, gli studi alimentari che riscuotono successo perché denunciano l’invenzione della tradizione diranno di aver voluto criticare la categoria della tradizione nel suo complesso. Tuttavia, che la tradizione sia mutamento è di discutibile novità scientifica, e gli usi mediatici per i quali il debunking sembra essere concepito, invece, suggeriscono l’opposto dell’intento dichiarato. È grazie a una recondita fede nella tradizione buona che, da qualche altra parte, possiamo condannare delle aberrazioni, o rivendicare tradizioni più veritiere. E non mancano, da parte degli stessi polemisti, svelamenti di tradizioni genuine che sfidano il potere, che gli sopravvivono suo malgrado, tradizioni del popolo, tradizioni invise alla religione e alle istituzioni, tradizioni più vere perché “dal basso” (qui un esempio).
Al tempo stesso, del cibo sappiamo poco e niente, per quanto si è detto. Gli archivi traboccano di documenti inesplorati, le ricerche sui sistemi alimentari (soprattutto meridionali) rimangono insufficienti. Lo studio del presente e del passato alimentare, superata una diatriba sterile sull’invenzione della tradizione, dovrebbe allora orientarsi allo studio della costruzione della tradizione, rivendicando la necessità di una critica costruzionista e costruttiva. Abbandonando una volta per tutte l’idea che il passato – vero o presunto – sia un cominciamento che spiega il presente. Ammettendo che alle tradizioni tutti noi aderiamo ogni tanto, e che esse esistono nella società, eppure su questi fenomeni, specie quando coinvolgono il gusto, c’è ancora tanto da conoscere. Additare continuamente la politica e il marketing di averci convinti di qualcosa, come il debunking fa, è onestamente un po’ troppo poco.
Un dibattito costruttivo sul cibo deve includere la contemporaneità, non come luogo della mistificazione e dell’artifizio, né come semplice meta di arrivo. Se la cucina, come sempre si ripete, vive di traduzione e tradimenti, ciò comporta che prendere a modello l’invenzione condurrà a questioni mal poste, sin dal principio. E sarebbe davvero difficile comprendere l’apoteosi delle fettuccine Alfredo, se non in un intento provocatorio che ha, come sfondo, lo sfruttamento dello stesso schema sciovinista che apparentemente critica: chi nega l’esistenza nella cucina italiana della pasta al burro o della pasta alla panna? Perché dovremmo giustificarne la veridicità rifacendoci a un originale o a un inventore? Nel migliore dei casi, chiamare in causa una competizione storica offrirà un’altra versione – altrettanto provvisoria – alla quale credere.
Il Marsala che beviamo oggi, come tutti i vini in commercio ha tanto di diverso da quello degli inglesi. Ma di questo poco sappiamo, perché ci si ostina sul suo istante fondativo (alloctono) e sulla sua decadenza (autoctono). Metafore siciliane da cliché. Eppure i mutamenti nel tempo dei vini italiani, come le rughe su un volto, non sono un incidente, ma il segno solo superficiale di una vita lunga e intensa. L’approdo degli inglesi è solo una delle innumerevoli circostanze che ha consentito lo sviluppo (non la nascita) di una delle aree d’Italia più vocate alla viticoltura, che per qualche ragione è lì e non altrove. E, a difesa del martirizzato Pomodoro di Pachino IGP, pressoché tutto l’ortofrutta a cui abbiamo accesso è basato su ibridi, spesso e volentieri esito della ricerca genetica internazionale. Perché metterne in questione la falsa autoctonia, tenendo implicitamente per buona un’idea di autoctonia impraticabile ai tempi nostri? Proprio su un prodotto che, grazie all’indicazione geografica, della propria origine genetica non fa mistero, diversamente da altri che sono privi di disciplinare. Tutto ciò che abbiamo attorno potrebbe essere tacciato di invenzione, a certe condizioni. Al contrario, il cibo potrebbe aiutarci a scorgere i limiti e la a-storicità della stessa idea di invenzione che, se intesa secondo una accezione comune, rimane troppo legata all’intenzione, al gesto, all’autorialità, alla prima volta, al genio, all’intuizione, al progetto. Un’idea di cucina da programma televisivo, di cui bisogna sbarazzarsi.
Dire che il Gambero di Mazara non esiste, quindi, vale quanto dire che Colombo non ha veramente scoperto l’America o che Brunelleschi non ha veramente inventato la prospettiva. Che esistano è evidente a tutti. Come e perché siano diventati quello che sono, si conosce un po’ meno. L’attenzione alla costruzione delle tradizioni, e non alla loro invenzione, si porrà allora come obiettivo capire in che senso riteniamo che il Parmigiano Reggiano è il re dei formaggi italiani e che Brunelleschi ha inventato la prospettiva. Mantenendoli nella cornice della storia e quindi tenendo sempre ben fermo il qui e ora a cui siamo condannati. Cercando di comprendere qual è la linfa culturale che rende certi miti tali, quali appassionanti riscritture si sono avvicendate, a quale fame di senso, oltre che di cibo, una versione egemone può servire. Si tratta di un’inevitabile cornice semiotica e sociale dei fatti, oltre che storica, alla quale fanno capo gli stessi meccanismi retorici e veridittivi che il debunking utilizza.